Il contributo della società civile alla riforma dell’ONU
Che si rifletta sul futuro delle Nazioni Unite non costituisce, di per sé, una novità. La novità consiste piuttosto nel fatto che sull’ONU si riflette estesamente e puntualmente, come mai prima era avvenuto, e che a farIo sono non soltanto i governi e, più o meno autonomamente da questi, i professori universitari e gli esperti di politica internazionale, ma anche quegli attori, individuali e collettivi, che si fanno portatori dei valori e delle istanze di società civile globale: organizzazioni non-governative, gruppi di volontariato, enti regionali e locali, formazioni religiose. Il tema del futuro delle Nazioni Unite è dunque sotto l’attenzione critica e propositiva delle punte avanzate della società civile, pienamente consapevoli della drammatica alternativa che pone la sfida dell’interdipendenza mondiale: o il dilagare della conflittualità, esasperata dal mito dell’interesse nazionale e della sovranità statuale-nazionale armata, la cooperazione organizzata in via permanente in funzione della sicurezza collettiva e della garanzia sopranazionale dei diritti fondamentali delle persone e dei popoli. La società civile insomma si fa carico della responsabilità che discende dal fatto istituzionale di essere «Noi popoli delle Nazioni Unite» e ne deduce che: primo, la sovranità planetaria della famiglia umana, nell’era dell’interdipendenza globale, deve potersi esercitare direttamente nel sistema delle Nazioni Unite; secondo, gli stati membri delle Nazioni Unite sono tali non come sovrani assoluti, deputati a fare schermo all’espressione della soggettività originaria delle persone e dei popoli, ma come entità funzionali che agevolano l’esercizio della sovranità dei membri della famiglia umana appunto in sede sopranazionale.
Anche in Italia, la società civile riflette sull’ONU, anzi continua ad alimentare, con accresciuta puntualità, partecipazione e tenacia, una riflessione che, iniziata all’indomani del 1989 per ricercare le nuove dimensioni sopranazionali della sicurezza comune – la Casa comune europea e l’ONU dei popoli –, si è per così dire accelerata a partire dalla guerra del Golfo quando ci si accorse che in aIte sedi istituzionali si ricorreva ad inganni giuridico-istituzionali – una guerra feroce spacciata per «azione di polizia delle Nazioni Unite» – al fine di «legittimare» comportamenti che de jure e de facto snaturano l’identità pacificatrice delle Nazioni Unite per interessi di parte. Quegli stessi interessi che ostacolano in tutti i modi l’avvio del negoziato globale per più equi termini di scambio nei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo e tengono l’Africa come area di riserva per future massicce incursioni del mercato.
Per iniziativa di associazioni e movimenti solidaristici, la Carta delle Nazioni Unite cominciò a circolare diffusamente sul territorio nazionale e ad essere letta con attenzione crescente: il Preambolo («Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvaguardare le future generazioni dal flagello della guerra...»), gli articoli 1 e 2 (fini e principi), le disposizioni forti del Capitolo VII (i poteri coercitivi del Consiglio di sicurezza, i requisiti e le garanzie sopranazionali per l’impiego del militare, la forza militare permanente delle Nazioni Unite ai sensi dell’articolo 43 e ss.). Si giunse a scoprire l’arcano di Realpolitik contenuto nell’articolo 106, una disposizione «transitoria» tuttora impunemente in vigore la quale in sostanza dice che, in assenza della forza permanente prevista dall’art. 43, per quanto riguarda la pace e la sicurezza e quindi l’uso del militare se la vedranno non le Nazioni Unite ma quelle cinque potenze della Dichiarazione di Mosca del 1943 che, guarda caso, hanno seggio permanente e potere di veto in seno al Consiglio di sicurezza: Permanent members 5 (P5), a legibus soluti!
