Diritti dei popoli indigeni e politiche sui cambiamenti climatici
Il recente fallimento dei leader mondiali riuniti a Copenaghen che non sono riusciti a costruire una solida infrastruttura giuridica, ancorata nel sistema delle Nazioni Unite, a supporto delle future azioni globali di fronte ai cambiamenti climatici, non nuoce soltanto all’ambiente, ma colpisce anche le persone. Nell’ambito del regime internazionale creato per affrontare il problema del clima, il peso dei diritti umani è stato a lungo ignorato, a vantaggio di considerazioni strettamente ambientalistiche o finanziarie e poco attente a un approccio umano.
L’articolo cerca di mostrare come i popoli meno rappresentati, in particolare i popoli indigeni, siano le prime vittime di questo approccio. Prive di un effettivo diritto di partecipazione nella fase di formazione delle politiche ambientali, e senza garanzie per i loro diritti nelle fasi di implementazione di tali politiche, tali popolazioni subiscono continue violazioni dei loro diritti umani, non solo come diretta conseguenza dei cambiamenti climatici, ma anche come risultato delle stesse politiche messe in campo per risolvere il problema. Il monopolio che gli Stati esercitano nel regime internazionale istituito per affrontare i cambiamenti climatici e l’egemonia degli interessi privati nella fase operativa di tale regime, si sono dimostrati fattori gravemente penalizzanti. L’apertura del regime sui cambiamenti climatici a considerazioni centrate sull’uomo, favorendo l’attiva partecipazione delle vittime dirette di tali fenomeni – compresi i popoli indigeni – e la collocazione dei diritti umani al centro dell’intero sistema, tutto ciò è ancora visto come problematico, laddove invece in tale cambiamento di approccio risiede probabilmente la chiave della soluzione.
La «umanizzazione» del regime infatti consentirebbe un’azione più compiutamente globale, idonea ad affrontare i cambiamenti climatici in una chiave che favorisca il generale progresso umano (e dei diritti umani).