Contributo alla riflessione sul tema: Bene comune e beni comuni, l’opera della politica

1. Coincidenze nel segno dell’universale.
Il 32° Convegno Nazionale delle Caritas Diocesane si svolge quest’anno in un contesto di ricorrenze che sono significative per il tema in programma: il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il 60° anniversario della Costituzione della Repubblica Italiana, l’Anno Europeo del Dialogo Interculturale, l’Anno Internazionale del Pianeta Terra.
Ciò che si ricava da questo mysterium coniunctionis, è che la bussola dei diritti umani deve realmente guidare l’azione politica dalla Città all’ONU.
Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani, iniziato con la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale, è la più grande conquista di autentica civiltà cui l’umanità è pervenuta nel secolo XX durante il quale sono avvenute anche le più sanguinose guerre della storia, genocidi, olocausto, gulag, pulizia etnica, l’impiego della bomba atomica e l’attacco all’ambiente naturale.
Il Diritto internazionale dei diritti umani che si è sviluppato, in maniera organica, negli ultimi 60 anni ha innescato una rivoluzione umanocentrica all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale, ponendo a suo fondamento il principio del rispetto della “dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti eguali ed inalienabili” e rendendo a questo strumentale l’esercizio della sovranità degli stati.
A questa conquista si è giunti dopo secoli di rivendicazioni, di violazioni, di testimonianze pagate anche col sacrificio della vita, lungo un percorso che ha visto camminare insieme gli operatori della civiltà del diritto e quelli della civiltà del lavoro.
Nel 60° anniversario della Dichiarazione Universale occorre ribadire con forza che questa conquista è irrinunciabile e che va pertanto difesa e sviluppata nello scrupoloso rispetto dei principi che informano l’intero corpus organico del nuovo Diritto internazionale che appunto nella Dichiarazione trova la sua fonte principale.
2. Diritti umani: valori-azione.
La fede senza le opere è morta. Parafrasando dalla Lettera di San Giacomo (2.26), diciamo che i diritti umani, se confinati allo stadio del mero riconoscimento giuridico-formale, sono ‘diritto morto’, anzi offesa e bestemmia contro la dignità umana. I diritti umani o diritti fondamentali della persona sono quei bisogni vitali, materiali e spirituali, che il legislatore “riconosce” quali diritti appunto “fondamentali” per imporre a se stesso, alle istituzioni e a tutti l’obbligo di soddisfarlI. Una sentenza di tribunale che accerti che una determinata persona ha subito la violazione del suo diritto fondamentale al lavoro, è lettera morta se non c’è poi, in sede di esecuzione – intendo dire, concretamente – il lavoro per quella persona.
Questo incipit sta ad indicare la scelta di un approccio assio-pratico alla politica, che, partendo da una piattaforma di valori universali, comporta la messa a punto di un’agenda operativa in cui, in base all’assunto che si versa sul terreno della precettività, e non della mera programmaticità, ad ogni diritto fondamentale è fatto corrispondere un elenco di impegni concreti, un elenco evidentemente aperto ma puntuale. Come ogni Agenda che pretenda di avere un orizzonte strategico e quindi respiro di lungo periodo, anche quella della politica deve avere un preambolo che faccia riferimento alle fonti etiche e giuridiche nonché ai soggetti, ai metodi e allo spazio, territoriale, istituzionale e funzionale, entro il quale perseguire i valori tradotti in obiettivi.
Nei decenni passati, il ‘preambolo’ delle piattaforme elettorali delle principali formazioni politiche e partitiche riassumeva, in maniera più o meno adattiva, il contenuto delle grandi ideologie storiche.
Oggi, la politica – pensiero e azione – è segnata dalla crisi della governance, che è una crisi di ideologie e, allo stesso tempo, di capacità di governo ed investe la stessa forma istituzionale con cui la politica si è finora esercitata. Intendo dire che è in atto la crisi della ‘forma Stato’, cioè di quella realtà istituzionale che storicamente si è espressa nello “Stato-nazionale-sovrano-armato-confinario”, entità che transustanzia popolo, governo, territorio in una persona giuridica iperumana, dotata del duplice attributo dello ius ad bellum e dello ius ad pacem (diritto di far la guerra e dirito di far la pace) da esercitarsi nel contesto di un ordinamento giuridico – il vecchio Diritto internazionale statocentrico – costitutivamente a-morale e a-umano: tanto per intenderci, il sacrosanto principio ‘pacta sunt servanda’ veniva disinvoltamente usato per ‘pacta sceleris’ o comunque, sempre, asservito alla clausola ‘sic stantibus rebus’.
L’esigenza di una “statualità sostenibile” si pone oggi, con drammatica urgenza, tra vischiosità, resistenze e tentativi di arretrare sul terreno della civiltà del diritto. Occorre essere consapevoli che i diritti umani segnano un percorso di liberazione dal potere prevaricatore, dalla paura e dal bisogno, ma non dalle pubbliche istituzioni. Se queste mancano o sono depotenziate, mancano le ‘garanzie’: la cultura dei diritti umani rifugge dall’anarchismo e dai populismi. Alla crisi strutturale della statualità si accompagna la crisi della pratica (beninteso, non del valore) della democrazia nei paesi che ne hanno più antica esperienza e che pur pretendono di esportare la loro concezione della democrazia anche con operazioni belliche e l’occupazione di territori altrui. Anche di questa crisi le cause sono molteplici: tra di esse, l’insufficienza dello spazio territoriale dello ‘stato-nazione-sovrano’ in presenza del fatto che le grandi decisioni si prendono al di là e al di sopra di tale spazio, in maniera ora trasparente ora, sempre più spesso, non trasparente. L’istanza democratica urge perché la relativa pratica si estenda al di là delle sue Colonne d’Ercole – i confini dello stato-nazione sovrano – e si sviluppi, partendo dagli ambiti della democrazia locale, con adeguate forme di democrazia transnazionale e cosmopolitica, rappresentativa e partecipativa.
3. La sfida del ‘pensare politicamente’ per il bene comune
Le ‘categorie’ del bene comune e della politica devono essere contestualizzate nello scenario mondiale in forte mutamento.
