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3/4/2006 (Archivio storico)

Nel 1° anniversario della dipartita di Giovanni Paolo II

E’ difficile riassumere in poche righe la ricchezza di contenuti religiosi, culturali e politici della missione di Giovanni Paolo II per la pace e la giustizia nel mondo.

Joanni Paulo Magno”: a “Giovanni Paolo il Grande” è dedicato l’imponente volume “Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia. Itinerari per il terzo millennio”, a cura di A. Loiodice e M.Vari, Bardi Editore-Libreria Editrice Vaticana, 2003, frutto dei contributi di circa cinquecento giuristi di ogni parte del mondo.

I giovani lo hanno interpellato - coralmente, ad alta voce -“nonno”, “padre”, perfino “zio”.

Papa Wojtyla, dunque, sicura guida culturale e altissima autorità istituzionale, ma anche vicinanza affettuosa nella vita quotidiana di tante persone, famiglie, gruppi in ogni parte del mondo.

Molti governanti ne hanno messo in risalto l’impegno soprattutto per la libertà, cogliendo un aspetto, pur importante, della sua missione. Ma Egli ha avuto una visione molto più ampia della pace e della giustizia, è stato infatti l’appassionato cantore e lo strenuo difensore della dignità della persona nella sua integralità. Difensore Civico Universale della famiglia umana, Egli ha inteso rispondere alla vocazione della Chiesa-Mater et Magistra la quale “per la sua natura universale, è sempre direttamente coinvolta e partecipe delle grandi cause per le quali l’uomo di oggi soffre e spera” (Discorso rivolto al Corpo diplomatico accreditato presso la S.Sede il 10 gennaio 2005). Non a caso in questo stesso Discorso, il Papa include nell’elenco delle “grandi sfide dell’umanità di oggi”, oltre che la libertà, anche la vita, il pane, la pace.

La pace: Giovanni Paolo II ne ha sviscerato i contenuti – dal punto di vista evangelico, morale, politico, istituzionale - all’interno della grande visione dell’ordine mondiale tracciata dalla “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII (1963) in consonanza con i principi del “nuovo” Diritto internazionale che ha radice nella Carta delle Nazioni Unite (1945) e nella Dichiarazione Universale dei diritti umani (1948).

Nell’ottobre del 1978, la personalità di Papa Wojtyla fece irruzione sulla scena mondiale col fragore e la spettacolarità del carisma di razza: per chi crede, col tuono dello Spirito che si manifesta dove, come e quando vuole, e che comunque stupisce e affascina. Larghi strati di opinione pubblica mondiale ne furono subito affascinati. Come se, improvvisamente, ma al momento giusto, si venisse a colmare un vuoto, si rispondesse ad una attesa di leadership di qualità che, per essere stata troppo lunga, non poteva che sfogarsi in gioia ludica.

All’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, alla robusta (al positivo e al negativo) leadership dell’epoca bellica e post-bellica – si pensi a Roosevelt, a Churchill, a Truman, a Pio XII, a Hitler, a Stalin – era succeduta, con breve o punta soluzione di continuità, una leadership qualitativamente altrettanto notevole, caratterizzata più dal carisma personale di immaginare e proporre “stati di affari nuovi” che dalla capacità diciamo così gestionale in ordine agli “stati di affari presenti”: mi riferisco al Segretario generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjold, al Presidente Kennedy, a Papa Giovanni XIII e, perché no, anche a Nikita Kruscev. Dopo la stagione “costituente” di nuovo ordine mondiale degli anni quaranta, ci si sarebbe potuti aspettare, usando una tipologia ben conosciuta alle analisi sociologiche, una generazione di leaders “stabilizzatori-adeguatori”, in contrapposizione agli “innovatori-carismatici”. E invece, per uno degli scherzi della storia difficilmente spiegabili, si ritrovano ad interagire contemporaneamente, e in maniera sostanzialmente consonante e complementare, personaggi il cui messaggio è di chiara portata “costituente”. E’ una generazione la quale, nel suo insieme, passa come una meteora incandescente, aprendo prospettive, seminando valori e lasciando dietro di sé un rimpianto e un affetto grandi almeno quanto le attese suscitate. Siamo in presenza dei continuatori, credibili, della semina di “universali” (Nazioni Unite, Dichiarazione Universale) operata, come sopra ricordato, negli anni quaranta. La loro ‘missione’, in quel preciso momento storico, è di rompere la cappa dell’equilibrio del terrore che aveva, in buona misura, arrestato la maturazione naturale degli “universali”.

Dopo questa meteora, l’immagine della classe governante internazionale è diffusamente percepita come “grigia”, mentre nel profondo della storia (e delle coscienze) i semi buoni e giusti si mantengono vivi.

Cresce la nostalgia dell’esempio.

