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A, B e C contro Irlanda (2010): aborto e tutela della salute della donna

Autore: Claudia Pividori (dottoranda in Ordine internazionale e diritti umani, Università La Sapienza, Roma)

Il 16 dicembre 2010, la Grand Chamber della Corte europea dei diritti umani si è finalmente pronunciata sul caso A, B e C c. Irlanda (ricorso n. 25579/05). La decisione, molto attesa in quanto rappresentava un test sull'atteggiamento generale della Corte riguardo alla problematica dell'aborto e, più in generale, in materia di diritti riproduttivi, non ha introdotto novità significative nella giurisprudenza della Corte, che da sempre riconosce agli stati un ampio margine di apprezzamento sui temi legati a tali problematiche. Come noto, l'Irlanda è uno dei pochi paesi del Consiglio d'Europa in cui l'interruzione volontaria di gravidanza è oggetto di una proibizione quasi assoluta (sono esclusi dalla punibilità solo gli aborti effettuati per salvare la vita alla gestante), che coinvolge sia la donna sia i sanitari che la assistono. La normativa vigente tuttavia non punisce il fatto di recarsi all'estero per sottoporsi a pratica abortiva, nel rispetto delle leggi localmente vigenti.

Negli anni recenti la Corte era già stata investita di questioni attinenti al tema dell'aborto, che avevano riguardato la presunta contrarietà della pratica con l'art. 2 (diritto alla vita) ovvero tendevano ad affermare un "diritto all'aborto", eventualmente fondato sull'art. 8 (diritto alla vita privata e familiare). In tali casi, la Corte da un lato ha stabilito che l'art. 2 tutela la vita della persona nata, e non dell'embrione; dall'altro ha riconosciuto che gli Stati hanno un ampio margine di apprezzamento nel legiferare in merito alla liceità o meno dell'interruzione volontaria della gravidanza, così che eventuali normative che la qualificano come reato non sono in principio in contrasto con la Convenzione europea, che pure tutela il diritto alla vita privata (compreso in ambito riproduttivo) e all'autodeterminazione della persona in tale sfera (art. 8).

Nel caso in esame, le ricorrenti mettevano in evidenza in particolare la carenza dei servizi offerti in Irlanda in rapporto alle fasi precedente e successiva all'aborto praticato (legalmente) all'estero.

La controversia A, B and C v Ireland trae origine dai ricorsi di tre donne, due irlandesi e una lituana. In tutti e tre i casi, le ricorrenti sostengono che le restrizioni in tema di pratica abortiva previste in Irlanda le hanno obbligate ad intraprendere una procedura inutilmente dispendiosa, complicata e traumatica, ovvero recarsi in Gran Bretagna per sottoporsi ad aborto, senza sostegno medico adeguato da parte di sanitari irlandesi, con ciò subendo un'interferenza ingiustificata e sproporzionata nella loro vita privata. La terza ricorrente ritiene che ci sia stata anche una violazione dell'art. 2 (diritto alla vita), in quanto la scarsità di informazioni disponibili in Irlanda avrebbe messo a rischio la vita di gestante e nascituro; le prime due fanno altresì richiamo all'art. 3 (trattamento inumano o degradante). Tutte le ricorrenti, come detto, lamentano una violazione dell'art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), tuttavia mentre le prime due ritengono sia stato violato perché le restrizioni in materia di aborto vigenti in Irlanda impediscono di porre fine alla gravidanza anche per ragioni di salute o di benessere generale della donna, la terza fonda il suo ricorso sulla mancanza di adeguate strutture sociosanitarie atte a garantire l'effettivo godimento del diritto ad abortire nel caso di pericolo di vita per gestante. Comune è anche il richiamo alla violazione dell'art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo) e all'art. 14 (divieto di discriminazione) in relazione al fatto che le restrizioni imposte rappresentano un onere che si impone alle ricorrenti in quanto donne, e nel caso della prima ricorrente, in quanto indigente.