I singoli, le famiglie, i gruppi vivono la condizione dell’interdipendenza planetria complessa, nel senso che sulla loro vita quotidiana influiscono direttamente fattori e vicende internazionali che lo Stato di appartenenza non è più capace, adeguatamente, di schermare e nemmeno di filtrare. Ieri, ad interdipendere erano gli stati, cioè i rispettivi governi. Oggi, ad interdipendere sono le realtà umane e sociali che vivono ed operano al loro interno. La condizione di interdipendenza, con tutti gli squilibri che comporta, si alimenta attraverso i processi di mondializzazione che investono i campi dell’economia, della finanza, della tecnologia, della comunicazione, della cultura. L’esigenza di governare la mondializzazione, per ridurne gli effetti negativi e valorizzare quelli positivi, non ha ancora trovato risposta adeguata. Al riguardo, anche tra coloro che più possono, e non soltanto negli ambienti di società civile globale, si dibatte, ma si è ancora lontani dal condividere il medesimo modello di ordine mondiale. L’era della globalizzazione lancia la sfida a ‘ricapitolare’ valori e campi d’azione nel segno della dignità umana, della eguale dignità di ‘tutti i membri della famiglia umana’. La sfida è del “pensare politicamente” nel senso assio-pratico elucidato da Jacques Maritain, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti. Colpisce di quest’ultimo lo scarno e perentorio linguaggio con cui ha esercitato il suo appassionato apostolato costituzionale nel periodo a cavallo degli anni 1994-1995. Nell’ottica dei valori cristiani, egli affermava che il “regime della cristianità”, esaltato tra gli altri da Eusebio di Cesarea con riferimento a Costantino e a Teodosio il Grande, è “irrimediabilmente finito” e che è da scartarsi la scelta di “un regime di salvataggio dei rottami della cristianità”. E si domandava: “Oggi sentiamo parlare di altri valori o di altre battaglie…ma chi ci dà un pensiero adeguato, che possa veramente, in maniera nuova e creativa, smontare le obiezioni contrarie? Qual è il tipo di nuova cultura che può opporsi a questo?”. La risposta che egli dava è che “i nostri valori devono essere difesi in nome di due cose: di una visione organica, vitale e creativa del cristianesimo di sempre, e, in secondo luogo, in nome anche di una nuova cultura, veramente adeguata alle scienze umane contemporanee: non perché questa nuova cultura le debba assumere nel loro contenuto materiale, ma perché essa deve rinnovarsi nel pensiero inquadrante; come ha fatto, per esempio, s.Tommaso d’Aquino: al risveglio del pensiero aristotelico in occidente, lo ha inquadrato in un sistema organico, a quell’epoca pienamente adeguato”. Io sono convinto che la provvidenza ci offre oggi l’opportunità di realizzare lo “inquadramento” di cui parlava Dossetti, utilizzando la sintassi dei segni dei tempi e avvalendoci del ‘sapere’ dei diritti umani e dello “ius positum” universale che lo traduce in principi e norme giuridicamente vincolanti.
Giuseppe Lazzati, altro grande maestro di scienza e di vita, sottolineava, in occasione di un convegno all’Università Cattolica celebrativo di Jacques Maritain, la “volontà di collaborare da universitari a costruire un mondo umano nel segno della verità e della pace, nella libertà. Una via che ha certamente quale fondo sicuro su cui muovere il passo il ripensare – che non è il ripetere – l’insegnamento dei principi del tomismo – fatto di amore e di zelo dell’essere e di senso dell’analogia –, in confronto con tutte le posizioni del pensiero moderno e contemporaneo, un confronto dialogico nel quale l’ascolto non faccia dimenticare la propria identità e la fedeltà alla propria identità non diventi pretesto per impedire l’ascolto interessato e leale”.
“Amore e zelo dell’essere”, come dire originarietà e centralità della persona: siamo nell’ortodossia dei diritti umani.
Ancora Giuseppe Lazzati: “Se la politica è la scienza e l’arte di costruire la città dell’uomo a misura d’uomo, non apparirà strano se dico che la prima esigenza della formazione politica è quella di una salda fondazione e continua alimentazione culturale avente come primo polo la concezione dell’uomo come persona”. Ancora: “Dire persona non è infatti solamente dire, secondo la definizione boeziana, la spiritualità dell’ente individuo che sotto tale nome rappresentiamo, ma è dire la sua conseguente ineliminabile relazionalità in tutte le direzioni possibili e cioè in direzione sovrumana, umana e infraumana. Tale caratteristica la stabilisce nella sfera dei suoi diritti e dei suoi doveri ed essa impedisce sia la sua riduzione a individuo e sia la sua sparizione nel collettivismo. Proprio per questo, la persona è punto di partenza e termine finale di una città che voglia essere costruita e gestita a misura di uomo, cioè rispettosa e garante dei diritti inviolabili della persona cui domanderà l’adempimento dei suoi inderogabili doveri di solidarietà derivanti dalle ricordate relazionalità. Viene da chiederci se siamo abbastanza consapevoli delle conseguenze che la centralità dell’uomo, cioè della persona, in ogni problema riguardante la città dell’uomo, che voglia essere presente a misura di uomo, viene ad avere per le scienze economiche, giuridiche, politologiche, per citare le più direttamente interessate alla politica! La mia risposta è negativa!”.
Concludiamo sul punto ancora con Lazzati: “La linea sulla quale il Maritain si muove è quella del recupero del significato di universalità dei valori umani impliciti nel cristianesimo e che fanno da fondamento degli specifici valori cristiani che a quelli ineriscono salvandoli. Quella universalità rappresenta il punto di incontro per quanti su quei valori e quindi sulle determinazioni che se ne deducono in campo economico, sociale, politico, intendono fondare una convivenza umana volta a realizzare il bene comune temporale, frutto e condizione di piena espansione di ogni persona”. In una lettera di una decina d’anni prima, lo stesso Lazzati scriveva: “È mia convinzione che il pensiero politico di Maritain, a mio modesto giudizio, così capace di fondere pensiero e storia, teoresi e prassi, dovrebbe oggi ancora essere preso da modello per una azione culturale che si proponga di fornire un valido fondamento ad una attività politica che voglia muovere a un vero rinnovamento qualitativo della nostra convivenza politica”.
“Pensare politicamente”, oggi, richiede sempre più capacità di sintesi e di progettualità ingegneristica da esercitare con riferimento ad un contesto dilatato di relazioni, con riferimento cioè al sistema-mondo segnato dall’interdipendenza planetaria, dalla globalizzazione e dalla transnazionalizzazione, e tenuto conto, come già prima accennato, della necessità di articolare la proposta politica, contemporaneamente, su più livelli di architettura istituzionale e di azioni di governo.
A mio modesto, ma convintissimo avviso, l’inquadramento della cultura politica nell’odierno contesto mondializzato deve partire elementarmente, umilmente, da un bagaglio aggiornato di educazione civica e politica, all’interno di un più ampio disegno educativo il cui contenuto è definito dall’articolo 13 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, ratificato dall’Italia nel 1977, il quale riprende l’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “Gli stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’istruzione. Essi convengono sul fatto che l’istruzione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e del senso della sua dignità e rafforzare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali. Essi convengono inoltre che l’istruzione deve porre tutti gli individui in grado di partecipare in modo effettivo alla vità di una società libera, deve promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia fra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali, etnici o religiosi e incoraggiare lo sviluppo delle attività delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace”.
È l’educazione per i diritti umani e la pace, quale didatticamente elucidata dalla pionieristica Raccomndazione dell’Unesco del 1974 dedicata appunto all’educazione a dimensione internazionale
L’educazione è dunque per il perseguimento del duplice contestuale obiettivo del bene personale (o dell’insieme dei bona personali) costituito dallo sviluppo della personalità individuale mediante la fruizione dei diritti e delle libertà fondamentali e dei corrispettivi doveri, e del bene comune universale: bene comune primario è il binomio indissociabile vita/pace
4. Diritti umani, ‘verità pratiche’: pienezza del diritto (plenitudo iuris)
La Dichiarazione Universale è, insieme con la prima parte della Carta delle Nazioni Unite, la fonte delle fonti del Diritto internazionale di diritti umani, uno Ius positum novum che ha recepito principi di etica universale e se ne fa traghettatore nei vari campi della umana convivenza, dalla politica all’economia, con la forza cogente che è propria della norma ‘costituzionale’. La Dichiarazione proclama che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”(art.1, corsivo aggiunto). È dunque lo stesso Diritto internazionale che esplicita il fondamento dei diritti della persona: la persona stessa, “diritto umano sussistente” (A.Rosmini). È la “norma morale” su cui si fonda l’intero ordinamento giuridico mondiale, un tema su cui insiste Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace 2008 e nel Discosro all’ONU del 18 aprile 2008. Ulteriore sostegno a questa tesi viene dal Preambolo della Dichiarazione, laddove proclama che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” (corsivo aggiunto).
