Ong e associazionismo

L’Italia non è più un posto sicuro? L’impatto del Covid-19 sull'immigrazione

Nel porto di Lampedusa vengono abbandonati gli oggetti di un'imbarcazione di migranti tunisini dispersa in mare per oltre quattro giorni. L'isola di Lampedusa, in Italia, è da tempo un punto di snodo migratorio per la sua vicinanza al Nord Africa.
© UN Photo/UNHCR/Phil Behan

L’Italia, uno dei paesi più colpiti dal Covid-19 per numero di decessi e contagi, ha dichiarato lo stato di emergenza a fine gennaio permettendo così l’adozione di misure straordinarie, principalmente restrittive per la libertà e i diritti fondamentali, in vista del contenimento del virus.

In questo contesto, lo stato italiano ha introdotto limitazioni volte all’interruzione delle attività di coordinamento delle operazioni di salvataggio e di sbarco delle persone soccorse nel Mediterraneo. Infatti, tramite il decreto interministeriale n.150 del 7 Aprile 2020, si è comunicata la chiusura dei porti fino al termine dello stato di emergenza, il 31 luglio. La decisione dell’Italia, seguita poi da Malta, oltre ad aggravare una situazione che è già drammatica, dato l’alto numero di vittime nella rotta migratoria, appare in contrasto con le norme internazionali di soccorso e salvataggio.

Per questo, si ritiene opportuno analizzare cosa cambia con l’introduzione del decreto e come organismi nazionali e internazionali per i diritti umani hanno valutato la sua conformità al diritto internazionale.

Il decreto è stato firmato dal ministro degli affari esteri, dell’interno, della salute e dei trasporti. In generale, si comunica che, a causa della situazione emergenziale del paese, “i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di luogo sicuro”. La decisione di dichiarare il territorio come tale, comportando l’impossibilità di effettuare sbarchi, viene giustificata dal fatto che “non risulta allo stato possibile assicurare la disponibilità di tali luoghi sicuri, senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19”.

A seguito di quanto descritto dal decreto quindi, il governo ritiene che un eventuale sbarco di persone, tra le quali non può escludersi la presenza di contagi, potrebbe minare la tenuta del sistema nazionale, impedendo quindi di poter garantire alle persone “l’assenza di minaccia per la propria vita, il soddisfacimento dei bisogni primari e l’accesso ai servizi fondamentali”, condizioni necessarie per definire un posto sicuro.

In contrasto con quanto sostenuto dal governo però, in una lettera indirizzata al Commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, diverse Ong operanti nel Mediterraneo condannano la chiusura dei porti. Infatti, questa sembra avvenire in funzione esclusivamente preventiva, essendo legata all’ipotesi di potenziali casi di infezione a bordo, e quindi fondata su basi generali ed astratte che rendono inaccettabile la deroga dai diritti fondamentali delle persone soccorse.

Inoltre, le misure introdotte appaiono discriminatorie, poiché indirizzate solo a “casi di soccorso effettuati da parte di unità battenti bandiera straniera che abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in mancanza del coordinamento del IMRCC Roma”. La distinzione per le navi battenti bandiera straniera, introdotta dal governo, viene citata in relazione all’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che concede a unità straniere il transito e la sosta nelle acque territoriali di uno stato, a meno che non rappresentino una minaccia o pregiudichino la sicurezza del paese. Per il governo appunto, lo sbarco sul territorio rischia di mettere a repentaglio la tenuta delle strutture nazionali, rappresentando quindi un pericolo per l’incolumità nazionale. Questa interpretazione appare però in contrasto con quella che è la stessa Convenzione all’art. 19 comma 2, che difatti non include nell’elenco delle attività considerate “offensive” lo sbarco di persone col fine di portare a termine un salvataggio.

Data la firma e la ratifica della Convenzione Internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (SAR) nel 1979, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) firmata nel 1982 e quella del 1914 per la salvaguardia della vita in mare (SOLAS), attività di soccorso, sorveglianza e salvataggio rientrano tra gli obblighi dello stato italiano, che non è invece in alcun modo legittimato ad ostacolare coloro che si adoperano in questo senso.

