Corte europea e richiedenti asilo: due nuovi casi e il problema del meccanismo di riammissione (Y.P. e L.P. c. Francia, 2 settembre 2010; MSS c. Belgio e Grecia, pendente)
La Corte europea si è espressa, il 2 settembre 2010, su un caso di rigetto, da parte della Francia, di una domanda d’asilo presentata da un attivista politico bielorusso e della sua famiglia, e si appresta a pronunciarsi, attraverso la Grand Chamber, su un caso, riguardante il Belgio, di utilizzo del meccanismo di riammissione previsto dal regolamento comunitario “Dublino II”, che comporterebbe il rinvio in Grecia di un richiedente asilo afgano. Si tratta di due occasioni importanti per testare il tipo di orientamento della Corte di Strasburgo su una delle problematiche più spinose dal punto di vista dei diritti umani che hanno investito in questi anni l’Europa.
Nel caso Y.P. e L.P. c. Francia (ricorso n. 32476/06) i ricorrenti sono due coniugi fuggiti dalla Bielorussia per timore di ritorsioni dap arte del governo contro il marito, attivista politico di un movimento di opposizione al regime di Lukaschenko contro i cui membri erano state condotte a più riprese azioni di repressione e di intimidazione. Nel 2002 l’uomo aveva chiesto asilo in Germania, senza succeso. Nel 2004 la famiglia era riparata in Francia, ma le autorità avevano ritenuo di rigettare la loro domanda di asilo, in quanto non consideravano provata una persecuzione nei confronti del capofamiglia. Per alcuni anni la famiglia (la coppia ha tre figli di cui uno nato nel 2006) si è spostata in vari paesi dell’Europa settentrionale, fino a che le autorità danesi, anche in ragione della loro condizione di indigenza, li hanno riportati in Francia, dove si sono trovati in un centro di detenzione in attesa di rimpatrio. Il ricorso alla Corte europea rappresentava a questo punto l’ultima possibilità per evitare il rientro nel paese d’origine.
La Corte di Strasburgo ha ritenuto accertato il rischio di pregiudizio grave, per l’uomo e gli altri membri della famiglia, derivante dal perdurante regime dittatoriale in cui versa la Bielorussia. Il rientro in patria rappresenterebbe quindi, per i ricorrenti, violazione del diritto a non subire trattamenti crudeli, inumani o degradanti (art. 3) per mano delle autorità dello stato (che è l’unico paese europeo a non far parte del Consiglio d’Europa e a non aver aderito alla Convenzione del 1950 sui diritti umani). Le minacce che gravano sul marito (e sul figlio aggiore) sono tali da coinvolgere anche gli altri familiari. Il fatto che siano passati alcuni anni dalla prima richiesta di asilo non è motivo di riduzione del rischio di maltrattamenti. La Corte non può naturalmente attribuire ai ricorrenti lo status di rifugiati, ma la sua decisione, cha ha condannato la Francia per la mancata protezione fornita ai richiedenti asilo dopo il diniego della loro domanda, vale ad impedire la loro deportazione nel paese d’origine.
Nel caso M.S.S. c. Belgio (ricorso n. 30696/09), la Grand Chamber ha esaminato (un’udienza si è tenuta il 1° settembre 2010, la pubblicazione della decisione non è ancora stata fissata) il caso di un Afghano arrivato in Belgio nel 2008 passando attraverso Grecia e Francia, a cui, in applicazione del cosiddetto regolamento Dublino II dell’Unione Europea (Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio dell’UE del 18 febbraio 2003), le autorità belghe hanno imposto il rientro in Grecia, in quanto è alle autorità di tale paese che la sua domanda d’asilo doveva essere rivolta. Nel 2009 il ricorrente è stato effettivamente riportato in Grecia dove, dopo un periodo di detenzione in un centro per richiedenti asilo adiacente all’aeroporto di Atene, si trova tutt’ora privo di qualunque assistenza da parte delle autorità locali. Il ricorrente afferma che la procedura attivata nei suoi riguardi dal Belgio e dalla Grecia lo espone a subire violazioni sia del diritto alla vita (solo l’1% delle richieste d’asilo sono accolte dalla Grecia, e ciò rende probabile la sua deportazione in Afghanistan, dove il pericolo di essere ucciso permane elevato); sia del diritto a non subire tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (non solo al suo eventuale rientro in Afghanistan, ma anche ora, durante la sua permanenza in Grecia); nonché del diritto ad un ricorso effettivo a tutela dei propri diritti (art. 13 della Convenzione europea dei diritti umani). La Corte ha già più volte condannato la Grecia per il modo in cui tratta i richiedenti asilo (per es. in A.A. c. Grecia, ric. N. 12186/08; Tabesh c. Grecia, ric. n. 8256/07; S.D. c. Grecia, ric. n. 53541/07). Il caso è potenzialmente destabilizzante per le politiche di asilo dei paesi dell’Unione Europea, in quanto mette in questione gli automatismi del Regolamento 343/2003, e quindi porterà la Grand Chamber a pronunciarsi su un possibile contrasto tra la Convenzione europea dei diritti umani e una norma di diritto derivato dell’Unione Europea, prima ancora che l’Unione stessa abbia aderito alla Convenzione stessa (come peraltro è già avvenuto in varie circostanze, tra cui i casi Bosphorus c. Irlanda, ric. 45036/98 e Matthews c. Regno Unito, ric. 24833/94). L’importanza del caso è confermata dall’intervento sul caso di numerose parti terze interessate: i governi britannico e dei Paesi Bassi, l’AIRE Centre, Amnesty International e il Greek Helsinki Monitor tra le ONG; l’Alto Commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammerberg. Quest’ultimo è intervenuto (a favore del ricorrente) utilizzando per per la prima volta la facoltà che gli è riconosciuta dall’art. 36.3 della Convenzione, modificato dal Protocollo 14, entrato in vigore lo scorso 1° giugno 2010.