A partire dal 1945-1948, con il riconoscimento giuridico della dignità umana nell’ordinamento internazionale, la storia è entrata in quello stadio avanzato della civiltà del diritto che possiamo chiamare della plenitudo iuris (pienezza del diritto) perché segnata dalla centralità della persona e dalla ratio strategica dell’inclusione (ad omnes includendos). Sotto l’impulso di questo Diritto internazionale umanocentrico, si sono sviluppate nuove filosofie e strategie d’azione segnate dall’aggettivo ‘umano’, segnatamente lo ‘human development’ e la ‘human security’, ed è avvenuta, ufficialmente a partire dall’anno 2000, la (ri)scoperta del principio della ‘responsabilità di proteggere’ la vita delle comunità umane superando il principio della non-ingerenza negli affari interni degli stati. Tra le più recenti conquiste del ‘nuovo’ Diritto internazionale si segnalano la Convenzione internazionale ‘sui diritti umani delle persone con disabilità’, la Dichiarazione universale dell’Unesco su diritti umani e bioetica, la Convenzione internazionale Unesco sulla diversità culturale, il documento relativo ai ‘Principi-guida su diritti umani e povertà estrema: i diritti del Povero’, diffuso nel 2007 per iniziativa del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. In questo contesto di umanizzazione del Diritto nel segno dell’etica universale, trovano ulteriore, forte legittimazione e spazio d’azione le formazioni organizzate e i movimenti transnazionali di società civile globale. Il pianeta è infatti attraversato da reti e da reti delle reti di queste strutture, le quali operano per orientare la globalizzazione nella direzione di un ordine mondiale coerente con i principi del nuovo Diritto internazionale, quindi di un ordine più giusto, pacifico e democratico. Un importante documento ‘legittimante’ è costituito dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite ‘sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di proteggere e promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti’ (8 marzo 1999), il cui articolo 1 stabilisce che “tutti hanno il diritto, individualmente ed in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale ed internazionale”. Si fa qui appello alla responsabilità sociale di tutti, in particolare di singoli, di associazioni, di movimenti e di enti di governo locale (quali ‘organi della società’) che operano attivamente per la promozione umana all’interno delle comunità sociali e politiche ai vari livelli, da quello locale a quello mondiale. Per i soggetti di società civile è la legittimazione a esercitare una responsabilità altissima, che supera la portata formale del freddo dovere giuridico e lo traduce in concrete azioni di solidarietà e di protagonismo democratico.
La nuova Agenda della politica, a qualsiasi livello venga proposta, deve farsi carico di perseguire, nel rispetto della vigente legalità internazionale fondata sulla Carta delle Nazioni Unite e sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, obiettivi di governance su più livelli nel pianeta interdipendente e globalizzato: si parla di una cultura di ‘global governance’ come di quella che deve essere fatta propria e condivisa dagli amministratori locali, dai governanti nazionali e dai funzionari delle istituzioni internazionali.
Dunque, alla luce del vigente Diritto internazionale, e non soltanto dell’etica universale, fine della politica è il perseguimento del bene comune, cioè di “tutti i diritti umani per tutti”, e dire diritti umani significa dire, nell’ottica del telos, cioè della finalizzazione di comportamenti e politiche, nell’era delle mondializzazioni, che il perseguimento del bene personale “di tutti i membri della famiglia umana” e quello del bene comune universale convergono all’interno di un medesimo percorso di impegno personale, sociale e internazionale che parte dai micro ambiti della famiglia e della comunità locale fino ad arrivare al macro spazio del mondo: dalla città fino all’ONU, come usano dire le organizzazioni e i movimenti di società civile globale.
Su questa dilatazione spaziale e funzionale del bene comune, è illuminante la ‘Pacem in Terris’: “Come il bene comune delle singole Comunità politiche, così il bene comune universale non può essere determinato che avendo riguardo alla persona umana. Per cui anche i Poteri pubblici della Comunità mondiale devono proporsi come obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona. Ancora: “Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana, e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla Comunità mondiale”. Nel Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace del primo gennaio 2005, Giovanni Paolo II sottolinea che “il bene comune riguarda da vicino tutte le forme espressive della socialità umana: la famiglia, i gruppi, le associazioni, le città, le regioni, gli stati, le comunità dei popoli e delle nazioni” e parla più volte di “cittadinanza mondiale”. C’è qui la elucidazione del bene comune con riferimento ai parametri delle soggettività, della spazialità, della sussidia-rietà, partendo dalla centralità della persona. Questa visione di soggettualità concentrica è sviluppata anche nel Messaggio di Benedetto XVI in occasione della Giornata Mondiale per la Pace 2008.
L’approccio delle “verità pratiche”, suggerito da Jacques Maritain per l’interpretazione e la realizzazione dei diritti della persona, è particolarmente utile, anche oggi, per riflettere sul bene comune, un tema tanto nobile quanto inflazionato di definizioni, teorie, retorica. Come noto, allorquando si trattò di redigere la Dichiarazione Universale il grande filosofo sostenne, con successo, la tesi secondo cui, più che discutere sul fondamento dei diritti della persona, era utile stenderne l’elenco all’interno di strumenti giuridicamente vincolanti – come dire, mettere nero su bianco – partendo dall’assunto che, prima e più che altrettanti costrutti giuridici, i diritti fondamentali sono sostanza vitale dell’essere umano integrale, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia. In quest’ottica assio-pratica, la sfida che il bene comune lancia è quella della sua azionabilità, cioè della traduzione dei ‘valori’ di cui si sostanzia, in altrettanti obiettivi, strategie e azioni pratiche (misure positive, politiche sociali).
In un mondo sempre più interdipendente e globalizzato al positivo e al negativo, il concreto perseguimento del bene comune è sfidato a superare la duplice barriera costituita dal revival della geopolitica e dell’interesse nazionale, cioè della Realpolitik, e dal mito dell’economia di mercato costi-quel-che-costi. A condurre l’impresa della promozione umana nel dilatato spazio del pianeta, un importante aiuto ci viene dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani che, come già ricordato, sono all’origine del “nuovo” Diritto internazionale, quello che pone il “riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e inalienabili”, a fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo – dunque, dell’intero ordine mondiale –, sancisce il ripudio della guerra, impone l’obbligo di risolvere pacificamente le controversie internazionali, apre percorsi di economia di giustizia. Lo Ius novum universale, facendosi traghettatore di principi di etica universale dentro l’agenda della politica e dell’economia, ci consente di cogliere, con l’autorevole avallo appunto del diritto positivo, il contenuto, la legittima titolarità, la corretta dimensione spaziale e la portata assio-pratica del bene comune. Questo consiste nell’inscindibile binomio vita-pace, a sua volta traducibile nella formula “tutti i diritti umani per tutti”.
Soggetti protagonisti – artefici e, allo stesso tempo, beneficiari – di bene comune sono tutti i membri della ‘famiglia umana’: una nuova ‘figura giuridica”, questa, che fino alla Dichiarazione Universale era sconosciuta al linguaggio del diritto positivo e che riassume, ad un più elevato livello di Civiltà del Diritto, i diritti e le responsabilità sia delle singole persone sia dei tradizionali soggetti collettivi quali i “popoli”, i “gruppi”, le “minoranze”, senza distruggerne le specifiche identità. Questo superiore grado di civiltà del diritto si connota, costitutivamente, per il fatto essenziale che i tradizionali precetti “neminem laedere”, “unicuique suum tribuere” sono completati dal precetto “bonum facere”, e i tradizionali principi “pacta sunt servanda”, “consuetudo servanda est” diventano strumentali all’avveramento del principio “humana dignitas servanda est”.
