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29/12/2008 (Archivio storico)

Commento al Messaggio di Benedetto XVI per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2009 “Combattere la povertà, costruire la pace”

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 Commento al Messaggio di Benedetto XVI per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2009 “Combattere la povertà, costruire la pace”

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Antonio Papisca*

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1. La povertà è, allo stesso tempo, causa ed effetto di aspri conflitti sociali e di guerre. Benedetto XVI denuncia questa perversa spirale che è, in buona misura, alimentata da una globalizzazione senza regole. E cita Giovanni Paolo II nel sottolineare che la globalizzazione “si presenta con una spiccata caratteristica di ambivalenza” e quindi va governata con oculata saggezza.

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Un recente documento del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite,   intitolato “Principi-guida su povertà estrema e diritti umani; i diritti del Povero”, sottoposto alla consultazione degli stati, delle organizzazioni internazionali, delle organizzazioni non governative e dei competenti centri universitari, definisce la “povertà estrema”, da distinguere da altre forme di povertà, come “una condizione umana caratterizzata da persistente o cronica deprivazione di risorse, capacità, scelte, sicurezza e potere necessari per il godimento di un adeguato standard di vita e dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali”.

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Il Papa offre una più articolata tipologia della povertà. Questa non è soltanto materiale, c’è anche una povertà relazionale, morale e spirituale che si riscontra anche, e soprattutto, nelle società che fino a ieri si vantavano di chiamarsi  dell’opulenza.

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Benedetto XVI segnala le molteplici distorsioni nel modo di affrontare la povertà, a cominciare dall’arbitraria correlazione, in termini di causa e di effetto, tra sviluppo demografico e povertà. La denuncia è perentoria: “Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l’eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani”. C’è quindi la denuncia della povertà dei bambini: “Quando la povertà colpisce una famiglia, i bambini ne risultano le vittime più vulnerabili: quasi la metà di coloro che vivono in povertà assoluta oggi è rappresentata da bambini”. E c’è la denuncia della forsennata corsa al riarmo: “le ingenti risorse materiali e umane impiegate per le spese militari e per gli armamenti vengono di fatto distolte dai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri e bisognosi di aiuto”.

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I dati statistici parlano chiaro: mentre 963 milioni di persone stanno morendo di fame, come denunciato dal recente rapporto della FAO, 40 milioni in più dell’anno precedente, nel 2007 le spese militari nel mondo (SIPRI Yearbook 2008) sono state di 1.339 miliardi di dollari, con un incremento del 6% rispetto all’anno precedente, del 45% a partire dal 1997. Nelle Americhe sono stati spesi 640 miliardi, con un incremento del 63% sempre rispetto al 1997, in Europa 370 (+ 16%), in Africa 18.5 mliardi (+ 51%), nel Medio Oriente 91,5 miliardi (+62%). Tra i paesi che più alimentano il commercio internazionale delle armi figurano, nell’ordine: Usa (547 miliardi, 45% del commercio mondiale), Regno Unito (59,7, 5%), Cina (58,3, 5%), Francia (53,6, 4%), Giappone (43,6, 4%), Germania (36,9, 3%), Russia (35,4, 3%), Arabia Saudita (33,8, 3%), Italia (33,1, 3%), India, Corea del Sud, Brasile (15,3, 1%), Canada (15,2, 1%), Australia (15,1, 1%), Spagna (16,4, 1%). I maggiori importatori di armi convenzionali risultano essere la Cina (12%) e l’India (8%). Numero di testate nucleari:  USA (4.075), Russia (5.189), Regno Unito (185), Francia (348), Cina (176), India (60-70), Pakistan (60), Israele (80) (il SIPRI tiene a precisare che si tratta di dati approssimativi).

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Delle 100 maggiori imprese coinvolte in queste perverse  transazioni, 41 sono degli Usa e 34 dell’Europa Occidentale (con sostanziosa partecipazione idi aziende italiane). La Cina è il paese che più ha importato armi convenzionali dal 2003 al 2007: per il 19% sul totale delle sua importazioni.

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2. Con un linguaggio che non ammette fraintendimenti, il Papa ammonisce che “le distorsioni di sistemi ingiusti prima o poi presentano il conto a tutti”. E aggiunge: “solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado”.

