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27/12/2007 (Archivio storico)

1 gennaio 2008: Giornata Mondiale della Pace. Per l'occasione, Benedetto XVI ha reso pubblico il tradizionale Messaggio.

 
Dalla centralità della famiglia allo smantellamento degli arsenali nucleari
Commento al Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace 2008: “Famiglia umana, comunità di pace”

di Antonio Papisca

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La famiglia come laboratorio per la costruzione della pace nel mondo perché “permette di fare determinanti esperienze di pace” al suo interno. Leggendo il Messaggio di Benedetto XVI, così denso di immagini poetiche oltre che, naturalmente, di puntuali verità ontologiche e pratiche, viene spontaneo pensare al Cantico dei Cantici. In particolare la prima parte del Messaggio è come la carezza di chi vuole esprimere, quasi fisicamente, tenerezza e amore per la famiglia naturale, definita quale “intima comunione di vita e d’amore, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna”. Il Papa dice “comunione”, e non “unione”, a sottolineare la distinta soggettività dei protagonisti genitoriali e, allo stesso tempo, la comune, costante volontà di mettere insieme e condividere esperienze di vita e di pace. E scioglie un vero e proprio inno alla famiglia: “culla della vita e dell’amore”, “luogo primario dell’umanizzazione della persona e della società”, “primaria e insostituibile educatrice alla pace”, “principale agenzia di pace”, “prima società naturale”, “istituzione divina”. Sempre carezzevolmente, il Papa si domanda: “Dove mai l’essere umano in formazione potrebbe imparare a gustare il ‘sapore’ genuino della pace meglio che nel ‘nido’ originario che la natura gli prepara?”.
La famiglia presa in considerazione non è la mera somma aritmetica dei suoi componenti: marito e moglie, figli, nipoti, nonni, bambini e bambine, giovani e anziani. E’ un quid novum sociale, con una sua propria identità sistemica, che si distingue dalle singole individualità che ne fanno parte e che, in quanto tale, ha una sua propria intrinseca dignità, di natura anche giuridica. Il Papa cita in proposito il Preambolo della Carta dei diritti della famiglia, elaborata dal Pontificio Consiglio per la Famiglia e pubblicata il 22 ottobre 1983: “I diritti della persona, anche se espressi come diritti dell’individuo, hanno una fondamentale dimensione sociale, che trova nella famiglia la sua nativa e vitale espressione”. La famiglia, dunque, come grembo dei diritti fondamentali ed è tale perché “sta a fondamento della vita delle persone” e dunque è “prototipo di ogni ordinamento sociale”. A conferma della tesi secondo cui, appunto, “la famiglia è titolare di specifici diritti”, Benedetto XVI chiama in causa il vigente Diritto internazionale dei diritti umani, in particolare l’articolo 16 della Dichiarazione Universale del 1948 che ne costituisce la base fondativa: “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha il diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”.
Questo concetto è recepito, quasi alla lettera, dalle principali Convenzioni giuridiche che, facendo seguito alla Dichiarazione Universale, hanno dato corpo organico al Diritto internazionale dei diritti umani. In materia di famiglia, si veda l’articolo 10 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, entrato in vigore nel 1976, in Italia nel 1977: “La protezione e l’assistenza più ampia possibile devono essere accordate alla famiglia, che è il nucleo naturale e fondamentale della società, in particolare per la sua costituzione e fin quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell’educazione di figli a suo carico. Il matrimonio deve essere celebrato con il libero consenso dei futuri coniugi” (corsivo aggiunto). Della stessa sostanza sono:
- l’articolo 18 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981: “La famiglia è l’elemento naturale e la base della società. Essa deve essere protetta dallo Stato che deve vegliare sulla sua salute fisica e morale”;
- l’articolo 17 della Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1969: “La famiglia è l’unità collettiva naturale e fondamentale della società; essa ha diritto alla protezione da parte della società e dello Stato”;
- l’articolo 16 della Carta sociale europea del 1961 (successivamente riveduta): “Per realizzare le condizioni di vita, indispensabili al pieno sviluppo della famiglia, cellula fondamentale della società, le Parti si impegnano a promuovere la tutela economica, giuridica e sociale della vita di famiglia”;
- l’articolo 38 della Carta Araba dei diritti umani adottata a Tunisi nel 2004 per iniziativa della Lega degli Stati Arabi: “La famiglia è l’unità fondamentale della società e gode della sua protezione. Lo Stato si impegna a fornire ogni cura e speciale protezione alla famiglia, alle madri, ai bambini e agli anziani”.