La concretizzazione del bene comune avviene, come proclama l’articolo 28 della Dichiarazione Universale, all’interno del cantiere ove si esercita “il diritto di ogni essere umano ad un ordine sociale e internazionale nel quale tutti i diritti e le libertà enunciate dalla presente Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”. Opus iustitiae pax: è, questo, il senso del diritto fondamentale alla pace.
Il tema del bene comune è dunque strettamente collegato a quello dell’ordine mondiale. Per rispondere al cruciale quesito: quale assetto per le relaizoni fra stati e fra popoli, sulla base di quali principi, con quali istituzioni, con quali mezzi, con quali politiche?, non si tratta di inventare nulla di nuovo o di proiettarsi nel vuoto. Il disegno, ovvero il DNA, di un ordine mondiale in sintonia con la genuina accezione di bene comune universale, è già stato identificato, nella metà degli anni quaranta del secolo scorso, dalla Carta delle Nazioni Unite. Questa è stata feconda: ha generato il Diritto internaizonale dei diritti umani, la cultura dello sviluppo umano, la pratica della cooperazione multilaterale, il Diritto internazionale penale, ha dato visibilità al ruolo dlle organizzazioni non governative, ha disegnato l’architettura di un organico sistema di sicurezza collettiva, ha diffuso il tabù del colonialismo e dell’apartheid, sta diffondendo, pur se faticosamente, il tabù della povertà estrema. Esistono oggi, realmente, gli elementi essenziali per costruire un ordine mondiale più giusto, pacifico e democratico, si tratta di comporre le “tessere” del “mosaico”. Insistendo sul metaforico, possiamo anche dire che il mondo è come una casa riccamente attrezzata di sofisticati elettrodomestici – norme giuridiche, istituzioni internazionali, procedure di garanzia, programmi di cooperazione, reti transnazionali di associazionismo operante a fini di promozione umana…–, i quali solo in parte sono messi nella condizione di funzionare. La responsabilità di tutti, oggi, è di farli funzionare efficacemente, con ogni opportuno adattamento, per una governance globale capace, tra l’altro, di imporre il disarmo e orientare a fini di economia di giustizia le organizzazioni economiche internazionali.
5. Le Nazioni Unite, casa comune
Di fronte a questa provvidenziale, ricca messe di talenti universalistici, inseminati nella storia dalla buona volontà di illuminati ‘architetti’, stridente e dissennato appare il disegno di coloro che vogliono distruggere l’architettura e gli “elettrodomestici” dell’ordine mondiale fondato sul diritto internazionale dei diritti umani.
“Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini”: come noto, l’aforisma si riferisce allo scempio dei monumenti antichi perpetrato da potenti famiglie romane per la costruzione dei loro palazzi. Oggi è in atto il tentativo di distruggere la meravigliosa costruzione che ha il suo simbolico incipit nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite: “Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra …, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo…”. Remando contro la storia, oltre che contro l’etica e il diritto universale, è in atto il tentativo di rilanciare la cultura della “geopolitica”, incentrata sul primato dell’interesse nazionale.
Rigurgitando l’interesse nazionale ‘vitale’ dei rispettivi stati, governanti potenti ostacolano lo sviluppo politico dei processi di integrazione sopranazionale (dall’Unione Europea al Mercosur), tentano di portare al macero la Carta delle Nazioni Unite e il nuovo Diritto internazionale, intralciano la messa in opera del sistema di sicurezza collettiva, teorizzano e fanno le “guerre preventive”, alle istituzioni multilaterali antepongono occasionali ‘coalizioni multilaterali’ (le ragioni del G8 a quelle dell’Onu), alimentano una anacronistica corsa al riarmo (impennatasi a partire dall’anno 2000), usano armi chimiche e di distruzione di massa con buona pace degli espliciti divieti legali, eccetera.
Nell’ottica del primato dell’interesse nazionale, l’Amministrazione americana e, opportunisticamente dietro di essa, non pochi altri governi, stanno operando per la riappropriazione di quello ius ad bellum (diritto di fare la guerra) che la Carta delle Nazioni Unite e il vigente Diritto internazionale hanno loro sottratto in via di principio.
Dal canto suo il neo-liberismo si è sposato naturaliter con la logica egoistica dell’interesse nazionale e della distruzione delle ‘tessere’ del ‘mosaico’. Il suo obiettivo strategico è la doppia de-regulation, dell’economia e delle istituzioni, il tutto funzionale ad un disegno di ordine mondiale gerarchico basato sul diritto delle sovranità statuali armate e confinarie, un disegno di killeraggio della speranza e del bene comune dei membri della famiglia umana.
Il terrorismo trova alimento sostanzioso in questo contesto di deliberata illegalità.
Per contrastare questa pericolosa deriva, che ha come obiettivo lo smantellamento delle istituzioni multilaterali e il conseguente ritorno ad uno “stato di natura” dei rapporti internazionali (bellum omnium contra omnes), occorre innanzitutto difendere la validità della Carta delle Nazioni: prima e più che “riformare” la massima Organizzazione mondiale, si tratta infatti di “implementare” i precisi obblighi giuridici contenuti nella Carta. Tra questi, c’è la messa in opera del sistema di sicurezza collettiva, mediante la costituzione in via permanente di un corpo di polizia militare e civile sotto la diretta autorità “sopranazionale” del Consiglio di Sicurezza, come previsto dall’articolo 43. Se questo non avviene, è precluso al Consiglio di Sicurezza di intraprendere e condurre per così dire “in proprio”, operazioni comportanti l’uso della forza (evidentemente per fini congrui con i principi della Carta). L’Onu rimarrà ancillare rispetto agli stati, con funzioni meramente notarili rispetto al fait accompli degli stati più forti. Occorre legare le sorti del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni a quelle del Consiglio di Sicurezza, nel senso di potenziare le funzioni di coordinamento del primo miranti a far sì che le Agenzie specializzate delle Nazioni Unite, in particolare Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, si conformino ai principi di giustizia sociale e di stato di diritto contenuti nella Carta e nelle altre fonti del vigente diritto internazionale. Occorre potenziare l’apparato internazionale preposto alla garanzia dei diritti umani, avendo in mente che l’Onu è, per sua stessa natura, l’organizzazione internazionale “ad omnes includendos”, dunque non discriminatoria tra stati buoni e stati ‘canaglia’: bisogna quindi favorire la contaminazione “in diritti umani” di tutti i 192 membri dentro la loro casa comune.
Obiettivo strategico di bene comune è certamente l’integrazione sopranazionale, economica e politica, degli stati, naturale processo di pace positiva. Obiettivi specifici sono contenuti nei Programmi d’Azione adottati al termine delle Conferenze mondiali in tema di sviluppo, diritti umani, difesa dell’ambiente, diritti delle donne e dei bambini. Occorre pertanto dare seguito a questi documenti, mediante la realizzazione di autentiche politiche pubbliche (public policies) internazionali. Ancora, occorre lanciare una grande mobilitazione per il disarmo reale, allo scopo di mettere sotto controllo sia la produzione che il commercio delle armi.