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Viene spontaneo ricordare che nella sua prima Enciclica (“Redemptor hominis”, marzo 1979), Giovanni Paolo II affermava che “sulla strada dell’indispensabile trasformazione delle strutture della vita economica non  sarà facile avanzare se non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore… Lo sviluppo economico, con tutto ciò che fa parte del suo adeguato modo di funzionare, deve essere costantemente programmato e realizzato all’interno di una prospettiva di sviluppo universale e solidale dei singoli uomini e dei popoli”. Poi, la denuncia: “Senza di ciò, la sola categoria del ‘progresso economico’ diventa una categoria superiore che subordina l’insieme dell’esistenza umana alle sue esigenze parziali, soffoca l’uomo, disgrega le società e finisce per avvilupparsi nelle proprie tensioni e negli stessi suoi eccessi”.

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E’ la profetica diagnosi del momento drammatico che stiamo vivendo, carico di incertezze, di paure, di violazioni estese e reiterate dei diritti umani, di arretramenti sulla via della civiltà del diritto e della civiltà del lavoro.

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Il neoliberismo teorizzato e praticato negli ultimi decenni ha consentito di costruire una casa dorata per pochi (circa 20% della popolazione mondiale), ma sulla sabbia, cioè sulla precarietà, sull’esclusione e sulle sofferenze dei molti. Ora questa casa è a rischio di implosione o di demolizione a causa sia delle contraddizioni che si sono accumulate al suo interno, sia del dolorante risentimento dei diseredati e dei precari del mondo, che bussano alle sue porte e, ora le trovano chiuse, ora riescono a entrare ma divenendo spesso oggetto di discriminazioni, razzismo, xenofobia, sfruttamento di mano d’opera, caporalato.

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 “Le distorsioni presentano il conto a tutti”: detta dal Papa, è una frase molto forte che interpella l’etica, il diritto, e la politica. E’ il “conto” del neoliberismo selvaggio, fatto di disoccupazione, speculazioni finanziarie, cessazione forzata di autosufficienza alimentare per molte popolazioni del pianeta, guerre, malattie pandemiche, secolarizzazioni-tabula rasa di identità.

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E’ il caso di ricordare che a  partire dal 1964, anno in cui si tenne a Ginevra la prima Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (Unctad), i paesi di nuova indipendenza rivendicarono un “Nuovo Ordine Economico Internazionale”, NOEI, che rispondesse alla necessità, tra l’altro, di riequilibrare i ‘termini di scambio’ tra paesi industrializzati e paesi ad economia arretrata nonché di trasferire dal nord al sud tecnologia appropriata.

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Nel 1974 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite varò, grazie alla maggioranza costituita dai paesi in sviluppo e non-allineati, una solenne Dichiarazione per la creazione appunto del NOEI, con allegato Programma d’azione. I governi occidentali, capeggiati dall’allora Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, si opposero inneggiando al libero mercato costi-quel-che-costi: la lettura dei verbali dell’Assemblea Generale attesta della violenza verbale usata in quella circostanza. La Dichiarazione, approvata dalla maggioranza formata dai paesi del sud del mondo, fu subito insabbiata dall’orgia del neoliberismo inneggiante alla deregulation, alla competitività, all’economia ‘virtuale’, allo svilimento delle Nazioni Unite, alla proscrizione di qualsiasi intervento pubblico nell’economia. Come noto, baldi alfieri della de-regulation furono il Presidente Ronald Reagan e la Signora Margaret Thatcher. Fu subito chiaro che dietro la deregolamentazione economica si nascondeva il disegno della deregolamentazione istituzionale, cioè del deliberato indebolimento delle organizzazioni internazionali multilaterali. All’ONU fu contrapposto la a-democratica, non-trasparente prassi dei ‘vertici’: dal G-7 al G-8 e al G-20. Alla base di questo verticismo, rivelatosi altamente autoreferenziale, stava la dismissione del ‘nuovo’ Diritto internazionale fondatato sulla Carta delle Nazioni Unite, sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e sulle successioni Convenzioni giuridiche in materia, in funzione del recupero del vecchio Diritto delle sovranità statuali (nazionali, armate, confinarie). Il richiamo della foresta si fece, paradossalmente, ancora più forte dopo il crollo del Muro nel 1989. A partire dall’inizio degli anni novanta del secolo scorso, è infatti sopraggiunta la criminosa avventura alimentata dai fondamentalismi terroristici e dal tentativo della superpotenza (e, dietro di essa, di altri stati) di riappropriarsi di quel “diritto di fare la guerra” che la Carta delle Nazioni Unite ha cancellato, una volontà per tutte, dal libro della legalità.

