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Covid-19 e l’impatto sui gruppi vulnerabili: la situazione delle carceri durante la pandemia

Autore: Beatrice Goretti, studentessa della laurea magistrale in "Human Rights and Multi-level Governance"

La pandemia di Covid-19 ha creato una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, a cui gli stati sono stati chiamati a far fronte in maniera tale da non mettere a repentaglio la democrazia, lo stato di diritto e i diritti umani, come indicato dal Consiglio d’Europa.

Questo approccio dovrebbe essere ancora più centrale in relazione a gruppi di persone appartenenti a categorie vulnerabili, come bambini, persone anziane, con disabilità, migranti, senza fissa dimora o private della libertà. In questo breve testo, ci concentreremo proprio sulle condizioni di quest’ultimo gruppo.

Nel contesto di una pandemia, come affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, coloro che si trovano all’interno degli istituti di detenzione corrono un più alto il rischio di contrarre il virus, principalmente a causa del sovraffollamento delle strutture e delle scarse misure sanitarie. Le difficili condizioni in cui i detenuti si trovano a vivere sono però responsabilità dello stato, chiamato a mettere in pratica misure tali da impedire una veloce diffusione del virus, essenziale non solo per coloro che vi si trovano all’interno ma anche per la protezione della comunità esterna.

A questo proposito, molti stati hanno introdotto misure emergenziali per le carceri che, come sottolineato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura, devono però essere introdotte su base legale, rispettando i criteri di necessità, proporzionalità e limitazione temporale. In generale, le nuove norme devono essere in linea con il rispetto dei diritti umani, non impattando quindi su diritti inderogabili come quello alla vita e il divieto di tortura, garantendo salute e sicurezza di tutte le persone, rispettandone la dignità umana.

Nello specifico, secondo quanto indicato dal Sottocomitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura, le misure adottate dagli stati devono basarsi sui principi di do not harm, non arrecare danno, e quello di equivalence of care, ovvero assicurando alla popolazione carceraria gli stessi standard sanitari disponibili sul territorio nazionale. Oltre a ciò, come sostenuto da vari organismi internazionali, devono essere garantiti i diritti fondamentali dei detenuti che riguardano, nello specifico, il diritto all’assistenza legale, il diritto all’esercizio all’aria aperta giornaliero, ad un adeguato livello di igiene, e la possibilità di mantenere contatti con l’esterno.

Inoltre, il Sottocomitato ha esortato gli stati a permettere attività di monitoraggio dei luoghi di privazione di libertà da parte di organi indipendenti, quali il Comitato per la prevenzione della tortura e i meccanismi nazionali di prevenzione, per i quali l’accesso alle strutture dovrebbe essere sempre garantito, sebbene con le dovute limitazioni del caso. La loro funzione appare in questo momento ancora più rilevante, poiché in grado di valutare se le restrizioni introdotte non solo siano efficaci ma soprattutto idonee ad assicurare il pieno rispetto dei diritti dei detenuti.

Come affermato in precedenza, una delle criticità principali del carcere è quella del sovraffollamento. Nonostante questo sia un problema al livello mondiale, con almeno 125 paesi nel mondo che ospitano più prigionieri di quelli per cui sono stati progettati, come documentato dal World Prison Brief , l’ondata di contagi che ha riguardato il territorio europeo ha fatto notare come la mancanza di spazio per assicurare il distanziamento sociale ha reso impossibile evitare la diffusione del virus all’interno delle carceri, avvenuto in maniera rilevante nel caso del Belgio (64 casi), della Germania (163 casi) e dell’Italia (374 casi).

Per queste ragioni, in linea con quanto suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per i diritti umani, se non anche dal Consiglio d’Europa, gli stati sono chiamati a migliorare le condizioni dei luoghi di detenzione, ricorrendo a misure deflattive o alternative alla detenzione, permettendo così adeguate norme di prevenzione e sanitarie. La centralità di queste disposizioni è data anche dal fatto che gran parte della popolazione carceraria tende ad avere condizioni di salute molto più critiche rispetto al mondo esterno, che aumentano così la pericolosità del virus.

Per questo quindi, alternative al carcere dovrebbero essere offerte alle persone detenute considerate più vulnerabili, come gli anziani o coloro con patologie mediche preesistenti, senza contare tutti coloro ritenuti idonei alla possibilità di scontare la pena in modo diverso dal carcere, in linea con l’ordinamento nazionale.

Il Coronavirus e le carceri italiane

L’Italia, essendo uno degli stati più colpiti dalla pandemia, ha fin dall’inizio dell’emergenza implementato una serie disposizioni volte alla salvaguardia delle persone ospitate negli istituti di detenzione, provando così a contenere la diffusione del virus al loro interno. Se in un primo momento il Dipartimento d’Amministrazione Penitenziaria aveva fornito raccomandazioni e indicazioni generali, in seguito sono invece stati suggeriti interventi ben precisi, come la sospensione delle attività trattamentali per cui era previsto l’accesso della comunità esterna, la riduzione di attività lavorative esterne ed interne e non ultimo la sostituzione dei colloqui con i familiari con modalità a distanza, tramite telefono o uso di Skype.

Sebbene il Sottocomitato delle Nazioni Unite avesse ribadito l’importanza di comunicare le nuove norme introdotte in modo trasparente , secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute in Italia, è stata proprio la mancanza di una spiegazione efficace sulla natura e il contenuto delle misure a provocare lo scoppio delle proteste nelle carceri.