Vale la pena di citare anche la Dichiarazione dei diritti umani nell’Islam, adottata dall’Organizzazione della Conferenza Islamica al Cairo nel 1990, il cui articolo 5 recita: “La famiglia è il fondamento della società e il matrimonio è la base del suo formarsi. Uomini e donne hanno diritto al matrimonio e nessuna restrizione derivante da razza, colore o nazionalità impedirà loro di beneficiare di tale diritto”.
In queste fonti giuridiche ricorrono gli aggettivi “naturale” e “fondamentale”, a sottolineare che il rispetto della “dignità della famiglia” così definita, è da annoverare tra i principi giuridici di diritto consuetudinario, come dire dotati dell’altissima valenza precettiva che è propria dello ius cogens.
I puntuali riferimenti normativi del vigente Ius positum internazionale che abbiamo prima richiamati, sono importanti per valutare in tutta la loro portata delle argomentazioni giuridiche contenute nel Messaggio di Benedetto XVI a sostegno di una ben precisa idea di famiglia.
La famiglia è fonte di vita, come dire fonte di diritto, se si considera che la vita, prima ancora che diritto della persona, cioè diritto individuale tra gli altri diritti individuali, è principio fondativo dell’intero sistema normativo dei diritti fondamentali. Questo è l’implicito assunto del vigente Diritto internazionale dei diritti umani, da cui discende il duplice divieto nei confronti della pena di morte e della guerra, intesa questa come uso della violenza militare per scopi omicidi e distruttivi coinvolgenti popolazioni e territori.
Prima di aggiungere più specifiche considerazioni al riguardo, è utile domandarsi in quale considerazione l’attuale Sommo Pontefice tenga il vigente Diritto internazionale. Nel Messaggio è sottolineata con forza la necessità, anzi l’urgenza di “assoggettarsi ad una norma comune”. Questo criterio vale sia per coloro che compongono la famiglia naturale sia per “le comunità più ampie: da quelle locali a quelle nazionali, fino alla stessa comunità internazionale”. Il riferimento è alla “famiglia umana”, espressione usata dalla stessa Dichiarazione universale per indicare la comunità di tutte le persone umane in quanto soggetti titolari, in via originaria, degli stessi eguali e inviolabili diritti.
Il Papa, richiamando gli accordi internazionali, gli statuti delle Organizzazioni internazionali e il diritto umanitario e riconoscendo, di conseguenza, che “l’umanità non è senza legge”, insiste sulla necessità che la “norma giuridica”, cioè lo ius positum, si fondi sulla “norma morale”.
Il vigente Diritto internazionale che prende origine, come ius positum, dalla prima parte della Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, e che pertanto innova profondamente rispetto al vecchio Diritto inter-statuale, si fonda sulla “norma morale” espressamente enunciata dall’articolo 1 della Dichiarazione: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (corsivo aggiunto). Che si tratti di principio fondativo lo dice il Preambolo della stessa Dichiarazione, laddove proclama che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo (corsivo aggiunto).
Usando la grammatica dei “segni dei tempi”, così efficacemente proposta dalla enciclica ‘Pacem in Terris’ del beato Giovanni XXIII, non si può non cogliere la rivoluzionaria provvidenzialità del fatto che il nuovo Diritto internazionale, pervaso com’è di principi di etica universale, se ne fa traghettatore nei campi della cultura, della politica e dell’economia, appunto con il sigillo formale e la forza che sono propri dello ius positum. E’ abissale la distanza che separa questo nuovo Diritto universale rispetto al vecchio Diritto delle sovranità statuali-nazionali-armate-confinarie: un Diritto, quest’ultimo, costitutivamente a-morale e a-umano, fatto su misura di entità giuridiche ‘sovrane’, detentrici di un diritto di vita e di morte sulle persone umane - ius necis ac vitae –, teorizzato e applicato nelle relazioni internazionali con riferimento al duplice diritto di fare, indifferentemente, la guerra e la pace – ius ad bellum e ius ad pacem.
Con l’avvento del nuovo Diritto internazionale, la centralità della persona umana, cioè del soggetto giuridico originario, prevale, de iure, sulla sovranità degli stati, i quali anche nelle loro relazioni esterne assumono lo status di entità derivate e strumentali rispetto al perseguimento del bene comune universale riassumibile in ‘tutti i diritti umani per tutti’: civili, politici, economici, sociali, culturali, interdipendenti e indivisibili.