Oltre a ciò, il rifiuto aprioristico e indistinto di far approdare la nave, contrariamente a quanto stabilito dalla Convenzione SAR, comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, violando il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art.4 del Protocollo IV alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, se non anche l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, che prevede il principio di non respingimento. Le misure introdotte dal decreto sembrano quindi derogare, o addirittura violare, norme internazionali, rendendolo perciò illegittimo. Infatti, come evidenziato anche dal Tavolo Nazionale d’Asilo, il principio della gerarchia delle fonti non permette ad un atto amministrativo di sospendere norme internazionali.

Al momento della comunicazione del decreto, la nave Alan Kurdi dell’Ong tedesca Sea-Eye, con a bordo 146 persone soccorse, si trovava già nella zona SAR italiana. Data l’urgenza della situazione quindi, è stato necessario adottare misure alternative efficaci ma pur sempre in linea con l’emergenza sanitaria. Per questo motivo, tramite, un decreto del Capo Dipartimento della protezione civile, n. 1287 del 12 aprile, si comunica che l’Italia provvederà “all’assistenza alloggiativa e alla sorveglianza sanitaria delle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il luogo sicuro (..) Il soggetto attuatore, nel rispetto dei protocolli condivisi con il Ministero della salute, può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria”.

In effetti, dopo pochi giorni è stato effettuato il trasbordo delle persone dalla nave della Ong a un’altra, su cui potevano essere assicurate le condizioni per il periodo di quarantena. In accordo con quanto sostenuto dall’Unhcr, rischi di salute pubblica possono portare a misure che includono limiti alla circolazione per un certo periodo di tempo, ma queste devono essere necessarie, proporzionate e sottoposte a revisioni periodiche. Sebbene limitazioni di entrata nel territorio siano legittime in questa situazione, la Commissione Europea aveva comunicato che coloro in diritto di richiedere protezione internazionale dovrebbero essere esclusi da queste misure. Le restrizioni introdotte infatti, non dovrebbero precludere la possibilità di richiedere protezione internazionale, per la quale, in accordo con la Convenzione di Ginevra del 1951, è necessario lo sbarco a terra, poiché impossibile da portare a termine sulla nave.

Per questa ragione, l’applicazione di misure di quarantena in luoghi straordinari, come sostenuto anche dal Garante dei diritti delle persone detenute o private delle libertà personali, crea una situazione di limbo: “le persone migranti sono sotto la giurisdizione dello Stato Italiano ai fini delle misure sanitarie loro imposte, ma al contempo non hanno la possibilità – e per un periodo di tempo non indifferente – di esercitare i diritti che il nostro paese riconosce e tutela”.

Sebbene il decreto abbia sbloccato parzialmente la situazione, questo è avvenuto a seguito della dichiarazione dello Stato italiano sulla chiusura dei porti che tuttavia, come descritto in precedenza, si basa su criteri illegittimi. Sulla stessa linea anche Human Rights Watch sostiene che, per quanto “può essere ragionevole sottoporre coloro che arrivano ad un periodo di quarantena, tuttavia la pandemia non può giustificare divieti generalizzati di sbarco”.

In generale quindi, sebbene l’emergenza ponga la società europea in una situazione inedita ed estremamente grave, gli stati sono responsabili di attivarsi, cooperare ed assicurare un porto sicuro, in linea con il diritto marittimo internazionale. Anche il Consiglio d’Europa infatti, richiede a tutti gli stati di fornire sostegno e assistenza efficaci per fornire soluzioni rapide per evitare che gli stati costieri vengano abbandonati e soprattutto che le persone vengano lasciate annegare.

Anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che si è pronunciata sull’argomento, ribadisce che i diritti umani e il diritto internazionale dovrebbero continuare ad essere rispettati, non considerando la messa in atto di misure per controllare la pandemia un motivo per derogare da tali principi.

Per questi motivi, l’Italia dovrebbe, in linea con il diritto internazionale, continuare le attività di ricerca SAR e impegnarsi affinchè le persone soccorse possano sbarcare, attuando misure di quarantena sulla terra ferma. Non sembra infatti legittimo strumentalizzare lo stato di emergenza per ostacolare le attività di soccorso in mare operate dalle Ong, difatti bloccate nei porti, mettendo così a repentaglio la vita e diritti delle persone.

 

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