La mobilitazione popolare sull’ONU è stata fin dall’inizio alimentata dall’Associazione italiana per la pace, la quale lanciò nel 1992 un articolato «Appello per la democratizzazione dell’ONU» cui diedero la loro adesione numerose personalità della cultura e della politica (prima firma: Norberto Bobbio) e che tanta diffusione ha avuto nel mondo dell’associazionismo e in quello degli Enti locali. Oltre che della Carta delle Nazioni Unite, le formazioni di società civile sono divenute esperte di Dichiarazione universale dei diritti umani, delle successive Convenzioni giuridiche internazionali sui diritti umani – insomma del Diritto internazionale dei diritti umani – nonché dei Rapporti annuali sullo sviluppo umano e dei documenti delle Conferenze mondiali delle Nazioni Unite da Rio a Vienna, dal Cairo a Copenaghen a Pechino, facendo di Nazioni Unite, diritto della comunità umana, pace, sviluppo umano un quadrinomio inscindibile. È venuta così maturando e radicandosi la nuova cultura politica della «via giuridica alla pace», come strategia della nonviolenza e della legalità umanocentrica: è la cultura del pacifismo istituzionale, così lucidamente e appassionatamente propugnata dall’in dimenticabile amico, compagno e maestro Ernesto Balducci. E sulla via giuridica alla pace, il filone storico del pacifismo militante si è trovato accanto quel grosso filone di pacifismo cattolico che si riconosce nell’Evangelium Pacis. Questa confluenza di ideali e di intenti operativi non potrà che dare preziosi frutti, anzi li sta già dando.
Lungo questo tragitto di maturazione culturale e politica del pacifismo italiano è accaduto un altro evento di rilevante portata culturale, politica e costituzionale: in migliaia di nuovi statuti comunali e provinciali è stata introdotta la norma «pace diritti umani», il cui testo esemplare è nell’ articolo 1 (Principi fondamentali) dello statuto della Provincia di Perugia: «La Provincia, in conformità ai principi costituzionali e alle norme internazionali che riconoscono i diritti innati delle persone umane e sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, riconosce nella pace un diritto fondamentale delle persone e dei popoli. A tal fine promuove la cultura della pace e dei diritti umani mediante iniziative culturali, di ricerca, di educazione e di informazione che tendono a fare del territiroio provinciale una terra di pace». Sempre sulla via giuridica e nonviolenta alla pace, e in virtù sia del nuovo dato costituzionale sia del sinergismo innescato da una più stretta e continuativa collaborazione con l’Associazione per la pace e con le numerose altre formazioni solidariste di società civile, rinnovato vigore ha assunto l’attività del Coordinamento degli Enti locali per la pace.
Infine a Perugia – promotrice e ospite generosa di tante iniziative per la pace, i diritti umani e la solidarietà internazionale – si sono incontrate le punte avanzate della società civile italiana per partecipare al Forum Internazionale per la riforma e la democratizzazione dell’ONU. Ci siamo riuniti con la consapevolezza che non siamo soli a riflettere sul futuro delle Nazioni Unite, poiché siamo parte vitale del grande fiume della società civile globale, e con la responsabilità di dare un esempio forte al nostro paese e alle sue istituzioni, a cominciare dal Parlamento, perché si facciano carico di adempiere all’obbligo primario di costruire e garantire la pace e la sicurezza nella legittima sede istituzionale sopranazionale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite. In questo senso occorre ricordare che dalle nostre istituzioni sono anche partite iniziative di importanza strategica per il futuro delle Nazioni Unite, che devono venire recuperate e valorizzate all’interno di un più organico disegno politico. Mi riferisco in particolare all’avvenuta istituzione del Tribunale internazionale sui crimini di guerra e contro l’umanità nella ex Jugoslavia, decisa dal Consiglio di sicurezza nel maggio 1993 sulla base di robusti progetti presentati, distintamente, dall’Italia e dalla Francia oltre che di proposte parziali avanzate da altri paesi e dalla CSCE. La proposta italiana è corredata da interessanti documenti illustrativi che sottolineano l’importanza di una giurisdizione penale delle Nazioni Unite al duplice fine di innestare principi di «stato di diritto» nel sistema delle relazioni internazionali e di più nettamente qualificare le Nazioni Unite come autorità sopranazionale. Questo, ripeto, è un contributo di altissimo profilo dell’Italia al futuro delle Nazioni Unite. Altre iniziative italiane avanzate in sede di Assemblea Generale e che hanno il supporto delle formazioni di società civile sono quelle per l’abolizione della pena di morte e, subito, per la moratoria generalizzata delle esecuzioni capitali fino all’anno 2000.
