Le Nazioni Unite e la società civile globale
Le organizzazioni non-governative, ONG – o organizzazioni di società civile, OSC, come sempre più spesso vengono chiamate le associazioni senza scopo di lucro che operano a fini di promozione umana dalla «città all’ONU» –, sono oggi presenti in tutti i campi della vita di relazione interazionale con una vivacità progettuale e una capacità di aggregare la domanda politica di base e di mobilitare l’opinione pubblica che confermano, in maniera inequivocabile, la rilevanza politica, oltre che sociale, di questi attori non statali nel sistema delle relazioni internazionali.
È interessante far notare che lo sviluppo politico, culturale e organizzativo che ha segnato la crescita politica dell’associazionismo negli ultimi decenni e gli ha consentito di pensare e agire in maniera autonoma anche nel sistema delle relazioni interazionali – a livello locale e nazionale questo avviene già da tempo –, è sottolineata da un sempre più esplicito riconosci mento formale e sostanziale, giuridico e politico da parte delle più importanti organizzazioni intergovernative. La spiegazione sta nel fatto che queste ultime, pur avendo una matrice governativa, condividono con le ONG, nell’essenza, il medesimo paradigma di valori umani universali. Basta leggere in proposito il Preambolo della Carta delle Nazioni Unite, la Costituzione dell’UNESCO, quelle dell’OMS e dell’OIL, i documenti sulla dimensione umana della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), lo statuto dell’Organizzazione degli Stati Americani e quello del Consiglio d’Europa.
Questa «alleanza valoriale» non poteva non tradursi in una «alleanza pratica». Non c’è quindi da meravigliarsi se le ONG figurano oggi espressamente, insieme agli stati e alle organizzazioni intergovernative, nelle risoluzioni dei principali organi delle Nazioni Unite (dal Consiglio di sicurezza alla Commissione dei diritti umani), dell’Unione Europea (dal Consiglio dei Ministri al Parlamento europeo), della OSCE (dalla riunione dei capi di stato e di governo all’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani), del Consiglio d’Europa (dal Comitato dei ministri all’Assemblea parlamentare), e così via, quali destinatarie di ruoli di pubblica utilità internazionale.
L’ONU ha contribuito fin dall’origine in maniera decisiva all’affermazione degli attori non statali sulla scena internazionale in quanto agenti di partecipazione politica popolare e quindi di legittimazione sostanziale. Non sarà inutile ricordare che a San Francisco, nel 1945, insieme ai 50 stati c’erano anche 42 organizzazioni non-governative le quali hanno partecipato, pur se in veste consultiva, alla stesura della Carta delle Nazioni Unite. Il loro contributo, certamente non paragonabile a quello dei governi, ha comunque avuto modo di influire sul contenuto del Preambolo, degli articoli 1 e 2, relativi ai fini e ai principi dell’Organizzazione, e dell’articolo 71, che prevede espressamente la consultazione delle ONG nei settori di competenza dell’ONU.
L’art. 71 ha certamente aperto la porta ufficiale della politica internazionale alle ONG attraverso la pratica del cosiddetto status consultivo, pratica seguita dalle Agenzie specializza te, dal Consiglio d’Europa, e da altre istituzioni inter-governative, ultima la OSCE.
Ritengo però che ciò che ha dato rilievo politico al ruolo delle ONG discende primariamente dal fatto che queste fanno puntuale, vorrei dire martellante riferimento ai grandi valori umani universali e ai relativi principi giuridici contenuti nella Carta delle Nazioni Unite e ripresi dagli statuti delle organizzazioni intergovernative prima richiamate. Stiamo parlando di valori costituzionali che, per il fatto di essere estesamente evocati in ogni parte del mondo dalle organizzazioni di società civile e anche da non pochi stati, si propongono quale base sicura di un «patto sociale planetario» in via di rapida stipulazione.
Oggi, la presenza ufficiale delle ONG all’ONU è anche numericamente rilevante; sono 918, di cui 42 della Categoria I, 376 della Categoria II, 560 della Categoria «Lista». Ricordo che nel 1948 le ONG che godevano dello status consultivo erano 41, così suddivise: 7 della Categoria I, 32 della Categoria II, 2 della categoria «Lista».
Lo status consultivo è ora in fase di revisione. Il Consiglio Economico e Sociale, con Risoluzione 1993/80 ha creato un «Open-Ended Working Group» sulla revisione degli accordi per la consultazione con le organizzazioni non-governative, al quale partecipano oltre ai rappresentanti degli stati, anche il personale esperto delle ONG con status consultivo all’ECOSOC, alle Agenzie specializzate e alla Commissione sullo sviluppo sostenibile, nonché i rappresentanti delle ONG che sono state accreditate alle conferenze mondiali e delle ONG che ne facciano richiesta al Segretariato.
