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Condanna dell'Italia per l'inefficiente applicazione della "legge Pinto" (Gaglioni e altri c. Italia, 21 dicembre 2010)

Autore: Paolo De Stefani

Con la sentenza Gaglioni e altri c. Italia (21 dicembre 2010), la Corte europea dei diritti umani (camera II) ha condannato l'Italia per violazione del diritto ad un processo in tempi ragionevoli (art. 6.1 Convenzione europea dei diritti umani), per violazione del diritto di proprietà (art. 1 Protocollo addizionale 1) e, cosa più significativa, per violazione del dovere di eseguire le sentenze della Corte stessa (art. 46 Convenzione).

Il caso nasce dalla riunione di centinaia di ricorsi, riuniti per identità della materia trattata, presentati nel 2007 da 475 cittadini che, tra il 2003 e il 2006, avevano presentato domanda giudiziale in Italia per ottenere le riparazioni previste dalla "legge Pinto" (l. 89/2001) in caso di durata eccessiva dei procedimenti. La cause davanti alle competenti corti d'appello avevano portato all'accertamento dell'infrazione del diritto ad un processo di durata ragionevole e avevano attribuito ai ricorrenti un indennizzo per un ammontare variabile dai 200 ai quasi 14.000 euro.

Si ricorda a questo proposito che in merito alla misura dell'indennizzo per il danno non patrimoniale, i criteri di determinazione applicati dalla giurisprudenza italiana si discostano sensibilmente da quelli individuati dalla Corte Europea. Quest'ultima, a seconda delle particolarità del caso, prevede a favore del ricorrente un importo oscillante da 1.000 a 1.500 euro, moltiplicato per ogni anno riconosciuto come eccessivo in rapporto al procedimento in questione; la giurisprudenza italiana stabilisce invece in 750 euro il limite minimo inderogabile da erogare per ciascuno dei primi tre anni eccedenti la durata standard del processo, e in 1.000 euro quello per ciascuno degli anni successivi.

Dal 2006-2007, i ricorrenti vantavano dunque un credito verso lo stato di ammontare variabile; poiché però lo stato ha liquidato il dovuto con ritardi che sono andati da 9 a 49 mesi, laddove il ritardo "fisiologico" ammesso dalla Corte europea è di sei mesi al massimo (Cocchiarella c.Italia ([GC], n 64886/01, CEDH 2006-V), i cittadini si sono rivolti alla Corte europea per vedere riconosciuto il loro diritto ad avere regolato in tempi utili il diritto all'indennizzo maturato per la lentezza nella trattazione del procedimento originario (si tratta di casi cd "Pinto su Pinto").

L'Italia si è difesa invocando l'esiguità del danno subito dai ricorrenti (art. 35.3 Convenzione europea), il non esaurimento dei ricorsi interni e la mancanza della qualificazione di vittime in capo ai ricorrenti. Le tre eccezioni sono respinte all'unanimità dai giudici. In particolare è rigettata l'idea che contro l'inefficienza dello stato nel gestire i ricorsi presentati in forza della legge Pinto si possa proporre l'impugnazione di questi ultimi, sempre in Italia, in base alla stessa legge Pinto. Se si seguisse questo ragionamento, osservano i giudici di Strasburgo, si entrerebbe in un circolo vizioso che renderebbe il diritto del cittadino ad un processo equo e di ragionevole durata del tutto illusorio (§§ 22). Circa la considerazione avanzata dagli agenti dello stato italiano che gli interessi sulla somma che lo stato paga a titolo di indennizzo possano coprire ogni danno non patrimoniale, l'argomento viene rigettato nel quadro delle considerazioni sul merito della controversia.

In relazione alla sostanza dei ricorsi riuniti, la Corte ricorda innanzitutto che la fase di esecuzione della sentenza va considerata senz'altro parte integrante del procedimento giudiziario che ad essa fa capo; pertanto ritardi nella liquidazione dell'equo indennizzo stabilito dalle corti italiane in base alla legge Pinto ben possono configurare violazione dell'art. 6.1 della Convenzione per eccessiva durata del procedimento giudiziario. Richiamando Cocchiarella c. Italia, la Corte conferma che i sei mesi (durata massima per il completamento della procedura di liquidazione dell'indennizzo) si calcolano dal deposito della sentenza emessa in base alla legge Pinto; quanto all'entità dell'indennizzo, la stessa giurisprudenza Cocchiarella prevede di attribuire all'individuo 100 euro per ogni mese di ritardo successivo al sesto. Il fatto che ai ricorrenti siano stati versati, a causa del ritardo, anche gli interessi di mora, non costituisce ragione sufficiente per considerare compensati i danni non patrimoniali connessi all'eccessiva durata del processo. I ricorrenti mantengono pertanto la qualificazione di vittime ai sensi della Convenzione europea. Il ritardato pagamento (un ritardo di oltre sei mesi) costituisce un'interferenza nel diritto dell'individuo a godere della proprietà privata (art. 1 protocollo 1).

