A A+ A++
8/1/2016
Locandina della manifestazione: "Le strade della pace - una staffetta, una testimonianza" svoltasi sabato 2 marzo 1991 a Ponte San Nicolò, promossa da enti locali e dal Centro diritti umani.
© Centro Diritti Umani - Università di Padova

1991-2016: a venticinque anni dalla (prima) Guerra del Golfo la guerra continua e la ‘lezione’ rimane inascoltata

Nella notte fra il 16 e il 17 gennaio del 1991 aveva inizio la ‘Guerra del Golfo’ condotta da una poderosa coalizione multinazionale di forze armate sotto il comando degli Stati Uniti d’America. Il 2 agosto dell’anno precedente il dittatore dell’Iraq, Saddam Hussein, aveva militarmente aggredito il Kuwait con l’obiettivo di annettersene il territorio. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 660 aveva prontamente stabilito che si trattava di un crimine di aggressione e intimava alle truppe irachene di ritirarsi dal territorio invaso. In presenza del diniego espresso dal governo di Bagdad, il Consiglio adottava le risoluzioni 661 e 665, decretando l’embargo a carico dell’Iraq e autorizzando gli stati membri delle Nazioni Unite che collaboravano con il legittimo governo del Kuwait, ad avvalersi delle loro forze navali in transito nell’area per controllare l’effettivo rispetto dell’embargo. Risultando inefficaci anche queste misure, il 29 novembre del 1990 il Consiglio con risoluzione 678 autorizzava gli stati membri a ‘usare tutti i mezzi necessari’ per ristabilire la legalità nell’area. La risposta fu la messa in atto di una guerra con tutti i crismi delle ‘classiche’guerre internazionali, condotta e propagandata con assordante fragore mediatico e con totale assenza di autorità (e perfino di simboli) delle Nazioni Unite.

Il mondo del pacifismo reagì vivacemente, non soltanto in Italia, contro ciò che considerava un tradimento delle aspettative di pace e di corretta legalità suscitate dal crollo del Muro di Berlino nel 1989 e dal fatto che il Consiglio di Sicurezza dimostrava finalmente di poter decidere libero dai condizionamenti del veto di questo o quel suo membro permanente (Usa, Urss, Cina, Francia, Regno Unito). Bisognava certamente far cessare l’aggressione, ma con mezzi e modalità compatibili con i principi e le norme della Carta delle Nazioni e del Diritto internazionale dei diritti umani, quindi con azioni condotte sotto la diretta autorità e il comando ‘sopranazionale’ dell’ONU.

L’estromissione del ruolo delle Nazioni Unite fu purtroppo facilitata dalla suddetta risoluzione 678, che suonava rinuncia del Consiglio a spendere il proprio potere in conformità ai dettami dello statuto dell’ONU. Ci fu chi, con convincente argomentare, ritenne che la suddetta risoluzione fosse stata adottata ultra vires, cioè debordando dalle competenze del Consiglio, e che pertanto quella guerra non avesse la legittimazione delle Nazioni Unite. Una implicita conferma di questa tesi è contenuta nel famoso rapporto del 1992 del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Boutros Ghali, intitolato Un’Agenda per la Pace, laddove si afferma che, fino ad allora, non aveva mai trovato applicazione l’articolo 42 della Carta che dispone per interventi diretti del Consiglio di Sicurezza con l’impiego del militare.

Gli stati, in particolare quelli occidentali, fecero a gara nel partecipare alla guerra, compresa l’Italia. Nel nostro Parlamento, l’azione bellica fu giustificata (spacciata) dal Governo presieduto dall’onorevole Andreotti quale ‘operazione di polizia’ delle Nazioni Unite. La vera ragione dell’estromissione delle Nazioni Unite stava invece nell’intenzione, ripetutamente esplicitata, del Presidente Bush senior di dare corso ad un ‘nuovo ordine internazionale’, le cui regole sarebbero state primariamente quelle dettate dal vincitore sul campo di una guerra guerreggiata di rilievo mondiale. La dottrina Bush era per un modello di ordine basato sul ruolo degli stati sovrani, al cui interno le Nazioni Unite e, più in generale, le istituzioni multilaterali avrebbero avuto un ruolo ancillare, sottoposte alla volontà degli stati più forti.
Il mondo pacifista interpretò questo come una sorta di richiamo della foresta alla logica dell’homo homini lupus e quindi del classico ius ad bellum, comportante l’imposizione, costi quel che costi, della volontà del più forte sui più deboli tramite guerre vittoriose, genitrici appunto di nuovi assetti delle relazioni internazionali. Così era avvenuto con la Pace di Westfalia dopo la guerra dei trent’anni, col Congresso di Vienna dopo le guerre napoleoniche, con il Trattato di Versailles dopo la prima guerra mondiale, con la Carta delle Nazioni Unite dopo la seconda guerra mondiale. Ma la dottrina Bush andava proprio contro la nuova storia, segnata dai grandi processi di mutamento strutturale collegati alla tentacolare dinamica della globalizzazione nei vari campi, alla ‘glocalizzazione’ dello spazio politico e all’internazionalizzazione dei diritti umani.