Con il Forum internazionale che si è svolto il 20 e 21 settembre 1995, il movimento di società civile globale attivo in Italia per la pace e i diritti umani ha cercato di fare il punto sullo stato di progettazione del futuro delle Nazioni Unite ed alimentare con un suo ulteriore contributo propositivo il cantiere in atto. In sintesi, lo stato attuale dei lavori sul futuro dell’ONU può riassumersi nei seguenti dati:
1.la cantieristica progettuale è in funzione;
2.la riflessione tende ad investire a macchia d’olio tutti i settori di attività e tutti gli organi
delle Nazioni Unite: dalle operazioni di pace allo sviluppo umano, dal Consiglio di sicurezza all’Assemblea Generale;
3. vi sono coinvolti anche attori diversi da quelli statuali, sulla cui reale intenzione costruttiva non è dato dubitare;
4. in ambito ufficioso, ovvero a cavallo tra il mondo delle istituzioni governative e quello della società civile globale, sono attivi prestigiosi gruppi di riflessione che danno organicità e respiro sistemico alla riflessione propositiva: dalla Commissione sulla Governabilità Globale al Gruppo di lavoro indipendente sul futuro delle Nazioni Unite;
5. in virtù dell’impegno del mondo non-governativo e di quello degli esperti illuminati, la riforma delle Nazioni Unite è venuta assumendo i caratteri della ineludibilità e della indilazionabilità;
6. lo scenario della progettualità in corso ha sullo sfondo un duplice assunto, che con il nostro Forum ci proponiamo di ribadire: a) che la riforma delle Nazioni Unite è inscindibile dalla costruzione di un nuovo ordine internazionale più equo, solidale, pacifico e democratico; b) che l’istanza della democratizzazione delle Nazioni Unite è strettamente connessa a quella dell’ efficienza e dell’efficacia;
7. gli stati, a prescindere dalle loro reali intenzioni di partenza, si trovano a dover fare i conti con le aspirazioni e la volontà di pace, di democrazia e di giustizia distributiva delle strutture di società civile globale, le quali hanno assunto chiari caratteri di «constituency», ovvero di base proponente e legittimante per quanto riguarda la riforma delle Nazioni Unite all’interno di un nuovo ordine internazionale democratico.
Nel cantiere di lavoro sul futuro delle Nazioni Unite circolano attualmente tre approcci. Il primo è quello che assume che l’ONU sia superata e quindi inutile, al termine di una vicenda storica analoga a quella della Società delle Nazioni. È l’approccio che si autodefinisce dell’Organizzazione internazionale di terza generazione. Il secondo approccio assume che l’ONU debba continuare ad esistere facendo però soltanto ciò che può fare. ll terzo approccio assume che l’ONU debba continuare a vivere e migliorare per fare ciò che deve istituzionalmente fare.
Il primo approccio è palesemente riduttivo, poiché non tiene conto di importanti elementi quali: le assolutamente nuove circostanze storiche in cui opera l’ONU; ciò che l’ONU ha radicato nei fatti, neIle menti e nelle coscienze: dall’indipendenza politica dei popoli coloniali al diritto internazionale dei diritti umani alla cultura dello sviluppo umano; il duplice fatto che gli stati sono sì i padroni, più che i membri, dell’ONU e che ci sono altri soggetti collettivi che hanno interesse a che l’ONU viva e si sviluppi coerentemente coi valori universali, i principi e le norme giuridiche che essa ha generato.
Il secondo approccio, quello che prevale più o meno esplicitamente nel mondo governativo e diplomatico e in quello accademico – che anche in questa occasione si conferma, mediamente, più realista del re – è subdolo perché si guarda bene dal dichiarare in via preliminare l’assunto degli assunti: che ciò che l’ONU può fare non dipende dalla sua autonoma volontà ma da ciò che gli Stati ritengono e vogliono che l’ONU possa fare. Detto senza mezzi termini, è l’approccio della strumentalizzazione, dell’ «ONU Usa e getta» più ancora che dell’«ONU à la Carte».