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Enorme è la responsabilità di coloro che hanno esaltato, teorizzato, insegnato e imposto il mercato come l’alfa e l’omega del vivere, la speculazione finanziaria addirittura come incentivo alla ‘nuova economia’, la de-regolamentazione come panacea di ogni male, la guerra preventiva e le occupazioni territoriali come la via sicura per difendere i diritti umani e inoculare democrazia ovunque nel mondo.

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E’ lecito chiedersi: decidere politiche che danno per scontato, in nome della ‘ragion di mercato’ (e di ‘casa dorata’) che si debbano lasciar morire di fame 963 milioni di essere umani e che si mettano sul lastrico della disoccupazione milioni di famiglie,  è forse meno grave dei crimini per i quali è competente a giudicare la Corte Penale Internazionale? Nel quasi mezzo secolo di deregulation quanti sono stati i morti, quante le offese alla dignità umana, quante le risorse materiali e umane sperperate?

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I disastri sono tuttora in corso. Noi che li stiamo subendo siamo legittimati a presentare il conto ai responsabili, cioè a pronunciare la loro incondizionata condanna morale, politica, se non (ancora) compiutamente giudiziaria, com’è invece (già) possibile per chi perpetra crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

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Ci è moralmente e civicamente vietato di fare sconti.

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“Il male ha sempre un volto e un nome: il volto e il nome degli uomini e delle donne che lo scelgono” (Giovanni Paolo II nel Messaggio per il 1° gennaio 2005). Non la povera gente, ma altri devono pagare il conto di fronte alla giustizia internazionale per le criminose scelte politiche che hanno imposto a tutti.

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3. Il citato documento del Consiglio Diritti Umani sottolinea che “la povertà estrema e l’esclusione dalla società costituiscono violazione della dignità umana; conseguentemente, l’inclusione in programmi nazionali e internazionali di misure per eliminare la povertà e l’esclusione costituisce una priorità”: priorità nell’agenda della governance globale.

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Nel suo Messaggio, il Papa sottolinea che “ogni forma di povertà imposta, ha alla propria radice il mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana”: questa deve essere considerata “nell’integralità della sua vocazione” e devono essere rispettate “le esigenze di una vera ‘ecologia umana’”.

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L’ecologia cui fa riferimento il Papa, è la strategia sociale e politica fondata sul principio dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani, che traduce la verità ontologica dell’integralità dell’essere umano, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia, soggetto originario di diritti fondamentali e di responsabilità individuali e sociali.

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La pace si costruisce “solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole”. La lotta contro la povertà, a cominciare dallo sradicamento della povertà estrema, è obiettivo prioritario di qualsiasi politica che miri alla “crescita ragionevole”. La “ragionevolezza” della crescita è indicizzata dai parametri dello ‘sviluppo umano’, così come definito, e costantemente aggiornato, dai Rapporti annuali del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. Gli indicatori di ‘sviluppo umano’ sono di carattere sociale, economico e politico, sono cioè tutti i diritti umani quali proclamati dalla Dichiarazione Universale del 1948 e dai Patti internazionali del 1966, rispettivamente sui diritti economici, sociali e culturali, e sui diriti civili e politici.

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Per governare la globalizzazione il Papa afferma che “è necessario un ‘codice etico comune’, le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano”. Segno dei tempi: l’articolo 1 della Dichiarazione Universale conferma che il ‘nuovo’ Diritto internazionale ha una radice di carattere trascendente: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. E’ dunque lo stesso diritto positivo che dice esplicitamente che i diritti “fondamentali” – non altri diritti di più affievolita valenza giuridica - ineriscono alla natura della persona umana. Non si insisterà mai abbastanza sulla necessità di riferirsi puntualmente a questo Diritto che ha recepito principi di etica universale e se ne fa traghettatore nei campi della politica e dell’economia con la forza che è propria della norma giuridica ‘costituzionale’, come dire di altissima valenza precettiva: richiamarlo col suo nome significa aiutarlo a radicarsi nella prassi.

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Il Papa parla dello sviluppo della cultura della legalità, dell’investimento nella formazione di persone capaci di farsi carico di  una “cultura dell’iniziativa” informata ad una  triplice “corretta logica”: economica, politica, partecipativa. E sottolinea  “la preziosità e il vantaggio delle iniziative economiche della società civile e delle amministrazioni locali per la promozione del riscatto e dell’inclusione nella società” soprattutto di quei gruppi vulnerabili che sono “difficilmente raggiungibili dagli aiuti ufficiali”. Il Papa fa appello alle capacità della società civile “poichè lo sviluppo è essenzialmente un fenomeno culturale e la cultura nasce e si sviluppa nei luoghi del civile".