Dopo aver dunque accertato la violazione dell'art. 6.1 della Convenzione e dell'art. 1 del I Protocollo 1, la Corte entra a considerare la parte più significativa del caso, che riguarda la mancata esecuzione da parte dell'Italia delle sentenze della Corte stessa. I giudici osservano infatti che esiste in Italia un problema di sistematica mancata esecuzione delle sentenze "Pinto". Ciò è confermato dalla pendenza, davanti alla Corte di Strasburgo, di 3900 ricorsi relativi a tale motivo provenienti dall'Italia, di cui oltre 1300 depositati tra giugno e dicembre 2010. Citando fonti italiane, la Corte ricorda che l'ammontare degli indennizzi dovuti in base alla legge Pinto è passato dai quasi 4 milioni di euro del 2002 ai 40 milioni del 2008; in sei anni lo stato ha pagato 81 milioni, ed è in ritardo nel pagarne altri 36milioni. E la situazione non tende a migliorare: ad aprile 2009 c'erano infatti in Italia quasi 9 milioni di processi, civili e penali, pendenti, gran parte dei quali destinati a durare oltre il limite ragionevole. La situazione italiane potrebbe produrre conseguenze devastanti per la stessa Corte di Strasburgo, nel caso in cui l'attuale tendenza a non dare corso con tempestività alla liquidazione delle riparazioni stabilite dalla legge 89/2001 dovesse confermarsi, poiché una pioggia di ricorsi-fotocopia potrebbe ricadere sulla Corte europea, replicando (in forma anche più estesa e certamente più grave) la situazione che si era creta negli anni immediatamente precedenti la legge Pinto.

La Corte europea conclude pertanto che "la carenza dello stato italiano non solo è un fatto che aggrava le sue responsabilità nei riguardi della Convenzione in relazione alla situazione passata o presente, ma costituisce una minaccia per la futura effettività del dispositivo messo in campo dalla Convenzione" (si richiamano su questo punto la giurisprudenza Scordino c. Italia (n. 3), del 2007). L'Italia dovrebbe pertanto adottare delle misure generali di tipo legislativo (non interventi specifici meramente legati ai singoli casi decisi dalla Corte) per attuare l'obbligo di dare esecuzione alle sentenze della Corte, come è stato raccomandato all'Italia a varie riprese, da ultimo con la risoluzione CM/ResDH(2009)42 del 19 marzo 2009, dove si ricordano i milioni di processi pendenti in Italia e si incita il governo ad adottare misure legislative, amministrative e finanziarie adeguate che riformino il meccanismo, evidentemente insufficiente, della legge Pinto. La Corte invita infine lo Stato a riprendere in mano il progetto di legge di riforma del sistema giudiziario finalizzato, in particolare, a ridurre la durata dei processi, senza esprimersi sui contenuti dell'atto ma sottolineandone l'urgenza e lamentando il fatto che dal gennaio 2010 il suo iter parlamentare sia finito in un "binario morto".

Quanto alle misure individuali per i singoli ricorrenti, la Corte, distaccandosi dalla giurisprudenza Cocchiarella sopra richiamata, decide di fissare per tutti i 475 ricorrenti un indennizzo di 200 euro per ciascuno a titolo di danno morale, più 10.000 euro complessivi di rimborso delle spese processuali.

Questa scelta, che indubbiamente viene incontro alle istanze espresse dallo stato italiano, è stata duramente criticata da due giudici (Cabral Barreto e Popovic) della Camera II. A loro parere, liquidare un indennizzo senza distinguere tra la posizione di chi ha atteso 3 mesi in più rispetto al ritardo "fisiologico" di sei mesi, e chi ha aspettato oltre 4 anni, non è ragionevole. La camera, se voleva attenuare le responsabilità dello stato, avrebbe dovuto spogliarsi della competenza sul caso per sottoporlo alla Grande Camera, che sul punto avrebbe avuto maggiore libertà di discostarsi dai precedenti orientamenti, più "generosi", come abbiamo visto, con i ricorrenti. La camera inoltre avrebbe dovuto adottare in questo caso una "sentenza pilota", alle cui conclusioni uniformare automaticamente le altre centinaia di casi che attendono. I due giudici infine ritengono che misure più severe e drastiche dovrebbero essere assunte dalla Corte (e dal Comitato dei ministri) per contrastare una condotta insostenibile e inaccettabile da parte dell'Italia, condotta che rischia viceversa di perpetuarsi, ovvero quella di non effettuare in tempi ragionevoli il pagamento di quanto i propri stessi tribunali hanno stabilito giusto pagare a titolo della legge Pinto. E ciò sia per non dare l'impressione di trattare con un occhio di riguardo un paese rispetto ad altri (con la scusa di non voler infierire su una condizione del sistema giudiziario già critica), sia per salvare la Corte da migliaia di possibili futuri ricorsi che non avrebbero tanto l'obiettivo di rivendicare un diritto umano, quanto quello di ottenere da Strasburgo un ristoro pecuniario supplementare (per quanto modesto) in modo quasi automatico.

Aggiornato il

22/12/2010