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6/12/2015
Antonio Papisca mentre interviene durante i lavori dell'udienza conoscitiva al Parlamento europeo per l'adesione dell'Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti umani, Strasburgo, 18 marzo 2010.
© Parlamento Europeo

L’inscindibile binomio ONU-Codice internazionale dei diritti umani - Invervista al Prof. Papisca

In occasione della Giornata Internazionale dei Diritti umani, pubblichiamo il testo dell'invervista al Prof. Antonio Papisca (fonte: unric.org)

Le Giornate internazionali promosse dalle Nazioni Unite, al di là dell’aspetto meramente celebrativo e dell’occasione che offrono per aggiornare e diffondere la conoscenza di questo o quel tema, intendono tutte motivare all’azione. Questa valenza operativa è bene evidenziata dalla scelta tematica della Giornata 2015. All’insegna di ‘i nostri diritti, le nostre libertà, sempre’, la Giornata lancia una mobilitazione su scala mondiale allo scopo di far conoscere il diritto internazionale che riconosce e tutela appunto i diritti umani e le libertà fondamentali. Il focus è in particolare sui due Patti internazionali rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, nel 50° anniversario della loro approvazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre del 1966.

D. La prima domanda che sorge spontanea è: non bastava la Dichiarazione Universale, adottata diciotto anni prima dalla stessa Assemblea Generale?

R. La campagna che parte il 10 dicembre 2015 serve a rispondere anche a questa domanda.

La Dichiarazione Universale è una sorta di DNA dell’intero corpo normativo dei diritti umani che però nasce, come atto formale, con la veste per così dire povera di una ‘raccomandazione’, non con quella, molto più ricca dal punto di vista dell’obbligatorietà giuridica, di un ‘trattato’ o di una ‘convenzione’ internazionali. La Dichiarazione in quanto tale è sprovvista di una specifica strumentazione operativa che renda effettivo l’obbligo di rispettare i grandi principi che essa proclama: intendo dire procedure di carattere sopranazionale che sottopongano gli stati a controlli ed eventuali sanzioni in caso di violazione dei diritti. Nel 1948 i tempi non erano maturi per compiere questo passo, ma già nel 1952 si cominciò a negoziare in sede di Commissione diritti umani delle Nazioni Unite e di terza Commissione dell’Assemblea Generale, per dare gambe più robuste alla Dichiarazione. Il processo richiese quattordici anni di lavoro. C’era chi avrebbe voluto la creazione di un unico strumento giuridico nella forma del trattato internazionale, chi invece pretendeva che se ne varassero due distinti a seconda dei diritti da tutelare: civili e politici da un lato, economici, sociali e culturali dall’altro. Questo secondo approccio ebbe la meglio. L’assunto di fondo era che le norme relative al primo gruppo di diritti avrebbero carattere di immediata precettività, diversamente da quelle sui diritti del secondo gruppo che avrebbero carattere di programmaticità

D. Si può comunque dire che la Dichiarazione Universale è una madre feconda…

R. Certamente. Partendo da essa, hanno visto la luce non soltanto i due Patti del 1966 ma anche una folta serie di altri strumenti giuridici (Convenzioni e Protocolli), circa 130 con raggio di operatività sia mondiale sia ‘regionale’: dalla Convenzione sui dirittti dei bambini a quella sui diritti delle persone con disabilità, dalla Convenzione europea del 1950 alla Convenzione interamericana del 1969, dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981 alla Carta araba del 2004, dal Protocollo sull’abolizione della pena di morte a quello sul divieto di impiegare i bambini e i minori in azioni di guerra, tanto per fare qualche esempio. Per non dire delle Dichiarazioni’: da quella sui diritti dei popoli indigeni a quella sull’educazione e la formazione ai diritti e a quella che viene considerata come la ‘Carta’ dei difensori dei diritti umani. Per capire la fertilità originaria della Dichiarazione Universale e la consistenza di ciò che essa ha generato, può essere utile usare la metafora dell’albero. La Dichiarazione è la radice, i due Patti sono il tronco, le Convenzioni e i Protocolli sono i rami. Faccio notare che la Dichiarazione è sempre letteralmente richiamata dalle sue ‘creature’, un dato che consente di dire che da semplice raccomandazione è stata elevata al rango di Grundnorm, norma fondamentale dell’ordinamento internazionale e di qualsiasi altro ordinamento.

D. Tornando ai due Patti: perché un trattamento diverso per diritti che sono, tutti, egualmente fondamentali?

R. La ragione principale è che gli stati sono restii a sottoporsi a vincoli sul terreno delle politiche economiche e sociali. Per la realizzzazione dei diritti civili e politici possono anche bastare buone leggi e buone sentenze giudiziarie, per quelli economici e sociali occorre soprattutto mobilitare risorse materiali e anche operare interventi pubblici che possono condizionare la dinamica del libero mercato. Quanto ai diritti culturali, si tocca la materia nevralgica delle identità nazionali, dei diritti delle minoranze e dei sistemi educativi, una materia che tradizionalmente è riservata alla gelosa sovranità degli stati (a tutela delle rispettive culture dominanti).