La Grand Chamber riconosce il disagio fisico e psicologico imposto dalla illiceità dell'aborto in Irlanda, tuttavia non ritiene convincenti le dichiarazioni delle ricorrenti relativamente alla carenza di servizi sanitari di assistenza in Irlanda. Allo stesso modo, la Corte non appoggia la posizione delle prime due ricorrenti secondo la quale parte della loro sofferenza sarebbe stata provocata dal rischio di sanzioni penali, in quanto viene sottolineato come la legge irlandese non proibisca appunto di recarsi all'estero per sottoporsi ad interruzione di gravidanza.

Dichiarate manifestamente infondate e quindi inammissibili le lamentate violazioni ai sensi degli artt. 2 e 3 e 14, la Grand Chamber prende in considerazione le presunta violazione dell'art. 8.

Prendendo in esame per primo il ricorso di A e B, la Grand Chamber è del parere che le restrizioni vigenti in Irlanda in materia di aborto possono rientrare in quelle misure necessarie poste in essere in una società democratica al fine di tutelare uno di quei legittimi interessi previsti proprio dal secondo paragrafo dell'art. 8 della Convenzione. In questo caso, la tutela di un valore morale profondamente radicato nella cultura irlandese, il rispetto per il diritto alla vita del nascituro, rappresenta a parere della Corte un interesse sufficientemente legittimo.

In secondo luogo, nel valutare se le misure poste in essere siano sproporzionate rispetto al bene da tutelare, la Corte ritiene che rientri nel margine di discrezionalità dello Stato definire il giusto bilanciamento con altri interessi concorrenti, e nella specie il diritto della donna al rispetto della sua vita privata e familiare. In questo contesto, la Grand Chamber non ritiene che tale margine di discrezionalità debba essere limitato sulla base della mera esistenza in Europa di legislazioni nazionali molto più permissive in tema di aborto.

In conclusione, tenendo conto della possibilità per le ricorrenti di interrompere la gravidanza all'estero, della sufficiente disponibilità di servizi medici pre e post aborto e del fatto che le restrizioni imposte dalla legislazione irlandese sono tese a proteggere un principio morale profondamente radicato, la Grand Chamber, con decisione presa a maggioranza (11 a 6), ritiene che il bilanciamento tra gli interessi del nascituro e il diritto della donna al rispetto della vita privata non sia sproporzionato o ingiusto. La violazione dell'art. 8 viene dunque esclusa in relazione alle prime due ricorrenti.

Nel caso della terza ricorrente invece, la Corte conclude diversamente. Il caso riguardava infatti una gravidanza non voluta che la ricorrente avrebbe dovuto portare a termine anche se ciò l'avrebbe esposta ad un reale pericolo di vita, avendo la donna una rara forma di tumore. Dopo aver verificato l'assenza di qualsiasi tipo di regolamentazione, prassi o procedura volta a determinare in maniera certa e tempestiva la titolarità di una gestante a ricorrere ad una procedura legale di aborto ed accertato che i ricorsi praticabili al fine di vedersi riconosciuta o meno tale titolarità erano inefficaci o eccessivamente complessi (tra essi rientrava un ricorso costituzionale), la Corte ritiene, all'unanimità, di dover condannare l'Irlanda per violazione degli obblighi positivi derivanti dall'art. 8, ovvero per non aver attuato un'effettiva ed efficace procedura che permetta alle gestanti di vedere stabilito il proprio diritto all'interruzione della gravidanza nei limiti permessi dalla stessa legislazione irlandese.

I sei giudici dissenzienti ritengono violato l'art. 8 anche con riguardo alle altre due ricorrenti, argomentando sulla base del fatto che in Europa si sta consolidando una legislazione che estende, rispetto alla normativa irlandese le possibilità di aborto terapeutico anche a casi in cui non è in pericolo la vita della madre ma anche la sua salute e il suo benessere fisico o psichico, e in questo senso dovrebbe essere incoraggiata una limitazione del margine d'apprezzamento degli stati.

Aggiornato il

1/1/2011