Benedetto XVI prende atto di questo stato di cose quando afferma che la Dichiarazione universale “costituisce un’acquisizione di civiltà giuridica di valore veramente universale” e “un passo decisivo nel difficile e impegnativo cammino verso la concordia e la pace,” e che occorre favorire “il convergere anche delle legislazioni dei singoli Stati verso il riconoscimento dei diritti umani fondamentali”.
L’impegno perchè questo avvenga, capillarmente, è tanto più urgente quanto più, scrive il Papa, si moltiplicano “grandi divisioni e forti conflitti che gettano ombre cupe sul futuro dell’umanità”. Un’ombra cupa è certamente quella “dell’aumento del numero di Stati coinvolti nella corsa agli armamenti”, che il Papa denuncia con forza gridando allo scandalo dei “Paesi del mondo industrialmente sviluppato che traggono lauti guadagni dalla vendita di armi” e di “oligarchie dominanti in tanti Paesi poveri che vogliono rafforzare la loro situazione mediante l’acquisto di armi sempre più sofisticate”. La condanna è senza mezzi termini.
I dati statistici di cui disponiamo, attingendo in particolare al SIPRI Yearbook 2007, sono terrificanti. Nel 2006, la spesa militare mondiale è stata di 1.158 miliardi di dollari. Dal 1997 al 2006 la spesa militare registra un aumento del 37% nel mondo, così articolata per ‘regioni’: in Africa del 57%, nel Nord-America del 56%, nel Medio Oriente del 57%, nell’Europa orientale del 61%. In Europa occidentale l’aumento è del 5%, ma Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Spagna figurano tra i 15 Paesi con la più alta spesa militare nel mondo. L’Italia, con una spesa complessiva di 29,9 miliardi di dollari nel 2006, è all’ottavo posto nella graduatoria mondiale dei paesi che più spendono ed è al secondo posto, dopo la Germania, tra quelli che esportano small arms. Usando il vocabolario dei Predecessori di Papa Ratzinger, ci troviamo di fronte ad una macro “struttura di peccato”, alimentata da scelte e comportamenti che gridano vendetta al cospetto dell’Altissimo.
Nel suo Messaggio, il Papa invoca, nella prospettiva di “un’efficace smilitarizzazione”, “lo smantellamento progressivo e concordato delle armi nucleari esistenti”.
Per procedere in questa direzione, in un mondo che è, allo stesso tempo, sempre più interdipendente e globalizzato e sempre più armato, occorre rilanciare con forza il tema della legalità, ribadire che la forza della legge deve prevalere sulla legge della forza. In particolare, occorre difendere con forza e determinazione il Diritto internazionale dei diritti umani nella sua originaria concezione, cioè nella ortodossia di principi e istituti quali letteralmente espressi nelle fonti originarie, prima ricordate. Occorre difendere questa ortodossia anche perché si stanno manifestando tendenze a relativizzare principi e istituti fondamentali, riguardanti in particolare la famiglia e la vita dell’essere umano nel suo intero arco naturale. Occorre usare il vocabolario del ‘nuovo’ ius positum, con riferimenti puntuali a principi, norme, divieti, obblighi giuridici. Ribadire, opportune et inopportune, che la guerra, in quanto tale, è proscritta, che è fatto divieto di usare la forza per risolvere le controversie internazionali, che è fatto obbligo di perseguire vie pacifiche, che siamo entrati nell’era della giurisdizione internazionale dei diritti umani e della giustizia penale internazionale, che il Diritto internazionale “dei diritti umani” è un diritto superiore al Diritto internazionale “umanitario” (Ius in bello), che c’è l’obbligo di far funzionare l’Organizzazione delle Nazioni Unite mettendola in grado di esercitare le competenze e i poteri che le sono stati devoluti, una volta per tutte, dagli Stati membri. Ribadire che non far funzionare le Nazioni Unite, anteponendole la sovranità prevaricatrice degli stati, alimentando la corsa agli armamenti e facendo le guerre preventive, significa violare non soltanto il Diritto internazionale vigente, ma anche la morale universale che esso ha recepito. E’ un fatto di coscienza, oltre che di osservanza della legalità, quello di stare dalla parte delle legittime istituzioni multilaterali, battersi per il loro potenziamento e la loro democratizzazione, denunciare le strumentalizzazioni, gli sviamenti di potere e gli abusi di cui sono fatte oggetto da parte di governanti privi di scrupoli morali e giuridici.