Partendo da questa diagnosi, il Centro diritti umani dell’Università di Padova si fece interprete del disagio e della indignazione suscitati da quanto andava perpetrandosi a disprezzo della legalità. In ambito accademico si era consapevoli che stavano flagrantemente prevalendo le ragioni della Realpolitik e della geopolitica dell’egoistico interesse nazionale e che, nel nuovo contesto segnato dalla fine del bipolarismo, con la Guerra del Golfo si sarebbe aperta l’era della ‘guerra facile’, facile da sferrare ma difficile, se non addirittura impossibile, da concludere. L’evidenza empirica fornita soprattutto dalle guerre in Somalia (1993), in Afghanistan (2001), in Iraq (2003) e, ora, dalla guerra in Siria e dalla ‘guerra a pezzetti’, condannata da Papa Francesco, danno ragione a quanto denunciato dai pacifisti. Giovanni Paolo II aveva profeticamente lanciato il monito della ‘guerra, avventura senza ritorno’.

La mattina del 17 gennaio 1991, il Direttore e il Vice Direttore del Centro Diritti Umani stilarono una dichiarazione di obiezione di coscienza totale a quanto sarebbe stato deciso (anche) dallo stato italiano. E’ un breve testo, che intende significare la presa di distanza di strati significativi di ‘Popolo’ dalle istituzioni del proprio ‘Stato’ nel momento in cui queste contravvengono a basilari principi di legalità costituzionale e universale. E’ il caso di ricordare che mentre era in corso alla Camera dei deputati il dibattito sulla partecipazione dell’Italia, il Direttore del Centro riuscì ad avere un contatto telefonico con l’onorevole Flaminio Piccoli, Presidente della Commissione affari esteri, nel tentativo di spiegargli che la tesi dell’intervento di polizia delle Nazioni Unite non era sostenibile perchè destituita di qualsiasi fondamento giuridico. Invano. In quella stessa mattina del 17 gennaio, il testo dell’obiezione di coscienza fu personalmente consegnato dai due primi firmatari al Prefetto di Padova, che si intrattenne molto cortesemente con i due firmatari, pur nell’imbarazzante atipicità della circostanza, chiedendo cosa avrebbe dovuto fare. Gli fu suggerito di rimettere il documento al Governo. A quella dei padovani seguirono numerose altre firme, tra le quali quelle del Vescovo Tonino Bello e di don Albino Bizzotto dei Beati i Costruttori di Pace.
Di seguito, pubblichiamo il testo della “Dichiarazione di obiezione di coscienza all’uso della violenza per la soluzione delle controversie internazionali indirizzata allo Stato Italiano”:

“Io sottoscritto …., nato a .… domiciliato a .... nell’esercizio dei diritti innati e inviolabili riconosciutimi dalla Costituzione italiana (articoli 2 e 3) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ratificato dall’Italia nel 1977; in virtù, tra le altre, delle norme contenute negli articoli 6 (diritto alla vita) e 18 (diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione) del suddetto Patto, per nesssuna ragione e in nessuna circostanza derogabili come espressamente disposto dall’articolo 4 dello stesso Patto; in virtù dell’articolo 1 della Legge della Regione Veneto 18/1988 per la promozione di una cultura di pace; in piena comunione con S.S. Giovanni Paolo II che ha dichiarato la guerra ‘avventura senza ritorno’, manifesto piena e incondizionata obiezione di coscienza all’uso della violenza per la soluzione delle controversie internazionali; manifesto altresì piena e incondizionata obiezione di coscienza alle spese militari; rifiuto pertanto ogni collaborazione a quelle istituzioni e persone che ricorrano all’uso della violenza per la soluzione delle controversie internazionali in violazione della legalità e in disprezzo dei diritti inviolabili della persona e dei popoli sanciti dalla legge internazionale”.