Il terzo approccio è sicuramente il più cristallino e il più coerente dal punto di vista della deontologia della legalità umanocentrica. Assumendo che l’ONU deve fare ciò che la Carta delle Nazioni Unite prescrive che faccia, l’approccio non si esime dall’affrontare anche il problema del cosa realisticamente l’ONU può fare nel breve e nel medio periodo. Lo fa però disvelando l’assunto degli assunti cui facevo prima riferimento, cioè che l’ONU può fare non ciò che essa vuole ma ciò che gli stati le consentono di fare, e che, norme giuridiche alla mano, bisogna quindi mettere i governi di fronte alle loro responsabilità, come energicamente fa Boutros Boutros-Ghali nel famoso rapporto «Un’Agenda per la pace» e nei successivi supplementi. È questo l’approccio che ispira la riflessione in corso nel mondo della società civile globale e in taluni interstizi – peraltro non piccolissimi – sia del mondo universitario sia del mondo governativo: per quest’ultimo, sono emblematiche le posizioni di fondo di paesi quali la Nuova Zelanda, il Costa Rica, il Canada, la Repubblica Ceca ed altri. Alla luce di questo approccio, la Commissione sulla Governabilità Globale parte dalla messa in discussione della sovranità degli stati e giunge ad affidare il futuro delle Nazioni Unite alle formazioni di società civile globale. Cito alcune affermazioni contenute nel Rapporto intitolato «Il nostro villaggio globale»: «Non riteniamo che le Nazioni Unite debbano essere smantellate per aprire la via a una nuova architettura di governabilità globale ... L’ultima parola, quella che dà l’imprimatur a un nuovo ordine mondiale, deve essere intergovernativa e ad alto livello ... Una speciale responsabilità ricade sul settore non-governativo ... la società civile internazionale deve prevalere sui governi nel prendere in seria considerazione le nostre proposte. Così facendo le formazioni di società civile assicureranno che «Noi popoli delle Nazioni Unite» siamo gli strumenti del mutamento in una misura molto più grande di cinquant’anni fa». Espressioni di fiducia nel ruolo politico delle formazioni di società civile ricorrono spesso nei rapporti e nei discorsi di Boutros-Ghali. Molto significativo è il discorso che egli ha fatto in occasione della 47a Conferenza delle organizzazioni non-governative, nel settembre del 1994: Boutros-Ghali riconosce le ONG quali rappresentanti genuine e legittime di quella che egli chiama «Comunità sociale mondiale» e affida loro, in via principale, il compito strategico di democratizzare gli stati e le istituzioni internazionali a partire dall’ONU. Grande importanza politica e istituzionale rivestono quei paragrafi dell’ Agenda per la pace e dei supplementi che elucidano le operazioni di peace-building e vi coinvolgono, ampiamente e con precise funzioni, le ONG.
Questo Segretario generale, che non perde occasione per alimentare il dialogo con le ONG, è il più deciso e impegnato (e anche lungimirante, a mio giudizio) personaggio all’opera nel cantiere ufficiale della riforma delle Nazioni Unite, da quando il Consiglio di sicurezza, riunito al massimo livello di rappresentanza nel gennaio del 1992, lo ha legittimato a cimentarsi diagnosticamente, prescrittivamente e a tutto campo – sul terreno della pace e della sicurezza internazionale. L’abilità di Boutros-Ghali sta nel riportare il suo pacchetto di proposte agli obblighi giuridici espressamente sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e nel fame discendere implicazioni operative che comportano la graduale affermazione del principio di autorità sopranazionale dell’ONU, com’è del resto nello spirito della Carta, su quello di sovranità e di sovrana egualianza degli stati. Col suo Rapporto, Boutros-Ghali ha posto una ipoteca o, come si usa dire, una serie di «paletti» per l’attuale dibattito riformatore sul Consiglio di sicurezza. Guardando alla prassi delle Nazioni Unite in materia di operazioni di peace-keeping – una prassi palesemente surrogatoria rispetto a quanto disposto dal non ancora implementato articolo 43 e ss. della Carta –, il Segretario generale enuncia una più articolata tipologia di queste operazioni distinguendo tra peace-keeping, preventive diplomacy, peace-enforcing e peace-building. L’obiettivo, solo in apparenza di razionalizzazione della funzionalità del Consiglio, è duplice: il primo, il più esplicito, è di avvicinare alla fattispecie del peace-keeping, per quanto riguarda la struttura di gestione e lo spirito informatore, le operazioni di imposizione armata della pace, quelle che comportano, tra l’altro, il superamento del principio del consenso delle parti in