Giunto “da lontano”, nel momento in cui si diffondeva la consapevolezza degli squilibri causati dall’incalzante globalizzazione nel perdurante stato di contrapposizione tra i blocchi dell’est e dell’ovest e di subalternità delle condizioni di vita dei popoli del sud nei rapporti con il nord, Giovanni Paolo II fu subito “condannato” ad essere leader mondiale, a non disertare uno degli appuntamenti tra più onerosi, ma anche tra i più gratificanti, che la Chiesa Cattolica e i suoi pastori hanno avuto con la storia. Karol Wojtyla arriva in Vaticano con l’esperienza vissuta sia delle efferatezze del nazismo e del comunismo, sia della precarietà delle condizioni di vita dei più poveri e dell’umile, quotidiano lavorare. Durante il ministero episcopale in Polonia, nel corso degli anni settanta, Egli è in grado di captare da vicino i primi segnali di disgelo tra est e ovest a seguito dell’Atto finale di Helsinki, in particolare il fermento della cultura dei diritti umani quale andava diffondendosi negli ambienti universitari dei paesi dell’est (si pensi a “Charta 77”, ideata da Vaclav Havel insieme con intellettuali soprattutto polacchi). Gli è stato quindi naturale coniugare, con questa sua esperienza di vita, il forte messaggio di documenti quali la “Pacem in Terris”, la “Gaudium et Spes” (al cui testo aveva direttamente contribuito), la “Populorum Progressio”, e tradurlo in un’aggiornata visione di nuovo ordine mondiale. Fin dai primi mesi del 1979, Egli parlò dell’esigenza di costruire un “nuovo ordine delle relazioni internazionali” con al centro i diritti umani, tutti: civili, politici, economici, sociali, culturali, da realizzare in base al principio della loro interdipendenza e indivisibilità. All’interno di questa visione globale, Papa Wojtyla prese subito le distanze dai totalitarismi degli “opposti sistemi, così da optare solo per l’uomo” (Discorso di Puebla, 1979), e denunciò apertamente il capitalismo disumanizzante, argomentando: “la sola categoria del ‘progresso economico’ diventa una categoria superiore che subordina l’insieme dell’esistenza umana alle sue esigenze parziali, soffoca l’uomo, disgrega le società e finisce per avvilupparsi nelle proprie tensioni e negli stessi suoi eccessi” (Enciclica “Redemptor Hominis”).

Partendo dai diritti umani, la scelta della pace è per Papa Wojtyla una scelta radicale, la pace o è tutta o non è, non ci sono alternative ad essa. Giovanni Paolo II porta alle sue logiche conseguenze di radicalità quanto venuto maturando nel magistero di quella “successione apostolica pacifista” che inizia con Leone XIII e passa attraverso Pio X, Benedetto XV (la guerra, inutile strage), Pio XI (epistola-enciclica “Mit brennender Sorge” sulla situazione della Chiesa nel Reich germanico, 1937: “…e perciò non Ci stancheremo neanche nell’avvenire di rinfacciare francamente alle autorità responsabili l’illegalità delle misure violente prese finora e il dovere di permettere la libera manifestazione della volontà”), Pio XII (i Radiomessaggi sull’ordine internazionale…), Giovanni XXIII (enciclica “Pacem in Terris”, che rende palese il DNA pacifista di questa successione apostolica), Paolo VI (che parla di un “ministero dei diritti umani”, come di una nuova stagione del diaconato), per arrivare al nostro Giovanni Paolo II (la guerra, avventura senza ritorno). L’approccio è quello del “sì sì, no no”. Il magistero di Papa Wojtyla non può essere relativizzato invocando prudenziali eccezioni alla guerra, per la ragione essenziale – evidentissima - che esso si informa all’approccio della vita, da garantire in tutto il suo naturale svolgimento. Chi tenta di annacquare l’approccio “sì sì, no no”, distinguendo tra guerra giusta e ingiusta, tra guerra indiscriminata e guerra chirurgica, non coglie la visione wojtyliana nella sua interezza e organicità, argomenta e, purtroppo, anche opera nella logica, tanto comoda quanto schizofrenica, della mano sinistra che non sa cosa fa la destra (si veda la vicenda della “guerra preventiva” contro l’Iraq). La visione di Giovanni Paolo II si basa sul binomio vita-pace, che è oggi possibile, più di ieri, rispettare nel suo intrinseco carattere di inscindibilità.

La pace è “doverosa”, Egli ha più volte affermato, perché è “possibile”. Ed è possibile perché ci sono alternative reali alla guerra anche nei casi in cui parrebbe difficile perseguire obiettivi di vita e di giustizia senza ricorrere ad atti di guerra: c’è il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite, al cui interno può anche essere usato il militare per fini di ordine pubblico e di giustizia, ma non per i fini omicidi tipici degli atti di guerra.

Nella visione di Giovanni Paolo II, calata nel contesto del mondo globalizzato, la pace internazionale non è separabile dalla pace interna agli stati. Questa visione è in perfetta consonanza con il contenuto dell’articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni essere umano ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale tutti i diritti e le libertà enunciate nella presente Dichiarazione possano essere pienamente realizzate”.