D. Quindi si avalla una arbitraria discriminazione fra diritti…

R. Questo avviene contraddicendo la verità ontologica dell’integrità dell’essere umano, fatto di materia e di spirito, di coscienza, di ragione e di sentimenti, ragion per cui il diritto alla salute e il diritto al lavoro sono altrettanto fondamentali del diritto a libere elezioni.

D. Su questo terreno qual è la grande sfida?

R. Dare applicazione al principio dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani, che  uno dei principi generali del nuovo diritto internazionale. La sua traduzione in termini concreti consiste nel dare corso a politiche di stato sociale oltre che, ovviamente, di stato di diritto, in un contesto globale di governance multilivello. In pratica, si tratta di contrastare le derive del neoliberismo e del collegato mito dell’austerità, con politiche pubbliche di sviluppo.

D. Il dilagare dei fondamentalismi violenti sembra voler segnare la sconfitta del diritto internazionale dei diritti umani e delle collegate strumentazioni di garanzia fornite dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni multilaterali.
E c’è chi rilancia il tema dello scontro di civiltà…

R. Già, uno scontro è certamente in atto, ma non è quello teorizzato da Samuel Huntington tra occidente e islam. Lo scontro reale è fra un sottosistema di subcultura omicidiaria e il sistema globale della cultura dei diritti umani in fase di universalizzazione reale. In ogni angolo della terra, dove c’è fame e guerra si alza la stessa invocazione: diritti umani. In sempre più numerose università, nei vari continenti, si stanno sviluppando l’insegnamento e la ricerca per l’educazione ai diritti umani. E si moltiplicano le reti transcontinentali di centri universitari specializzati in materia. Si pensi anche alla miriade di associazioni e alle moltitudini di human rights defenders che sono attivi in tutti i paesi. Si pensi ai meriti di Amnesty International nel diffondere la conoscenza del nuovo diritto internazionale e farne l’effettività con azioni concrete sul campo, si pensi a Medici senza Frontiere, a Save the Children, a Emergency....

D. Già, rispettare il diritto internazionale dei diritti. Cosa fare per rendere effettivo questo obbligo?

R. La risposta sarebbe lunga. Mi limito a qualche suggerimento: conoscere e far conoscere questo che è un Diritto autenticamente universale perchè umanocentrico, in particolare i suoi principi generali: da quello dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti a quello del migliore interesse del bambino; non indebolirne l’efficacia reclamando sempre più ‘nuovi diritti’ che, nella maggioranza dei casi, non sono ‘fondamentali’; lottare perchè siano potenziati gli organismi preposti a monitorare il comportamento degli stati, a cominciare dai vari Comitati istituiti dalle Convenzioni internazionali; attivare l’insegnamento ‘diritti umani e cittadinanza democratica’ nelle scuole di ogni ordine e grado; far funzionare la commissioni nazionali indipendenti per i diritti umani; sviluppare buone pratiche di dialogo interculturale e interreligioso; operare affinchè il principio di sussidiarietà sia adeguatamente utilizzato nella costruzione di un ordine mondiale di governance multilivello; lottare contro le nuove schiavitù, l’omofobia, le discriminazioni razziali e religiose, la violenza sulle donne, il traffiking, l’abuso dei bambini…; reclamare il rafforzamento e la democratizzazione delle Nazioni Unite; lottare affinchè la pace sia riconosciuta quale diritto fondamentale della persona e dei popoli; pretendere che si dia corso a politiche di disarmo reale, di sviluppo umano e di sicurezza umana….

Sia ben chiaro, quando diciamo diritti umani non recitiamo una bella poesia, diciamo invece: ‘diritti umani, agenda politica’, da realizzare nello spazio senza confini e senza muri che è proprio dei diritti che ineriscono alla eguale dignità di tutti i membri della famiglia umana.

D. Un’ultima domanda. L’Organizzazione delle Nazioni Unite, il cui statuto ha compiuto quest’anno settanta anni, continua ad essere oggetto di pesanti critiche.

R. Senza l’ONU non ci sarebbe il diritto internazionale dei diritti umani con gli sviluppi che questo ha indotto anche nel campo della giustizia penale internazionale, non ci sarebbe la visibilità che le organizzazioni non governative hanno assunto con l’esercizio dello status consultivo, non esisterebbe un freno agli appetiti bellicosi di non pochi stati. L’ONU va certamente riformata, ma nel rispetto dei grandi valori di cui è portatrice e garante. E’ inscindibile il binomio ONU-codice internazionale dei diritti umani.