Oltre ai discutibili metodi di comunicazione, per quanto gli interventi introdotti possano sembrare legittimati per proteggere la popolazione carceraria, questi sono stati fin da subito fortemente criticati poiché imposti in mancanza di dispositivi di protezione individuale e di misure sanitarie adeguate a personale e detenuti , senza contare il fatto che questi provvedimenti, non accompagnati da altrettante misure di apertura, hanno provocato un ulteriore allontanamento del carcere dalla società, vista l’interruzione dei colloqui familiari, aggravandone le condizioni di detenzione.

Difatti, come sostenuto nel XVI Rapporto di Antigone “sia le preoccupazioni rispetto al rischio di contagio data la promiscuità spaziale, sia la difficoltà nell’ottenere una percezione affidabile della reale entità del fenomeno” sono stati gli elementi che hanno portato da lì a poco allo scoppio delle rivolte. Queste, scoppiate tra l’8 e il 9 marzo in 49 istituti, hanno provocato la morte di 14 persone tra i detenuti e di 59 feriti tra i poliziotti penitenziari, senza contare gli ingenti danni provocati alle strutture.

Oltre alle misure restrittive introdotte l’8 marzo, poi divenute legge il 17 marzo con il decreto “Cura Italia”, è stato incoraggiato, in linea con le richieste degli organismi internazionali, il ricorso a misure deflattive o alternative alla detenzione, già previste dall’ordinamento italiano. Al problema del sovraffollamento, centrale per garantire misure di distanziamento sociale, si aggiunge però l’elemento dello spazio, tre metri quadri, che deve essere garantito ad ogni detenuto per non essere considerato in contrasto con l’art.3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e quindi trattamento disumano e degradante.

Il problema del sovraffollamento delle strutture italiane, che in alcuni istituti raggiunge un tasso del 200%, era già di una portata tale che nel 2013 la Corte Europea dei diritti umani aveva ordinato all’Italia di introdurre misure in grado di alleviare la situazione, considerando il sovraffollamento “risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario”. L’Italia ha quindi cercato di sopperire fin da subito al problema, riuscendo ad ottenere un parere positivo della Corte già nel 2014. Nonostante ciò, poco tempo dopo, nel 2017, la questione è tornata fuori, dati i numeri crescenti dei detenuti, per cui il Comitato per la Prevenzione della Tortura è arrivato a sostenere nel suo rapporto che “nonostante gli sforzi effettuati negli ultimi anni dallo Stato italiano, il problema del sovraffollamento persiste”. Malgrado le sollecitazioni sembra quindi che l’Italia non sia stata in grado di risolvere la questione, riaffiorata infatti durante l’emergenza coronavirus.

In questo caso però, a causa della criticità e della vulnerabilità della popolazione penitenziaria, sono stati utilizzati strumenti deflattivi che hanno permesso ai detenuti non condannati per delitti gravi di eseguire la pena con modalità alternative. Nello specifico, fino al 30 giugno, possono finire di scontare la condanna agli arresti domiciliari coloro che abbiano una pena o un residuo pena fino a 18 mesi, oltre a coloro che godevano già di un regime di semilibertà, che potranno usufruire di licenze. Oltre a questi, sono stati previsti permessi per tutti coloro affetti da gravi patologie di salute, ed esposti quindi ad un rischio molto più alto rispetto al resto della popolazione penitenziaria, categoria in cui sono rientrati anche alcuni detenuti del regime 41-bis, condannati per reati di mafia.

In effetti, tramite le disposizioni introdotte è stato possibile riconsiderare il numero dei detenuti presenti nelle carceri, che da 60.109 a fine febbraio sono state ridotti a 52.622 a fine maggio. Nonostante ciò, come sottolineano il Rapporto di Antigone e la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, dato che una capienza regolamentare era al 30 aprile di 50.438 posti, possiamo dedurre che le misure non siano state pienamente efficaci nel risolvere il problema del sovraffollamento, rendendo quindi impossibile garantire il necessario distanziamento sociale. Difatti, sebbene siano state prese precauzioni per evitare la diffusione del virus all’interno degli istituti penitenziari, il Covid-19 è riuscito diffondersi ma per fortuna in maniera contenuta, con 119 contagiati tra i detenuti e 162 tra il personale.

Data la fine della piena emergenza, con l’inizio della fase due, anche la situazione del carcere è cambiata. Tramite il decreto-legge del 10 maggio è stato possibile riprendere i colloqui in presenza a partire dal 18 dello stesso mese, sebbene in forma contingentata e su decisione dell’autorità sanitaria. Nonostante ciò, è stato ritenuto importante non abbandonare le modalità di comunicazione sperimentate durante l’emergenza, considerando quindi di continuare l’utilizzo di tecnologie che permettano modalità comunicative efficaci. Inoltre, dato il ritorno ad una sorta di normalità, è prevista la ripresa delle attività scolastiche, formative e lavorative sia all’interno che all’esterno delle carceri.

In generale quindi, sebbene siano stati mesi di cambiamenti e restrizioni nella quotidianità di ognuno di noi, quella del carcere appare una delle realtà più vulnerabili. In questi luoghi infatti, il minimo cambiamento può rivoluzionare l’intero equilibrio, come è stato possibile notare dalle rivolte scoppiate poco dopo l’introduzione delle prime misure, soprattutto poi in un clima di paura e terrore per un qualcosa di sconosciuto come il Coronavirus. Fortunatamente, sebbene non in maniera totalmente efficace, anche lo stato italiano si è impegnato a ridurre i numeri dei detenuti, provando ad assicurare misure sanitarie e di prevenzione allo stesso modo di tutti gli altri.

Aggiornato il

13/6/2020