L’agenda del bene comune “agìto” contiene naturalmente molti altri obiettivi, che l’economia del presente intervento non consente di evocare. Vale piuttosto la pena di precisare che in questa strategia di perseguimento del bene comune, finalizzata al perfezionamento della persona, si colloca, in accezione per così dire patrimonialistica e strumentale, il tema dei beni pubblici globali (global public goods) quali, significativamente, l’acqua e l’ambiente naturale. In questo stesso contesto si colloca il cosidetto patrimonio comune dell’umanità (common heritage), riguardante beni artistici, culturali e paesaggistici di particolare importanza, censiti e ‘protetti’ dall’Unesco. Su questo terreno di positiva mondializzazione, si tratta non soltanto di potenziare la funzione di garanzia delle istituzioni internazionali, ma anche di includere nella tipologia nuovi ‘beni’: per esempio, la rete mondiale dell’informazione e della comunicazione, la biodiversità, la diversità culturale e, perché no?, quei territori che possiamo chiamare transnazionali per la presenza in essi di più gruppi etnici, religiosi e linguistici. Questi territori devono essere proclamati bene comune dell’umanità per la ricchezza antropologica, religiosa e culturale che ne forgia l’identità. La governance dei beni pubblici globali e del patrimonio comune dell’umanità non può che essere gestita sotto l’autorità “sopranazionale” delle istituzioni multilaterali.
Occorre soprattutto operare sul terreno dell’educazione, completando il monito della Costituzione dell’Unesco: “poiché le guerre cominciano nelle menti degli uomini, è nelle menti degli uomini che occorre costruire le difese della pace”, con quello di Giovanni Paolo II: “La guerra non è mai una fatalità… Il male ha sempre un volto e un nome…È pertanto indispensabile promuovere una grande opera educativa delle coscienze, che formi tutti, soprattutto le nuove generazioni, al bene comune aprendo loro l’orizzonte dell’umanesimo integrale e solidale, che la Chiesa indica e auspica”.
6. Cittadinanza plurale, cittadinanza inclusiva
Una coerente Agenda politica dei diritti umani deve, in via pregiudiziale, porsi al riparo da equivoci e strumentalizzazioni che portano a considerare i diritti umani in termini ora di emergenza ora di assistenzialismo ora di astratto garantismo processualistico ora di relativismo di convenienza (questo o quel diritto, a prescindere dalla loro interdipendenza e indivisibilità).
La logica del Diritto universale dei diritti umani è quella della centralità della persona umana, dell’eguaglianza e della non discriminazione, dunque è la logica dell’inclusione, come tale postula la “città inclusiva” in un’Europa, in un Mediterraneo e in un mondo inclusivi, in cui sia dato a tutti di poter esercitare eguali diritti di cittadinanza: civili, politici, economici, sociali, culturali.
Il tradizionale istituto della cittadinanza nazionale, come già accennato, è pertanto sollecitato a superare la logica dell’esclusione e del privilegio, una logica costitutivamente discriminatoria.
Facendo riferimento al vigente Diritto internazionale dei diritti umani, la cittadinanza si definisce come lo statuto giuridico di persona umana nello spazio che è proprio dei diritti internazionalmente riconosciuti, cioè nello spazio-mondo che è lo spazio vitale di tutti i membri della famiglia umana, presidiato dalle istituzioni (universali e regionali) di cui la Comunità internazionale è oggi dotata. Uno statuto originario, in quanto tale non ‘octroyé’, ma doverosamente ‘riconosciuto’ dalla potestà anagrafica dello stato. La persona, ogni persona, nascendo con dignità e diritti come proclama l’articolo 1 della Dichiarazione Universale, nasce cittadina del pianeta terra: prima ancora di essere registrato come ‘nazionale’ di questo o quello stato, l’essere umano è cittadino per naturale ascrizione. La cittadinanza universale o primaria è identica per ogni persona, ovunque questa si trovi.
Sullo statuto giuridico di persona umana, cioè sulla cittadinanza universale, si innestano per così dire le cittadinanze nazionali e sub-nazionali (anagrafiche, politiche, amministrative).
Metafora (non soltanto) per la didattica: la “cittadinanza della persona” è come un albero, il cui tronco, insieme con le radici, è costituito dallo “statuto giuridico di persona”, internazionalmente riconosciuto come tale, i cui rami sono costituiti dalle cittadinanze nazionali e sub-nazionali.
La cittadinanza nazionale veniva teorizzata e insegnata come un fatto di identificazione collettiva ad intra, attorno ai simboli della statualità e della storia nazionale, e di esclusione ad extra, nei confronti di quanti non figura(va)no nel registro del dominio riservato di un determinato stato. Si consideri la stessa Dichiarazione francese del 1789, che pure ha fatto scuola in materia: è la ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino’ (corsivo aggiunto), dunque distingue, in pratica arricchisce di diritti chi è già cittadino, alla fine discrimina tra chi è dentro e chi è fuori dello stato che ‘riconosce’. In questa stessa logica sono le pur avanzate Costituzioni democratiche ‘nazionali’.
Ma che senso ha oggi, nell’era dell’interdipendenza planetaria, questa concezione ad excludendum alios? Un senso fortemente ostativo nei riguardi degli indispensabili e urgenti processi di nuova socializzazione miranti a rendere le persone, le famiglie, i gruppi consapevoli delle sfide e dei segni dei tempi, capaci di realizzarsi nel nuovo contesto storico della multietnicità e della multiculturalità, capaci di essere politicamente attivi in sede transnazionale, dentro e fuori dei confini dei rispettivi stati, capaci di esercitare ruoli di pace sociale e di pace internazionale – oggi indissociabili – nello spazio vitale che travalica i confini dello stato.
La cittadinanza della persona, collocata in questo spazio e quindi messa in relazione alle esigenze della nuova organizzazione politica, economica e comunicativa del mondo, è una cittadinanza plurima: la cittadinanza attiva non può non essere, contemporaneamente, universale, europea, nazionale, regionale, municipale. E non può non essere una cittadinanza condivisa (shared citizenship, citoyenneté partagée). L’ottica è ad omnes includendos nelle singole comunità politiche.
Il concetto di cittadinanza è pertanto un concetto evolutivo, come quello della sicurezza e dello sviluppo, tutti sollecitati a ridefinirsi in chiave di multi-dimensionalità avuto riguardo alla centralità della persona umana.
Il discorso sulla cittadinanza plurale pone seri problemi, se si considera che, de iure posito, le cittadinanze nazionali preesistono storicamente alla cittadinanza universale. Ma proprio da qui parte la grande sfida per l’impegno civile e politico, per la nuova frontiera della democrazia. Si tratta di armonizzare gli ordinamenti nazionali e di adottare leggi e politiche sociali adeguate, a cominciare da quelle relative al fenomeno migratorio, in modo da rendere coerenti le cittadinanze particolari con la cittadinanza universale, sì da comporre fisiologicamente l’albero della cittadinanza e favorire l’inclusione di tutti nella comunità politica. Questo lavoro diventa un banco di prova per la good governance a qualsiasi livello questa debba essere esercitata.
Il tema dell’interculturalità, collocato nel suo naturale contesto globale e transnazionale, è strettamente interconnesso con quello della cittadinanza, cioè con la pratica della democrazia. Condividendo la medesima radice assio-giuridica dei diritti umani, la democrazia (nazionale e transnazionale), la cittadinanza ed il dialogo interculturale non possono che risultare interconnessi. C’è anche una funzione strumentale di questo paradigma, nel suo porsi quale codice di simboli comunicativi, cioè quale strumento transculturale che facilita il passaggio dalla condizione potenzialmente conflittuale della multiculturalità allo stadio dialogico della interculturalità. Ma il dialogo potrebbe anche limitarsi ad uno scambio di informazioni, a uno scambio vicendevole di immagini e di stereotipi. Questo è certamente un requisito essenziale ma non sufficiente a raggiungere lo scopo principale che è l’inclusione di tutti nella comunità politica in cui si vive (si risiede) per godere di eguali diritti fondamentali. La risposta giusta alla domanda “a cosa serve il dialogo interculturale?” è: il dialogo per lavorare assieme, per immaginare e realizzare progetti comuni per obiettivi di bene comune”.