Il Gruppo di lavoro ha il compito, in particolare, di aggiornare la Risoluzione 1296 (XLIV) del 1968, sistematizzare la partecipazione delle ONG alle conferenze mondiali, rivedere le funzioni del Comitato dell’ECOSOC per le ONG e dell’Unità del Segretariato per le ONG. L’obiettivo è quello non di contenerne le ricadute positive che esso ha in ordine alla democratizzazione delle Nazioni Unite, ma di trasformarlo in più avanzate forme di partecipa zione più vicine alla co-decisione che alla mera consultazione.
Passerò ora in veloce rassegna alcuni documenti che evidenziano la crescita di ruolo politico delle ONG identificate come attori di pubblica utilità internazionale.
Significative per la nostra analisi sono le risoluzioni con cui l’Assemblea Generale convoca le Conferenze mondiali delle Nazioni Unite e autorizza la partecipazione delle ONG. In queste risoluzioni, l’Assemblea Generale distingue le ONG in due categorie: quelle con status consultivo all’ECOSOC e quelle che, benché prive di questo status, sono comunque assunte idonee a dare un contributo specifico sull’argomento oggetto della Conferenza. Va precisato che, alla Conferenza contro il razzismo e la discriminazione razziale, a quella sullla scienza e la tecnologia per lo sviluppo e a quella sulle donne, l’Assemblea Generale ha autorizzato la partecipazione soltanto delle ONG con status consultivo, mentre per tutte le altre Conferenze sopra citate, l’Assemblea ha esteso l’autorizzazione anche a ONG ritenute «sostanzialmente» idonee. La tendenza è quella di dare la possibilità al maggior numero possibile di organizzazioni di società civile locali, nazionali e internazionali di partecipare alle Conferenze mondiali. È così accaduto che alla Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna del 1993, 248 siano state le ONG con status consultivo e ben 593 le ONG senza status consultivo.
Una delle questioni principali all’ordine del giorno del Gruppo di lavoro dell’ECOSOC sulla riforma dello status consultivo è proprio quella relativa alla definizione di regole precise, valide per tutte le Conferenze, circa la partecipazione delle ONG. Il problema è importante perché attiene allo sviluppo della democrazia internazionale. Per le ONG, la conferenza mondiale costituisce un appuntamento strategico sia per elaborare una propria, autonoma strategia di intervento nella materia oggetto della conferenza sia per influire sui programmi delle organizzazioni internazionali governative. Durante le conferenze mondiali, le ONG fanno diplomazia popolare intensiva: interagiscono direttamente con i rappresentanti di tutti gli stati del mondo, con i funzionari internazionali, oltre che, naturalmente, con i rappresentanti di altre organizzazioni di società civile; presentano documenti di lavoro e progetti di risoluzione; laddove possibile, prendono la parola davanti ai rappresentanti degli stati anche nelle sedute plenarie; incontrano le singole delegazioni nazionali; tengono sotto stretta osservazione il Comitato intergovernativo incaricato di elaborare il documento finale della Conferenza. Insomma, in queste occasioni le ONG incalzano gli stati dal di fuori e dal di dentro delle strutture di diplomazia congressuale gestite dagli stati.
Boutros Boutros-Ghali nel Rapporto «Un’Agenda per la pace», preparato su richiesta del Consiglio di sicurezza nel 1992, delinea, alla luce dei fini e dei principi enunciati nella Carta di San Francisco, un organico percorso evolutivo del sistema di sicurezza delle Nazioni Unite idoneo ad assicurare la pace internazionale nel dopo guerra fredda. Questo percorso viene articolato in quattro momenti: la diplomazia preventiva, la pacificazione, il mantenimento della pace e la costruzione della pace dopo un conflitto.
Il Rapporto del Segretario generale assume un rilievo ai fini della nostra analisi in quanto assegna ruoli chiaramente politici ad attori non statali, le ONG appunto, in una materia che fino a ieri era di competenza esclusiva degli stati. Nel capitolo dedicato alla «diplomazia preventiva», il Segretario generale sottolinea la necessità di mettere le Nazioni Unite nelle condizioni di poter intervenire sul terreno con proprio personale militare, di polizia e civile prima dello scoppio del conflitto, al fine di alleviare le sofferenze delle popolazioni, ridurre la violenza, garantire l’assistenza umanitaria, favorire gli sforzi di conciliazione tra le parti. In taluni casi, afferma il Segretario generale, «le Nazioni Unite possono dover contare su capacità specializzate e risorse di varie parti del sistema delle Nazioni Unite; tali operazioni possono talvolta richiedere la partecipazione di organizzazioni non-governative».