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4. C’è chi, in seno all’attuale classe governante, dice che occorre stabilire nuove regole. Si deve essere radicalmente sospettosi nei riguardi di una prospettiva che vedrebbe coloro stessi che hanno provocato i danni da ‘deregulation’ farsi paladini del nuovo. Soprattutto in ragione del fatto che le regole buone e giuste esistono e che esistono gli ambiti istituzionali in cui decidere politiche coerenti. Intendo dire che la bussola del buon governo è il codice universale dei diritti umani, fatto di circa 130 convenzioni giuridiche internazionali, e che l’ONU e le altre legittime istituzioni multilaterali sono idonee a fare esprimere, in un contesto di trasparenza, la volontà politica di cui c’è bisogno. Dunque, “Agenda diritti umani” per l’ecologia politica, che significa: ogni diritto fondamentale, capoverso di un capitolo di politiche pubbliche con puntuali indicazioni di priorità operative.

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Per esempio, in materia di lavoro: si parta col piede giusto, cioè dal diritto al lavoro come diritto fondamentale della persona, non dalle esigenze e dai condizionamenti (determinismi) del mercato, che spesso significano gli interessi di chi più ha. L’obiettivo deve essere la piena occupazione, non la flexicurity e il precariato ‘virtuoso’. Ci si riferisca alle pertinenti norme del vigente Diritto internazionale dei diritti umani, a cominciare dall’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, ratificato dall’Italia nel 1977:

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“1. Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto al lavoro, che implica il diritto di ogni individuo di ottenere la possibilità di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente scelto od accettato, e pren,dereanno le misure appropriate per garantire tale diritto. 2. Le misure che ciascuno degli Stati Parti dovrà prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno programmi di orientamento e formazione tecnica e professionale, nonché l’elaborazione di politiche e di tecniche atte ad assicurare un costante sviluppo economico, sociale e culturale ed un pieno impiego produttivo, in condizioni che salvaguardino le fondamentali libertà politiche ed economiche degli individui” (corsivo aggiunto).

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Questo articolo va letto nel contesto strategico dell’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il cui contenuto è un manifesto di stato sociale a tutto tondo:

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“1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. 2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale”.

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E’ come una carezza che il ‘nuovo’ Diritto internazionale, sempre più umano, fa alla eguale dignità di “tutti i membri della famiglia umana”. Poiché la persona umana, come prima sottolineato, è un essere integrale, uno dei principi fondamentali del vigente Diritto internazionale è quello dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani: civili, politici, economici, sociali, culturali. Come dire: ‘stato di diritto’ e ‘stato sociale’ sono le due facce di quella stessa medaglia che si chiama, con l’espressione usata da Paolo Maddalena, Giudice della Corte Costituzionale, “stato sociale di diritto”.

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La nostra Costituzione statuisce che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Senza lavoro, c’è la povertà e sparisce la Repubblica. O, ciò che fa lo stesso, la “casa dorata’ sprofonda.

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Si dica allora ‘lavoro’ prima di dire ‘consumare’. E la politica per la piena occupazione sia, insieme con la politica per l’educazione, al primo punto dell’agenda del buon governare.

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5. Per porre in atto le implicazioni operative di questo messaggio, occorre una classe governante che sia competente e sensibile in materia di diritti umani, che prenda in seria considerazione il documento del Consiglio Diritti Umani delle Nazioni sulla povertà estrema e i diritti del Povero. Vale la pena di citarne qualche brano.

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Punto 4: “Le persone che vivono nella povertà estrema hanno diritto al pieno godimento di tutti i diritti umani, compreso il diritto di partecipare alla presa delle decisioni che le riguardano, e di contribuire al benessere delle loro famiglie, delle loro comunità e del genere umano”.

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Punto 6: “Gli stati, le organizzazioni intergovernative, le imprese nazionali e multinazionali, e le organizzazioni non governative hanno, tra le altre, la responsabilità di tenere in conto e rispettare pienamente i diritti umani, in particolare i principi sanciti nel presente documento. La violazione di questi diritti ad opera delle entità sopra indicate, non importa se per negligenza o per deliberata decisione, devono essere considerate come violazioni dei diritti umani e i loro autori devono essere considerati responsabili con corrispettive conseguenze legali”.

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Punto 11: “La discriminazione nei riguardi delle persone che vivono in povertà estrema deve essere punita come violazione dei diritti umani”.