Per essere proficuo, il dialogo tra i singoli e tra i gruppi portatori di culture diverse deve avvenire tra pari, altrimenti si darebbe luogo ad altri tipi d’interazione, per esempio ad omologazioni deliberate da una parte o dall’altra o ad integrazioni forzose. La parità, nel nostro caso, sta nell’uguaglianza ontica degli esseri umani così come esplicitamente assunto e sottolineato dal diritto e dalla dottrina ortodossa dei diritti umani. Gli “eguali” sono gli originari titolari della cittadinanza universale. Il dialogo cui siamo interessati dovrebbe avvenire nel contesto della vita di tutti i giorni. Se partiamo dal paradigma dei diritti umani, il dialogo dovrebbe condursi non tanto su principi astratti – l’educazione dovrebbe svolgere un ruolo iessenziale per favorire l’interiorizzazione dei valori – ma piuttosto su come tradurre i principi in comportamenti e politiche e cioè su quanto andrebbe fatto assieme – da eguali – all’interno della stessa comunità politica. Come detto primaa, il dialogo deve essere orientato a comuni obiettivi concreti (goal oriented) più che alla comparazione di stili di vita (comparison oriented). Il comune obiettivo strategico è la costruzione e lo sviluppo della città inclusiva risultante dal contributo delle varie culture. Il fertilizzante di questo processo di inclusion-building è, giova ribadirlo opportune et inopportune, il paradigma dei diritti umani.
Ancora una volta, poniamo l’enfasi sul fatto che la cultura e la strategia dell’inclusione sono in relazione diretta sia rispetto alla pace interna (coesione sociale) che alla pace internazionale, le quali sono le due facce della stessa medaglia. Insomma, la città inclusiva costituisce il terreno per la costruzione di un mondo giusto e pacifico.
Prima dell’avvento del Diritto internazionale dei diritti umani, la cittadinanza si caratterizzava essenzialmente per essere nazionale, unilateralmente octroyée dallo Stato e basata sullo ius sanguinis (diritto di sangue) o sullo ius soli (diritto di suolo) in un’ottica di distinzione-separazione degli esseri umani, in breve ad alios excludendos.
Oggi siamo in una fase avanzata di civiltà del diritto, segnata dalla pienezza umanocentrica del diritto (plenitudo iuris), i cui principi postulano la plenitudo civitatis, la pienezza della cittadinanza. La dignità umana è il valore centrale della plenitudo iuris, che significa eguale dignità di tutti i membri della famiglia umana. La piena cittadinanza si raggiunge quando essa viene istituzionalizzata a partire dallo statuto giuridico di ‘persona umana’ internazionalmente riconosciuto. La “nuova” cittadinanza è forgiata su questo statuto ed è quindi fondamentalmente universale, in una logica ad omnes includendos, quindi articolata al plurale, nel senso che la dimensione universale non cancella le cittadinanze particolari ma apre invece all’esperienza di un’identità più ricca. La cittadinanza universale non è octroyée, e le cittadinanze particolari (i rami dell’albero) devono essere disciplinate nel rispetto della cittadinanza universale (il tronco e le radici dell’albero).
Ne discende che il parametro dello ius humanitatis prevale, deve prevalere, sui parametri tradizionali dello ius soli e dello ius sanguinis, rendendoli complementari al primo e funzionali rispetto all’esercizio armonioso delle identità. Anche per l’identità dei singoli con cittadinanza universale vale l’espressione “uniti nella diversità”: in questo caso “unità” significa identità ontica dell’”essere umano” che si arricchisce e si sviluppa in differentii contesti culturali ed istituzionali. La cittadinanza universale riassume ed armonizza le cittadinanze anagrafiche, e la città inclusiva è il luogo che favorisce questo processo, quindi la cittadinanza plurale postula la città inclusiva, e viceversa.
Nella città inclusiva, in particolare attraverso il dialogo interculturale, la dinamica evolutiva della/delle identità si sviluppa in direzione di una “identità civica trascendente”, un’identità superiore o, se si vuole, un superiore grado di consapevolezza civica che è autenticamente laica perché è universalistica, trans- e meta-territoriale, e transculturale. Questa ‘transcend civic identity’ è la plenitudo iuris così come viene interiorizzata dai singoli, un’identità che è aperta alla condivisione di responsabilità nella città inclusiva, nell’Unione Europea inclusiva, nelle Nazioni Unite inclusive.
La nuova cittadinanza in associazione all’impatto del necessario dialogo interculturale finalizzato all’inclusione democratica, può rivitalizzare la sfera pubblica in un’ottica di governance a più livelli e sopranazionale. Questo tipo di architettura politica è coerente con il bisogno di garantire i diritti di cittadinanza universale nello spazio politico di sua pertinenza. Ed è, infatti, la “fenomenologia del plurale” della cittadinanza, del dialogo e dell’inclusione che obbliga le istituzioni a ridefinirsi in base al telos, quindi ad aprire e sviluppare canali multipli di rappresentanza e di partecipazione democratica.
Alla luce dell’identità civica trascendente dei propri cittadini, in particolare l’Europa, che ha “inventato” il ‘linguaggio giuridico’ e la ‘filosofia organica’ dei diritti umani, è sollecitata a “trascendere” la parte negativa della sua identità storica di ”Occidente”, cioè di potenza egemone, di “conquista”, di colonialismo, di guerre mondiali. Per “trascendere”, l’Europa deve ridefinirsi sulla scorta della parte positiva della sua identità storica, radicata nei valori cristiani e quindi nei diritti universali, e porsi come ‘attore civile’ capace d’inclusione al proprio interno e sul piano mondiale.
7. La denuncia
Il rispetto della legalità costituzionale dalla Città all’ONU esige che si alzi forte la denuncia che, mentre si diffonde la cultura dei diritti umani negli ambienti delle organizzazioni e dei movimenti transnazionali di società civile, in quello degli enti di governo locale e regionale, nonché nelle scuole e nelle università, il comportamento di molti governi, sia all’interno dei rispettivi stati, sia nel sistema delle relazioni internazionali, dimostra di volere orientarsi in altre direzioni. All’insegna di “più sicurezza meno libertà” si registra la perniciosa tendenza a far prevalere interessi e logiche di spregiudicata Realpolitik sulle esigenze di sviluppo pacifico e democratico delle società.
La tortura è disinvoltamente praticata anche in paesi che vantano antiche tradizioni di rispetto dei diritti umani e dei principi dello stato di diritto. Come denunciato dal Parlamento europeo, non pochi tra questi paesi si sono prestati alla pratica illegale delle “renditions”.
Si moltiplicano i casi di tratta di esseri umani, in particolare di donne e bambini. La violenza nei confronti delle donne e delle bambine, prima ancora di costituire violazioni flagranti dei diritti fondamentali alla loro integrità fisica e psichica e alla salute, è un vulnus direttamente portato al cuore della dignità umana, anzi a tutti i membri della famiglia umana, a prescindere da differenze di genere.
La lotta al terrorismo nelle sue varie forme e matrici non legittima in nessun caso le violazioni flagranti del vigente Diritto internazionale.
Persiste la tendenza a indebolire le legittime istituzioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite, preferendo la via dell’unilateralismo e delle coali zioni multinazionali à la carte secondo le convenienze degli stati più potenti e aggressivi.