conflitto, l’intervento in conflitti maggiori, l’uso di armi pesanti al di là degli scopi di autodifesa del personale delle Nazioni Unite; insomma, trasfondere anche negli interventi armati pesanti, che vanno al di là degli obiettivi dell’interposizione, la valenza costitutivamente politica e non-belligera delle operazioni di peace-keeping. Il secondo obiettivo, meno esplicito ma di grande intelligenza e lungimiranza, è quello inteso ad ottenere la messa a disposizione da parte degli stati di contingenti militari di rapido impiego (stand-by units), da utilizzare su richiesta e sotto l’autorità del Consiglio di sicurezza e sotto il comando del Segretario generale. Le relative operazioni, almeno in una prima fase, devono intendersi quali misure provvisorie adottate ai sensi dell’articolo 40 della Carta. È questa, però, l’anticamera o il preludio alla implementazione di quanto disposto dall’articolo 43 per la costituzione di una forza militare permanente delle Nazioni Unite. Quando gli stati si decideranno – e questo non potrà avvenire che sotto pressione popolare – a stipulare i previsti accordi speciali con il Consiglio di sicurezza, si troveranno a fare i conti col «precedente» della prassi dei contingenti militari stand-by impiegati sotto il comando sopranazionale del Segretario generale nel rispetto di principi politici, non di principi belligeni: come dire, nell’ottica dell’imparziale ristabilimento dell’ordine violato, nel costante rispetto della legge internazionale, e non della distruzione del «nemico» (governo, territorio, popolazione). Insomma, il Segretario generale sta aprendo la via istituzionale per la conversione delle operazioni militari delle Nazioni Unite da operazioni belliche in operazioni di polizia internazionale. Come ho prima accennato, il Segretario generale chiama in gioco anche le ONG. E queste già rispondono all’appello, sia cimentandosi in corsi di formazione all’esercizio di ruoli di peace-building – per i quali Boutros-Ghali specificamente le interpella – sia intensificando la riflessione e la proposta sul tema della «polizia internazionale». Le ONG fiutano il nuovo e cercano di chiarire, concetti e percorsi d’azione, aprofittando anche del vecchio vizio delle diplomazie statuali di speculare sulle ambiguità e le incertezze del passaggio dal vecchio al nuovo.
La strategia funzionalista di alto profilo di Boutros-Ghali – è un «passo dopo passo» piuttosto veloce ... – trova ampio riscontro in quelle parti dei Rapporti della Commissione sulla Governabilità Globale e del Gruppo di lavoro Indipendente dell’Università di Yale che sono dedicati alle operazioni di pace delle Nazioni Unite comportanti l’impiego del militare.
Mi sono soffermato sul «riformatore» Boutros Boutros-Ghali sia perché dialoga con le ONG, sia perché attira l’attenzione sulla necessità di dismettere il pericoloso articolo 106, sia perché è fatto oggetto di attacchi a ripetizione da parte della superpotenza e di chi ha interesse a tenere in funzione spaventose macchine di guerra piuttosto che impegnarsi, con molto minor costo umano e finanziario, nella costruzione della pace positiva. La vicenda nella ex Jugoslavia, come prima nel Golfo e poi in Somalia, insegna tristemente che quando si strumentalizza l’ONU le prospettive di pace reale si allontanano o rimangono molto, molto precarie.
Non c’è bisogno dunque di sottolineare che il Coordinamento per il 50° anniversario delle Nazioni Unite condivide gli assunti del terzo degli approcci che ho prima evocato. Come suo specifico compito nel cantiere della progettualità sulle Nazioni Unite, il Coordinamento intende impegnarsi in quattro piste di riflessione: la messa in opera di un sistema di sicurezza autenticamente sopranazionale, l’adozione di politiche per tradurre i principi e gli obiettivi della strategia dello sviluppo umano, il potenziamento degli organi e delle procedure di promozione e protezione sopranazionale dei diritti umani, la democratizzazione dell’ONU. Per favorire la riflessione e il dibattito sono stati preparati quattro documenti di lavoro a mo’ di progetti di risoluzione, con una parte dedicata ai preamboli e ai richiami normativi e una parte contenente il «dispositivo», cioè la lista (evidentemente aperta) delle cose da fare.
La Commissione sulla Governabilità Globale invita le formazioni di società civile a preme re sui governi e il Coordinamento per il 50° anniversario dell’ONU risponde che la pressione deve essere esercitata, contemporaneamente e sinergicamente, su due livelli: dentro ciascuno stato e dentro il sistema delle Nazioni Unite ove si trovano, appunto, tutti gli stati.