Dignità umana e diritti fondamentali che le ineriscono, vita dei singoli e delle comunità, pace, legalità e istituzioni internazionali sono altrettanti “valori” e “percorsi operativi” che si tengono fra loro. E’ la visione della “via istituzionale alla pace” il cui DNA sta nella “Pacem in Terris”. Papa Wojtyla insiste nel collegare la pace al paradigma etico-giuridico di “tutti i diritti umani per tutti”, passando attraverso il “nuovo” Diritto internazionale (in cui i diritti fondamentali trovano riconoscimento) e le istituzioni internazionali multilaterali, prima fra tutte l’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’alternativa alla guerra sta nel rispettare il vigente Diritto internazionale, il cui nucleo centrale è nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione Universale, e nel far funzionare le Nazioni Unite, perché assolvano al duplice compito di garantire la sicurezza collettiva e lo sviluppo umano.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite deve essere riformata, allo scopo di democratizzarne la strutture e potenziarne le risorse. Devono inoltre essere sostenute le organizzazioni di integrazione continentale e sub-continentale quali, tra le altre, l’Unione Europea e l’Unione Africana. Come noto, dell’Europa Papa Wojtyla ha avuto, fin dall’inizio del suo pontificato, una visione per così dire allargata di “Casa comune europea”. Rivelatore di questa visione pan-europea è il discorso che Egli rivolse ai membri dell’Ufficio di presidenza del Parlamento europeo il 5 aprile del 1979: “…i partners così riuniti non dimenticheranno evidentemente che da soli non costituiscono tutta l’Europa; continueranno ad essere coscienti della loro comune responsabilità per il futuro di tutto il continente, quel continente che al di là della divisioni storiche, delle sue tensioni e dei suoi conflitti, ha una profonda solidfarietà, alla quale ha largamente contribuito una identica fede cristiana. E’ quindi tutta l’Europa, che deve essere beneficiaria dei passi ogi compiuti, ed anche gli altri continenti verso i quali l’Europa potrà rivolgersi con la sua specifica originalità”.

Giovanni Paolo II ha sviluppato il suo magistero “dignità umana- vita- pace-diritti umani-economia di giustizia-dialogo delle civiltà”, accompagnandolo con innumerevoli “gesti di pace”: si pensi, tanto per fare qualche esempio, alla visita al Muro del Pianto a Gerusalemme e agli incontri interreligiosi.

Oltre che in documenti solenni come le numerose Encicliche ed Esortazioni Apostoliche (si pensi, tra queste ultime, a quella intitolata “Ecclesia in Europa”), il magistero si è espresso anche in documenti più umili, per così dire d’occasione, in particolare nei Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace, nei quali è sistematicamente sviluppata quella che lo stesso Papa chiama la “grammatica della pace”.

Gli ultimi due Messaggi sono particolarmente significativi.

Quello del 2004 riassume, nelle sue linee essenziali, la visione wojtyliana dell’ordine mondiale, con particolare accento sulla difesa del Diritto internazionale e delle Nazioni Unite.

Il Messaggio del 2005, segnato da accenti drammatici e d’ispirazione chiaramente apocalittica, è un forte appello al discernimento, alla responsabilità, alla speranza.Il Papa, dopo tanti anni di impegno per la pace e i diritti umani, è come costretto a fare i conti con il mysterium iniquitatis, in particolare con il criminale disegno dello scontro delle civiltà (clash of civilisations), è come se dicesse: in un mondo, sempre più globalizzato, dove è possibile, più di prima, fare tanto bene, bastano pochissime persone per fare tutto il male possibile. E ammonisce: “il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali…il male ha sempre un volto e un nome”. Ma non si arrende, spes contra spem. Attingendo a San Paolo, ecco la Sua ultima provocazione che è morale, religiosa e civile allo stesso tempo, e che suona quale mandato, quale “missio” per tutti: “La pace è un bene da promuovere con il bene: essa è un bene per le persone, per le famiglie, per le Nazioni della terra e per l’intera umanità; è però un bene da custodire e coltivare mediante scelte e opere di bene”, come dire: traducendo i valori in obiettivi e strategie anche politiche, sociali ed economiche.

Per quanti detengono e deterranno ruoli d’autorità, in qualsiasi campo, compreso quello politico, Papa Wojtyla, e non soltanto per universale vox populi, è un parametro, una misura, un traino. Lo stesso Giovanni Paolo II, nel già citato Discorso al Corpo diplomatico del 12 gennaio 1979, aveva indicato una cordata di personalità, molto ardua e impegnativa, dalla quale prendere esempio: “I ‘mezzi poveri’ sono strettamente legati al primato dello spirito…Sono i segni sicuri della presenza dello Spirito nella storia dell’umanità…per questa scala di valori è sufficiente ricordare, per parlare soltanto dei non cattolici, il mahatma Gandhi, Dag Hammarskjold, il pastore Martin Luther King”.

Antonio Papisca

Aggiornato il

16/7/2009