Denunciamo con forza la tendenza di classi governanti senza scrupoli a riappropriarsi di quel pernicioso “diritto di fare la guerra” (ius ad bellum) che la Carta delle Nazioni Unite, avvalorata dalle successive convenzioni giuridiche sui diritti umani, ha loro sottratto una volte per tutte. L’art. 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici dispone al riguardo in maniera perentoria: “1. Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve esser vietata dalla legge”.
Dai vertici di classi governanti sempre più avvitate nella spirale dell’illegalità e della Realpolitik viene propagandata la tesi secondo cui la “autotutela successiva” ad attacco armato di stato contro stato, prevista in termini rigorosamente circostanziati dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite quale eccezione alla proscrizione della guerra e al divieto dell’uso della forza da parte degli stati, andrebbe intesa come “legittima difesa preventiva”, trasformando così l’eccezione in norma generale. In base a calcoli di mera potenza si distingue arbitrariamente, per quanto riguarda l’impiego del militare nelle situazioni di crisi, tra “uso della forza” e “peace-keeping”, demandando il primo agli stati e “concedendo” il secondo alle Nazioni Unite.
Invece di far funzionare il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, si mette a repentaglio la pace nel mondo con la strategia dello scudo anti missile e alimentando la corsa al riarmo. Le tensioni tra Russia e USA, che riportano alla mente la lunga notte della guerra fredda e del bipolarismo, hanno riflessi negativi, fortemente destabilizzanti, sulla politica mondiale e, in particolare, sulla politica estera dell’Unione Europea la quale, dal canto suo, si sta dimostrando incapace di alzare la testa e svolgere un ruolo autonomo di attore civile sulla scena mondiale.
Persistono gli ostruzionismi al funzionamento dei tribunali internazionali, in particolare della Corte penale internazionale, insieme con la strumentalizzazione e l’abuso flagrante della filosofia dello “umanitario” e del principio etico della “responsabilità di proteggere” per fini che sono estranei alle missioni di pace e sicurezza umana delle Nazioni Unite e che riproducono invece lo schema delle classiche operazioni di guerra, con obiettivi di distruzione, occupazione e controllo di territori altrui.
Tra questi comportamenti, tanto palesemente illegali quanto clamorosamente inefficaci anche secondo la logica del calcolo costi-benefici, c’è l’esportazione della democrazia con la forza delle armi.
Un indicatore preoccupante di questo “richiamo della foresta” che si traduce nel rilancio della nefasta politica delle sovranità statuali, armate e confinarie è fornito, tra gli altri, dai primi due anni di attività del Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite che ha sostituito la vecchia Commissione diritti umani e dal quale, come noto, gli USA sono rimasti fuori. In una materia delicata come quella dei diritti umani, che esige indipendenza e imparzialità per l’esercizio di appropriate forme di promozione e di controllo, si registra la tendenza a rafforzare la valenza intergovernativa, quindi compromissoria, a scapito di quella sopranazionale, più trasparente e democratica, esercitata da organi formati da persone indipendenti.
Dopo la plateale corsa al seggio permanente nel Consiglio di sicurezza registrata nel 2005, ristagna la riforma delle Nazioni Unite. L’inerzia riformista degli stati copre il loro attivismo nel depotenziare le legittime istituzioni multilaterali. Nonostante le buone intenzioni espresse nel Rapporto Cardoso su “We the peoples: Civil Society, the United Nations and Global Governance” (2004), lo statuto di consultazione delle ONG presso le Nazioni Unite non registra alcun apprezzabile sviluppo in termini di potenziamento del loro ruolo di partecipazione politica e democratica al funzionamento della massima organizzazione mondiale.
Continua la distruzione dell’ambiente naturale, nonostante l’allarme lanciato da qualificate istituzioni internazionali e nazionali. Mentre i cambiamenti climatici sono già in atto, c’è un colpevole ritardo nel fare ricorso alle tecnologie di risparmio energetico e di impiego delle fonti rinnovabili.
L’economia mondiale continua a rimanere estranea ai dettami della giustizia sociale, condizionata com’è dal mito del mercato e penalizzata dai danni provocati dal neo-liberismo e dalla de-regulation. I governi sono flagrantemente inadempienti nel rispettare la tabella di marcia stabilita per i “Millennium Development Goals”, fissata dalle Nazioni Unite nel 2000.
È stata messa in circolazione la parola “flexicurity”, la quale nasconde un nuovo, insidisoso disegno di insicurezza e precariato a livello planetario dopo il costoso insuccesso dell’offensiva neo-liberista.
La piena occupazione quale risposta strutturale al precariato, non figura tra gli obiettivi prioritari della maggior parte delle forze politiche.
Nell’Unione Europea, insieme con persistenti e talora violenti rigurgiti di razzismo, xenofobia, nazionalismo e populismo, si registra lo stallo del processo di costituzionalizzazione del sistema UE. A prescindere da valutazioni di questa o quella parte del “Trattato di Lisbona”, il fatto è estremamente negativo anche perché impedisce o comunque ritarda che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE assuma forza giuridicamente vincolante. La Carta è importante anche per superare le contraddizioni che marcano l’attuale statuto di “cittadinanza dell’UE”, fondato sulle cittadinanze nazionali degli stati membri e non sui diritti fondamentali di tutti coloro che risiedono regolarmente nel territorio europeo.
L’Europa sociale, cioè quella dei diritti economici e sociali per tutti e della piena occupazione, stenta a prevalere sulla nuova, ambigua strategia della flexicurity. I “dialoghi” politici e per i diritti umani che l’UE promuove con i paesi terzi e i gruppi regionali registrano un momento di stasi. La stessa “clausola diritti umani” nei trattati con i paesi terzi non ha ancora trovato metodi appropriati di monitoraggio sulla sua implementazione da una aprte e dall’altra. Nel nuovo Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite, i paesi dell’UE che ne sono membri si trovano ingabbiati all’interno di quella che si sta rivelando essere una minoranza permanente. Si registrano incertezze ed esitazioni nel dar seguito concreto alla filosofia della human security, in particolare per le missioni di pace comportanti l’impiego del militare. Per quanto concerne il Corpo civile di pace europeo, all’ordine del giorno delle istituzioni europee a partire dal 1995, non si registrano progressi di rilievo al di là di un progetto di fattibilità, peraltro non del tutto coerente col paradigma dei diritti umani, predisposto per iniziativa della Commissione europea.
Il Partenariato euromediterraneo, avviato con la Dichiarazione di Barcellona del 1995, ristagna, condizionato com’è dalle vicende medio-orientali e per la mancanza di una congrua iniziativa politica da parte dell’UE, in particolare dei suoi paesi membri che si affacciano sul Mediterraneo.
In Italia, nonostante lo sviluppo dell’attenzione ai diritti umani che è dato registrare a livello di comuni, regioni, ecc., soprattutto sotto lo stimolo delle associazioni e dei gruppi di volontariato nonché di scuole e di università, le forze politiche dimostrano scarsa o punta ricettività a tradurre i diritti umani nella loro agenda operativa.
Non esiste ancora un partito politico che abbia fatto dei diritti umani, puntualmente, altrettanti capitoli del proprio programma. In sede governativa, si registra la persistente opposizione a creare un’adeguata “infrastruttura diritti umani”, nonostante la proposta, avanzata da un cartello di 73 organizzazioni nongovernative, di istituire la Commissione nazionale dei diritti umani, il Di fensore civico nazionale e il Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza in conformità con quanto insistentemente raccomandato dalle Nazioni Unite e dal Consiglio d’Europa.