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Punto 20: “Ogni essere umano ha diritto ad una alimentazione adeguata, appropriata, sana ed ha il diritto di non essere esposto al rischio della fame o della carestia. Gli stati e la comunità internazionale sono obbligati ad accordare a tutti gli esseri umani, individualmente o collettivamente, il diritto di accesso fisico ed economico ad appropriata alimentazione”.

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Punto 29: “Le persone in povertà estrema hanno diritto all’acqua potabile e lo Stato è obbligato a fornire loro questo servizio gratuitamente”.

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Punto 30: “Il diritto all’acqua potabile è direttamente collegato al diritto alla vita”.

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Punto 42: “Poiché i diritti umani sono universali, si richiede l’azione concertata della comunità internazionale allo scopo di rendere possibile la loro realizzazione. Per gli Stati, in particolare per quelli sviluppati, la cooperazione internazionale è un dovere al quale essi devono destinare una porzione significativa delle loro risorse”.

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Siamo in presenza di un documento di alta caratura morale e politica. Chi parla di ‘nuove regole’ deve partire dai principi che in esso sono elucidati, in particolare da quello secondo cui la cooperazione internazionale è un dovere, tanto più impellente quanto più direttamente interpella la coscienza dei governanti e delle società dei paesi ricchi. Senza tralasciare, ovviamente, le responsabilità delle classi governanti dei paesi poveri.

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Per procedere, con decisioni politiche adeguate, sulla via della civiltà del diritto umanocentrico, occorre valorizzare i due livelli di governance che corrispondono, rispettivamente, al polo iniziale e al polo terminale della dinamica della sussidiarietà: quello dei Governi Locali (Comuni, Regioni, Lander…) e quello delle istituzioni multilaterali, con al centro l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il suo sistema di agenzie specializzate.

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Nell’era della globalizzazione e della de-territorializzazione della politica, occorre favorire l’interazione quanto più diretta possibile fra questi ‘poli’ in uno spazio in cui le formazioni solidaristiche di società civile possano agire pacificamente, apportando legittimazione e partecipazione democratica alle istituzioni e ai loro processi decisionali.

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Occorre potenziare il ruolo delle Nazioni Unite, nella consapevolezza che “tutti i membri della famiglia umana” hanno bisogno di una “casa comune”, al cui interno perseguire obiettivi di bene comune universale, tra i quali il disarmo e l’allestimento di un valido sistema di sicurezza umana collettiva, e gestire i beni pubblici globali, tra i quali l’acqua e l’ambiente naturale. Le Nazioni Unite vanno potenziate soprattutto attraverso la loro democratizzazione, che si consegue, per esempio, creando una Assemblea Parlamentare a fianco dell’attuale Assemblea Generale, e un Comitato dei Governi Locali, e valorizzando l’apporto delle oltre 3.000 organizzazioni non governative con status consultivo. Tra gli obiettivi, primaria importanza dovrà essere data al rilancio del Consiglio Economico e Sociale, ECOSOC, quale Consiglio di sicurezza economica e sociale, rendendo ad esso possibile di esercitare effettivi poteri di indirizzo e coordinamento delle istituzioni economiche internazionali secondo principi di giustizia sociale.

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Il governo dell’economia e della politica mondiale non può essere lasciato nelle mani dei “Vertici”, che sono il contraltare delle Nazioni Unite, dove si disegnano strategie che si sono dimostrate criminosamente fallimentari, dove non c’è spazio per la trasparenza e la democrazia. E’ bene che i governanti si incontrino fra loro, quanto più spesso possibile, e si scambino idee e socializzino e, perché no, fraternizzino davanti al caminetto, senza però creare consorterie d’affari. Ma l’istituzionalizzazione dei Vertici, così come pervicacemente perseguita in questi ultimi decenni, non è la governance di cui il mondo ha bisogno. Essa è alternativa allo sviluppo delle Nazioni Unite e del sano e trasparente multilateralismo.

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Proprio partendo dalla diagnosi della povertà estrema e dallo scandalo della spesa militare – macroscopiche ‘strutture di peccato’ -, il primo segnale del cambio di rotta deve essere costituito dal prendere in seria considerazione, una volta per tutte, la riforma delle Nazioni Unite nel senso prima indicato del contestuale ‘potenziare e democratizzare’.

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* Cattedra Unesco “Diritti umani, democrazia e pace”, Università di Padova.

Aggiornato il

16/7/2009