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Rispetto della vita familiare ed espulsione di stranieri che commettono reati: un allentamento della tutela dell’unità familiare dell’immigrato (2006-2009)

Autore: Paolo De Stefani

La tensione tra tutela della famiglia e della vita privata di cittadini immigrati e protezione della sicurezza e dell’ordine pubblico è stata spesso oggetto delle pronunce della Corte di Strasburgo. Su questo punto si sia assistito a oscillazioni della giurisprudenza, orientata in alcuni periodi verso una posizione di più rigida garanzia delle esigenze di sicurezza (che inducono a disporre l’espulsione dell’autore di reato come una specie di automatismo), e in altri momenti ad una maggiore protezione del bene giuridico rappresentato dall’unità familiare e dal rispetto della vita privata.

Un momento significativo di questa dialettica è stata la decisione della Grand Chamber nel caso Üner c. Paesi Bassi, deciso il 18 ottobre 2006[1]. La controversia riguardava un cittadino turco, immigrato a dodici anni nei Paesi Bassi a seguito di un ricongiungimento familiare (non quindi propriamente un immigrato di “seconda generazione) e perciò titolare di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato.

Il permesso di soggiorno gli era stato ritirato e il ricorrente era stato allontanato dall’Olanda per dieci anni nel 1998, con provvedimento dell’autorità di governo, dopo che aveva scontato quattro dei sette anni di carcere a cui era stato condannato per omicidio preterintenzionale; l’espulsione era avvenuta quasi quattro anni dopo la scarcerazione. In Olanda il ricorrente era sposato con una cittadina olandese dalla quale aveva avuto due figli. I suoi legami con la Turchia erano, all’epoca dell’espulsione, praticamente nulli, né il giovane era in grado di parlare il turco. Prima della condanna per omicidio, peraltro, il ricorrente era già stato riconosciuto colpevole di altri reati violenti. Nel 2006, inoltre, Üner veniva di nuovo espulso dal paese, dove era rientrato illegalmente in Olanda e risultava coinvolto in un’attività di coltivazione di marijuana.

La Grande Camera applica alla situazione specifica alcuni parametri già elaborati dalla precedente giurisprudenza per guidare il giudizio circa la proporzionalità dell’interferenza sul diritto alla vita familiare e privata tutelata dall’art. 8 CEDU costituita dal provvedimento di espulsione e di interdizione dallo stato per dieci anni. Tali criteri (già identificati nella sentenza del 2001 nel caso Boultif c. Svizzera[2]) sono: la natura e gravità del reato commesso; la durata del soggiorno nel paese da cui l’individuo viene espulso; il periodo passato e il comportamento tenuto tra la commissione del reato e l’esecuzione della misura di espulsione; la nazionalità delle altre persone interessate; la situazione familiare dell’individuo (durata del matrimonio e in generale ogni fattore che fa ritenere sussistente un’effettiva vita familiare); la conoscenza da parte del partner, al momento in cui è iniziata la relazione, della condizione di irregolarità; l’esistenza di figli e la loro età; l’entità delle difficoltà che il partner dovrebbe affrontare nel seguire la persona espulsa nel suo paese d’origine. In più, nel caso specifico la Camera esplicita due altri criteri: il miglior interesse dei minori eventualmente coinvolti (in particolare la loro difficoltà ad integrarsi nel paese verso cui il genitore è espulso) e la solidità dei legami sociali, culturali e familiari coltivati dall’individuo nel paese di residenza e in quello di destinazione, in caso vi fosse espulso.

Con una decisione presa a maggioranza (14 a tre), la Grand Chamber conclude che disponendo l’espulsione del ricorrente i Paesi Bassi non hanno violato l’art. 8 della CEDU. I tre giudici dissenzienti sottolineano come l’esito di tale decisioni giustifichi una preoccupante tendenza dei sistemi penali e amministrativi europei verso l’imposizione al cittadino immigrato che delinque di una doppia sanzione: quella legata al reato commesso e quella, non applicabile al cittadino dello stato, del ritiro del permesso di soggiorno e/o dell’espulsione, accompagnata da un divieto di reingresso di durata più o meno lunga. Tale provvedimento, benché adottato formalmente come misura preventiva e non a titolo di pena, costituisce nei fatti una sanzione ulteriore, spesso percepita come più grave della stessa sanzione penale, e che si applica ai soli cittadini stranieri. Ciò costituisce, secondo l’opinione dei tre giudici dissenzienti, un trattamento discriminatorio.

La giurisprudenza Üner evidenzia pertanto un nuovo irrigidimento della posizione della Corte europea nell’approccio alla problematica degli stranieri autori di reato, adottato in evidente coerenza con una tendenza generale che ha caratterizzato negli ultimi anni la legislazione penale e amministrativa in tema di immigrazione nella maggior parte dei paesi europei.

In senso conforme a tale orientamento v. Kaya c. Germania[3], dove un giovane di origine turca ma nato e cresciuto in Germania è condannato per reati legati allo sfruttamento della prostituzione e per lesioni cagionate con particolare brutalità a due prostitute che egli sfruttava. L’esistenza di legami familiari e personali in Germania non ha impedito alla Corte europea di avallare la legittimità della scelta dei giudici tedeschi di accompagnare la condanna penale del ricorrente con un decreto di espulsione. Il matrimonio del ricorrente con una cittadina tedesca e la nascita di un figlio cittadino tedesco non cambiano il quadro, poiché sono successivi all’emanazione del provvedimento espulsivo.

In controtendenza, nel senso di riconoscere invece una violazione dell’art. 8 nel provvedimento di ritiro del permesso di soggiorno e di divieto di reingresso per dieci anni emesso a carico di un cittadino di origine bulgara immigrato in Austria dall’età di sei anni, si colloca invece il caso Maslov c. Austria[4], deciso dalla Grand Chamber il 23 giugno 2008. Rispetto alla giurisprudenza Üner si può notare tuttavia che in Maslov i reati commessi non avevano natura violenta e soprattutto erano stati commessi prevalentemente quando il ricorrente aveva tra i 14 e i 15 anni. Tali circostanze – insieme all’esistenza di solidi rapporti sociali, personali, culturali e familiari con il paese di residenza – hanno militato nel senso di riconoscere violato il diritto alla vita privata e familiare in caso di allontanamento, per quanto temporaneo, dall’Austria.



[1] Üner v. the Netherlands [GC], no. 46410/99, ECHR 2006-XII.

[2] Boultif v. Switzerland, no. 54273/00, ECHR 2001-IX.

[3] Kaya v. Germany, no. 31753/02, 28 June 2007.

[4] Maslov v. Austria [GC], no. 1638/03, 23 June 2008.

Risorse

Aggiornato il

8/12/2010