Persistono in sede centrale, ancor più che in sede locale, forti resistenze al riconoscimento degli elementari diritti di cittadinanza agli immigrati.
8. Per ogni diritto umano, un capitolo dell’Agenda politica dalla Città all’ONU
L’Agenda politica dei diritti umani deve coerentemente ispirarsi al principio secondo cui “stato di diritto” e “stato sociale” sono le due facce di una stessa medaglia, in ossequio al sopraordinato principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani, consacrato dal vigente Diritto internazionale con riferimento implicito alla verità ontologica dell’integrità dell’essere umano, fatto di anima e di corpo, di spirito e di materia. Chi discrimina tra diritti civili e politici da un lato, e diritti economici, sociali e culturali dall’altro, non soltanto compie un’operazione arbitraria dal punto di vista logico e giuridico, ma soprattutto attenta all’integralità della persona, fatta di anima e di corpo, di spirito e di materia: il diritto all’alimentazione, il diritto al lavoro o il diritto alla salute non sono meno fondamentali del diritto alla libertà di associazione o del diritto di elettorato attivo o passivo.
Nel costruire questa Agenda politica si è supportati, in Italia, dal fatto che le norme internazionali sui diritti umani, le quali costituiscono il nucleo ‘costituzionale’ dell’ordinamento internazionale generale, si saldano con le pertinenti norme della Costituzione repubblicana, a cominciare dagli articoli 2 e 3, e con la norma “pace diritti umani” che, a partire dal 1991, è stata inclusa in migliaia di statuti di Comuni e Province, nonché in numerose leggi regionali. Siamo in presenza di un caso che rimane tuttora unico al mondo: ordinamenti giuridici sub-nazionali fanno diretto riferimento a principi e norme di Diritto internazionale.
La credibilità e la stessa legittimazione della politica si giocano sul terreno della concretezza. L’Agenda politica dei diritti umani non può esaurirsi in un astratto preambolo e in generiche indicazioni programmatiche, essa deve dire cosa concretamente comporta in termini di azioni positive e politiche pubbliche soddisfare, per esempio, il diritto all’integrità fisica e psichica, il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto alla libertà religiosa, il diritto all’assistenza in caso di necessità, il diritto all’educazione, il diritto alla pace, il diritto all’ambiente, ecc.
Nell’ordine di priorità dell’Agenda, devono figurare al primo posto, l’educazione, l’occupazione, l’assistenza ai più bisognosi, la protezione della famiglia naturale, la ricerca, le pari opportunità, l’ambiente, la cooperazione internazionale e il disarmo.
Un problema di scottante attualità è quello che riguarda l’immigrazione, in particolare la cosiddetta immigrazione “clandestina”. Le istituzioni internazionali, in specie il Consiglio d’Europa, parlano più appropriatamente di immigrazione “irregolare”. La condizione degli immigrati deve essere regolamentata partendo dall”assunto che ciascuno/a di essi è persona umana, membro della famiglia umana, ed è soggetto originario di diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti. La regolamentazione e il ‘trattamento’ degli immigrati, regolari o irregolari che siano,devono pertanto informarsi ai principi del “Diritto internazionale dei diritti umani”, non alla logica del “Diritto internazionale umanitario” (che è il Diritto di guerra, Ius in bello): l’immigrato irregolare non può essere trattato come se fosse un combattente, o un soldato irregolare o un prigioniero di guerra. L’immigrato ha il volto di persona umana e ne va identificato il nome innanzitutto per rispettare il suo diritto all’identità personale, poi per accertare se sussistono i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico e la protezione umanitaria internazionale. Il capitolo di Diritto da attivare un sede nazionale e internazionale è quello del Diritto “amministrativo”, non del Diritto ‘penale’: l’immigrato irregolare non è, quanto tale, un delinquente. Più in generale, si tratta per l’Italia di ratificare la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
L’Agenda presuppone che si attrezzi la Repubblica italiana di una adeguata “infrastruttura diritti umani”.
Occorre pertanto creare le I”stituzioni nazionali per i diritti umani”: Commissione diritti umani, Difensore civico, Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza secondo i principi raccomandati dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea.
Occorre che l’Italia sia presente, con personale qualificato, in tutte le sedi internazionali in cui si trattano i diritti umani e le questioni di human security e di human development.
È necessario che ogni anno il Parlamento dedichi una apposita seduta all’esame sullo stato dei diritti umani nel paese e su ciò che gli organismi internazionali di garanzia raccomandano in risposta ai rapporti periodici che l’Italia è tenuta a presentare in adempimento di precisi obblighi giuridici.
Tra le priorità deve anche figurare la messa in attuazione della parte C della Convenzione del Consiglio d’Europa (1992) sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, già ratificata dall’Italia nel 1994 limitatamente alle parti A e B, che prevede per gli immigrati il diritto di voto, nonché una più estesa ed organica attuazione di quanto disposto dalla Carta sociale europea. Urge che l’Italia ratifichi le convenzioni Internazionali rispettivamente sui diritti umani delle persone con disabilità, sulla protezione di ogni persona dalle sparizioni forzate, sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
L’Italia è un paese che, ancor più di altri, deve agire nel sistema internazionale come “attore civile”, consapevole delle risorse di potere costituite dal suo patrimonio fatto di autonomie locali, formazioni solidaristiche di società civile, beni artistici, monumentali e paesaggistici.
La strada dei diritti umani comporta che si riduca la spesa militare e si aumenti la spesa destinata a politiche di pace.
Il nostro Paese deve pertanto dimostrare sul campo come e quanto siano efficaci le politiche intese a prevenire i conflitti violenti attraverso la diplomazia preventiva, la diplomazia delle città (city diplomacy, ruolo internazionale degli Enti di governo locale e regionale), la cooperazione internazionale, il disarmo.
Poiché la cittadinanza dei diritti umani è cittadinanza inclusiva, l’Italia deve promuovere il dialogo interculturale per la “città inclusiva” al suo interno e nei sistemi di cooperazione di cui fa parte, a cominciare dall’Unione Europea. In questo contesto, l’Italia deve essere esempio di genuina laicità, nella consapevolezza che gli indicatori di questa sono tutti i diritti umani e le libertà fondamentali, a cominciare dalla libertà religiosa, di coscienza, di pensiero, di espressione.
Occorre preparare i giovani ad alimentare nuove classi di governanti in sede nazionale, locale e internazionale, che abbiano i diritti umani nella mente e nel cuore e che capiscano fino in fondo ciò che significa la seguente verità: se le costituzioni hanno un cuore, non possono non averlo, questo sono i diritti umani.
L’ispirazione critiana, nelle sue radici evangeliche, è di forte stimolo a operare l’inquadramento della cultura politica nel contesto dei principi universalistici, delle urgenze, dei mutamenti strutturali del nostro tempo. Il Discorso della montagna traccia l’identikit dei ‘difensori dei diritti umani’. Le Opere di misericordia appartengono al campo delle misure positive da attuare per proteggere coloro che si trovano in condizioni di particolare bisogno e vulnerabilità. La lettura sinottica del Vangelo e delle principali fonti del Diritto universale dei diritti umani – di quelle che ne fanno l’ortodossia e che ci indicano con chiarezza che i diritti umani ineriscono alla natura dell’uomo e della donna, che nei bambini e nei poveri rifulge in massimo grado la dignità umana, che la famiglia naturale è il nucleo centrale della società – incoraggia a operare con speranza e con tenacia quali ‘human rights defenders’ per una città inclusiva in un mondo inclusivo.