Bisogna diffondere la consapevolezza che il destino del nuovo Diritto internazionale umanocentrico e quello delle Nazioni Unite sono interconnessi e che depotenziando l’ONU si depotenzia la legalità, e viceversa. Il Papa parla della terra come di “casa comune della famiglia umana” e dice che anche la casa-mondo, come la casa della famiglia naturale, deve essere governata con cura all’insegna della “alleanza tra essere umano e ambiente” e lungo “la strada del dialogo invece che delle decisioni unilaterali”. Ancora una volta viene sottolineata la necessità di una global governance da gestire nelle pertinenti sedi multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite e dalle Organizzazioni di integrazione continentale o sub-continentale, con il concorso di tutte le altre istanze di governo, operanti ai vari livelli territoriali.
Dicendo poi che bisogna smantellare gli arsenali nucleari, il Papa implicitamente invita ad una mobilitazione su scala mondiale. Ma dove, come, con chi procedere?
La sede istituzionale, ancora una volta, non può che essere quella dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, peraltro nella realistica consapevolezza che i trascorsi sessantadue anni di vita sono costellati di sterili ‘conferenze’ sul disarmo, riti diplomatici che a nulla sono serviti se, proprio all’indomani della caduta del Muro, è ripresa la corsa agli armamenti insieme con la proliferazione del nucleare. Recenti segnali indicano che manca la volontà di affrontare seriamente il problema: il documento finale del Summit Mondiale (Millennium Summit+5), approvato dall’Assemblea Generale nel settembre 2005, non ha recepito le specifiche proposte sul disarmo nucleare contenute nel Rapporto del Segretario Generale “In larger freedom” del marzo dello stesso anno. Pessimo, irresponsabile segnale!
In queste condizioni, cosa fare? Spem contra spem, occorre una vasta mobilitazione di società civile globale che, attraverso una capillare campagna mondiale di informazione e coscientizzazione, prema sui governi, a cominciare dai membri dell’Unione Europea, perché si convochi una sessione speciale dell’Assemblea Generale specificamente dedicata al disarmo. Si potrebbe procedere in analogia con quanto avvenuto per la Convenzione di Ottawa, riguardante l’interdizione delle mine antipersona, e per la moratoria delle esecuzioni della pena di morte. L’alleanza di reti transnazionali di società civile e di gruppi di stati ‘amici’ ha consentito di conseguire risultati di altissimo rilievo politico e morale. Mi rendo conto che il disarmo nucleare costituisce una posta in gioco particolarmente ardua. Ma anche in questo caso bisogna mobilitare coscienze e opinione pubblica in maniera trasversale ai vari stati. Si potrebbe procedere per via per così dire sotto-sistemica, organizzando a livello regionale eventi istituzionali nella forma di “convenzioni”: per esempio, in ambito di Unione Europea e di Unione Africana. Questo, per creare e far precipitare una consistente massa critica, tale da imporre la convocazione della sessione straordinaria delle Nazioni Unite.
Oggi la società civile globale è molto più organizzata, per “reti” e “reti delle reti”, di alcuni decenni fa. Ci sono il “World Social Forum”, la “Tavola della Pace” con le collegate sessioni biennali della “Assemblea dell’ONU dei Popoli”, l’ampio coordinamento di UBUNTU. In ambito UE e di Partenariato Euro-Mediterraneo, ci sono numerose “Piattaforme” di società civile tra le quali: la Piattaforma delle ONG Sociali Europee, la Piattaforma Green Ten, la Piattaforma Concord (per lo sviluppo e l’aiuto umanitario), il Network delle ONG per i Diritti Umani e la Democratizzazione, lo ‘European Peacebuilding Liaison Office”, eccetera.
La beatitudine che premia i “poveri in spirito”, è quella di coloro che osano alto per il bonum facere, che non temomo di essere derisi perché osano alto.
E’ il caso di evocare questa beatitudine di fronte alla sfida immane dello “smantellamento” delle armi nucleari. Ed è anche utile riproporre qualche passo del Manifesto per la distruzione delle armi nucleari che, già il 9 luglio del 1955, due grandi e genuini Premi Nobel per la Pace, Bertrand Russell e Albert Einstein, avevano lanciato da Londra: “L’abolizione della guerra richiederà sgradevoli limitazioni della sovranità nazionale. Ma ciò che forse impedisce di capire la situazione … è che il termine ‘genere umano’ è sentito come vago e astratto. La gente fa fatica a immaginare che il pericolo è per se stessi e i loro figli e pronipoti … Qualsiasi accordo a non usare le bombe atomiche stipulato in tempo di pace non sarebbe considerato vincolante in tempo di guerra … Da esseri umani ci appelliamo ad esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto”.
Dal canto suo, Benedetto XVI ammonisce: “I tempi stringono”.

Aggiornato il

16/7/2009