Il gesto anòmico partito da Padova fu preludio alla affollata ‘Arena Golfo’ che i Beati i Costruttori di Pace organizzarono il 27 gennaio 1991, con interventi orali e messaggi, tra gli altri, di David Maria Turoldo (La devastazione degli spiriti), Mons. Tonino Bello (Le ragioni della speranza), Mons. Alfredo Battisti (Si fermi l’industria bellica), Mons. Loris Capovilla (La pace guidi la sorte dei popoli), Antonio Papisca (Noi, popoli delle Nazioni Unite). Tra le innumerevoli manifestazioni realizzate in questo periodo si segnala in particolare quella che ebbe come coraggiosi protagonisti tre piccoli Comuni della provincia di Padova: Ponte San Nicolò, Vigonza, Arre, i quali, con formale delibera dei rispettivi Consigli, si dichiararono “Comune non belligerante che ripudia la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali” e organizzarono il 2 marzo 1991 una staffetta “Le strade della pace” con atleti di fama nazionale che si concluse di fronte alla Prefettura di Padova.

Merita anche di essere segnalata l’occupazione dei binari ferroviari effettuata a Pescantina (Veneto) il 12 febbraio 1991 da appartenenti al Movimento Nonviolento, tra i quali Mao Valpiana, per impedire il passaggio di un convoglio recante forniture militari con destinazione Livorno e per il Golfo Persico. Il processo celebrato presso il Tribunale di Verona, si concluse nel 1997 con la piena assoluzione degli imputati, confermata anche in appello. Nella motivazione della sentenza assolutoria si legge tra l’altro: “All’udienza del 27 gennaio 1997 sono stati esaminati i testi ... prof. Antonio Papisca, tra l’altro Direttore della Scuola di specializzazione in istituzioni e tecniche di tutela dei diritti umani dell’Università di Padova che ha illustrato le motivazioni di carattere giuridico contro la c.d. ‘guerra del golfo’ poste a fondamento della manifestazione dei pacifisti che ha definito nel loro concreto operare ‘assertori di una legalità forte, fondata sui diritti umani’ e ‘assertori di una legalità costituzionale internazionale’, e Padre Angelo Cavagna che ha illustrato le alte motivazioni morali che ispirarono la condotta degli imputati”. Si legge inoltre: “Conclusivamente logica e realtà fattuale vogliono che la manifestazione così inscenata dai pacifisti del Movimento Nonviolento sia stata un semplice atto dimostrativo di carattere meramente simbolico finalizzato a sensibilizzare l’opinione pubblica in ordine al pericolo di risolvere con le armi le controversie internazionali e non un tentativo impulsivo, ingenuo e velleitario di un gruppo di giovani animati da sani principi, tendente ad impedire la prosecuzione del treno”.Di tutti questi fermenti dà ampia documentazione il volume curato da M. Mascia e A. Papisca, Pace diritti umani, agenda politica. Idee e proposte sulla via istituzionale alla pace, Padova, Cleup, 2011 (pp. 750).

A 25 anni di distanza, la lezione rimane inascoltata da chi ha il potere di governare il mondo nonostante che sia sempre più evidente, oggi ancor più di prima, che la guerra è veramente avventura senza ritorno e che guerra chiama guerra fino all’attuale metastasi della ‘guerra a pezzetti’ secondo la definizione di Papa Francesco. La costruzione della pace passa necessariamente attraverso il rispetto dei diritti umani, il disarmo reale e il funzionamento di strumenti di governance che, in ossequio al principio di sussidiarietà, operino nello spazio ‘glocale’ che ha come poli fondamentali le comunità locali e le legittime istituzioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite da potenziare e democratizzare.

Occorre incalzare chi ha responsabilità di governo nei vari campi affinchè dimostri, in parole ed opere, di avere il coraggio della pace. Una occasione importante per questa prova di coraggio è offerta dal dibattito in corso a Ginevra, al Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite, per l’adozione di una Dichiarazione che riconosca la pace come diritto fondamentale della persona e dei popoli. Ci sono Stati che si oppongono decisamente, dicendo senza alcuna remora e pudore, che se c’è il diritto alla pace, allora non si può più fare la guerra. E ci sono Stati per così dire timidi, che esitano a schierarsi dalla parte della verità, dell’etica e della legalità. E’ in particolare sui governanti di questi secondi paesi che bisogna insistere perchè non si vergognino di manifestare il coraggio di cambiare registro e di guardare oltre l’orizzonte miope del prossimo appuntamento elettorale e degli introiti derivanti dal commercio delle armi.

Per un’ampia e dettagliata rassegna delle manifestazioni pacifiste relative alla prima Guerra del Golfo si veda il numero speciale della rivista del Centro Diritti Umani dell’Università di Padova ‘Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli’, n.3, 1990 (stampato nella primavera del 1991).