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I seguiti preoccupanti di Behrami e Saramati nella giurisprudenza degli stati: Madri di Srebrenica c. Nazioni Unite e Paesi Bassi

Autore: Paolo De Stefani

Le sentenze Behrami c. Francia e Saramati c. Germania e Norvegia, emesse il 2 maggio 2007 dalla Corte europea dei diritti umani, si confermano ancora una volta un ostacolo nella lotta delle corti internazionali e interne contro l’impunità per condotte che possono rappresentare violazioni dei diritti umani e persino crimini internazionali.

Nel 2008 le corti olandesi avevano già stabilito, appoggiandosi appunto sulla giurisprudenza di Strasburgo, che i ricorsi presentati da alcuni sopravvissuti al genocidio di Srebrenica dell’estate del 1995 contro le Nazioni Unite (da cui dipendeva il contingente di peacekeepers olandesi che nulla avevano fatto per impedire il massacro) non potevano essere accolti. Le Nazioni Unite infatti sono immuni dalla giurisdizione degli stati. Ciò deriva dall’art. 105 della Carta e dall’art. 2.2 della Convenzione del 1946 sui privilegi e immunità delle NU (“The United Nations, its property and assets wherever located and by whomsoever held, shall enjoy immunity from every form of legal process except insofar as in any particular case it has expressly waived its immunity. It is, however, understood that no waiver of immunity shall extend to any measure of execution.”).

Tale norma, peraltro, sembra contrastare con il diritti di accesso alla giustizia e di giusto processo, stabiliti da molteplici norme internazionali sui diritti umani e, in particolare, dagli art. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti umani. Come risolvere la questione?

La Corte europea dei diritti umani, nei casi Behrami e Saramati, aveva dichiarato i ricorsi improcedibili ratione personae, poiché le Nazioni Unite non sono parti della Convenzione europea dei diritti umani. La questione cruciale, in questo caso, era il ruolo di effettivo comando che le Nazioni Unite esercitavano sui contingenti militari nazionali. Una volta affermato che la responsabilità per le azioni di tali contingenti non spettava allo stato di invio ma alle Nazioni Unite, la mancanza di giurisdizione ratione personae della Corte di Strasburgo era apparsa certa. Lo stesso ragionamento era stato seguito dal tribunale civile dell’Aja a cui si erano rivolte le circa 6000 Madri di Srebrenica con una class action nel 2007, nonché in relazione alla causa presentata nel 2002 contro il governo olandese dal giornalista bosniaco Hasan Nuhanovic, uno scampato al genocidio, e decisa il 10 settembre 2008.

Nel processo relativo alla causa civile intentata dalle Madri di Srebrenica, giunto sentenza il 10 luglio 2008, impugnato dai ricorrenti e conclusosi in appello il 30 marzo 2010, i giudici olandesi si sono pronunciati su una problematica giuridica parzialmente diversa da quella fin qui considerata (e rientrante nel quadro della giurisprudenza Behrami). Il tema era appunto quello della eventuale prevalenza, secondo il diritto applicabile in Olanda, delle norme internazionali sui diritti umani relative al giusto processo sulle disposizioni in materia di immunità delle organizzazioni internazionali.

La decisione in primo grado, confermata in appello, è raggiunta sulla base di un bilanciamento che pone su un piatto il diritto delle vittime ad un processo equo e produttivo di effetti concreti, sull’altro l’interesse della comunità internazionale a proteggere da azioni per responsabilità civile le Nazioni Unite, a garanzia dell’effettivo esercizio del difficile compito di mantenimento della pace.

I giudici olandesi hanno ritenuto che in questo bilanciamento di interessi, l’interesse prevalente è quello delle Nazioni Unite: l’immunità di cui gode l’organizzazione davanti ai giudici interni è funzionale a non ostacolare l’esercizio dei suoi compiti nel campo della pace e della sicurezza internazionale. Inoltre – e questo è il secondo argomento che fa pendere la bilancia a svantaggio dei ricorrenti – le vittime del genocidio di Srebrenica hanno a disposizione altre vie per ottenere un giusto risarcimento: promuovere l’accertamento penale dei reati di cui sono stati vittime i loro congiunti (in particolare del reato di genocidio) e eventualmente procedere nella causa contro lo stato olandese che, a differenza delle Nazioni Unite, non gode di immunità davanti alle proprie corti.

La decisione verrà impugnata davanti alla corte suprema dei Paesi Bassi e i rappresentanti dei ricorrenti hanno anche anticipato che essa potrà essere portata davanti ad istanze internazionali: si parla della Corte europea dei diritti umani e anche della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Quest’ultima, nel celebre caso Kadi c. Consiglio dell’UE e Commissione della CE (sentenza del 3 settembre 2008), ha chiaramente escluso che una norma prodotta dalle delle Nazioni Unite, ancorché contenuta in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che si impone agli stati in forza del Capitolo VII della Carta, possa essere applicata dagli stati europei in violazione di una norma sui diritti umani come è quella che prevede il giusto processo. Tale interpretazione dovrebbe consigliare un diverso esito del bilanciamento degli interessi contrapposti o, per lo men,o una limitazione delle garanzie a tutela dell’organizzazione internazionale quando i fatti per i quali si vuole affermare la sua responsabilità attengono alla commissione di crimini internazionali come il genocidio. Le alternative al riconoscimento di responsabilità delle Nazioni Unite per il sostanziale via libera al massacro dato dalle truppe di peacekeepers olandesi al termine dell’assedio di Srebrenica sono oltretutto poco realistiche. Dai processi penali per genocidio non può derivare un risarcimento adeguato alle vittime. Dal processo civile contro i Paesi Bassi – anche ammesso che non vengano usati gli argomenti sull’“atto di stato” echeggiati nel caso Markovic c. Italia (Corte europea dei diritti umani, 14 dicembre 2006) – potrebbero derivare forme di restituzione inadeguate. Del resto, la stessa Corte internazionale di giustizia nella decisione sul caso Bosnia-Erzegovina c. Serbia e Montenegro (26 febbraio 2007) non ha ritenuto di disporre riparazioni a favore della Bosnia in relazione al mancato rispetto da parte di Belgrado dell’obbligo di fare quanto era in suo potere per prevenire il genocidio, poiché non vi erano prove che, avesse lo stato in questione agito in adempimento ai suoi obblighi, il genocidio stesso non avrebbe avuto luogo.

In conclusione, sembra che anche da questa giurisprudenza emerga confermato il trattamento preferenziale riservato alle Nazioni Unite e a coloro che operano sotto le sue insegne, indipendentemente dal livello di negligenza dimostrato e dalla gravità (nel caso di Srebrenica davvero tragica) delle conseguenze di quanto posto in essere. Non si discute il favor che deve trovare affermazione nei confronti della più importante organizzazione internazionale; ma che il suo operato possa completamente sfuggire al controllo giudiziale, anche di fronte ad acclarate responsabilità per violazioni dei diritti umani, appare un privilegio ingiustificabile.

Aggiornato il

1/5/2010