È interessante notare come il coinvolgimento delle ONG sia direttamente collegato alla esigenza delle Nazioni Unite di esercitare sul campo «capacità specializzate». Boutros-Ghali mette qui in evidenza sia il ruolo che le ONG in quanto tali, cioè in quanto soggetti costitutivamente irenici, possono avere per la prevenzione dei conflitti sia la loro specifica professionalità nel realizzare interventi di assistenza umanitaria. È facile ipotizzare che il grado di coinvolgimento «politico» delle ONG nelle operazioni di diplomazia preventiva delle Nazioni Unite sarà tanto più elevato quanto più specialistica sarà la competenza del personale non-governativo impegnato sul terreno. Dunque, l’ONU guarda oggi alle ONG non come a portatrici d’acqua, ma con la consapevolezza che le risorse di esperienza, competenza, umanità, coraggio e imparzialità di cui le ONG dimostrano di possedere, sono indispensabili per la riuscita dei processi di costruzione della pace.
Nel capitolo sul «mantenimento della pace», relativo alle operazioni delle Nazioni Unite condotte con l’impiego dei Caschi Blu, Boutros-Ghali intravede un altro ambito nel quale il ruolo dei soggetti non statali è destinato a crescere. Egli afferma infatti: «In modo crescente, il mantenimento della pace richiede che i funzionari politici, i supervisori dei diritti umani, i funzionari elettorali, gli specialisti in materia di rifugiati e aiuti umanitari nonché le forze di polizia giochino un ruolo centrale al pari dei militari». Il senso del discorso è che militari e civili devono essere egualmente utilizzati nelle aree di crisi se si vogliono creare tutte le condizioni necessarie per il raggiungimento della pace. Mettendo in discussione il ruolo centrale degli eserciti nella vita di relazione internazionale, il Segretario generale delle Nazioni Unite aggiunge un altro importante tassello al suo progetto di nuovo ordine mondiale. È evidente che, all’interno di una strategia finalizzata a contenere il ruolo dell’esercito e ad ampliare quello dei soggetti non statali, o comunque non militari, nella soluzione delle controversie internazionali, viene meno anche la centralità dello stato nel sistema della politica internazionale.
Il Segretario generale non si limita a prescrivere una eguale presenza sul campo di personale militare e civile, governativo e non-governativo, ma solleva, opportunamente, il problema della formazione di tale personale – un problema strutturale – e chiede aiuto alle ONG: «lo raccomando che siano riveduti e migliorati gli accordi per l’addestramento del personale per il mantenimento della pace – civile, di polizia o militare – utilizzando le varie potenzialità dei governi degli stati membri, delle organizzazioni non-governative e delle strutture del Segretariato».
La sfida «pedagogica» per le ONG è altissima: è quella di introdurre la cultura e la professionalità della «pace positiva» in percorsi formativi tradizionalmente condizionati dalla cultura e dalla professionalità della «pace negativa». Si tratta di un’azione che le ONG hanno peraltro già intrapreso essendo direttamente coinvolte nel reclutamento e nella formazione del personale di monitoraggio delle Nazioni Unite.
Adesso, si tratta per le ONG di fare rendere questa nuova funzione formativa, di alto profilo politico, che viene loro assegnata direttamente dal Segretario generale delle Nazioni Unite. Tenuto conto del fatto che l’uso del militare per operazioni delle Nazioni Unite di mantenimento della pace è in continua crescita, le ONG devono raccogliere la sfida «pedagogica» cui ho prima fatto cenno se vogliono riconvertire la cultura belligena del militare a più civili e legittime azioni di polizia internazionale. C’è da precisare che l’associazionismo ha maturato, per così dire sul campo, la fiducia che il Segretario generale ripone in esso: si pensi alla infaticabile azione per lo sviluppo nelle zone più dimenticate dei paesi ad economia povera e a gesti dimostrativi, talora clamorosi, come quelli di interposizione nonviolenta nei conflitti armati, nonché di diplomazia popolare coronata dal successo.
Infine, nel capitolo conclusivo dell’Agenda per la pace, è contenuto un altro appello alle ONG e, più in generale, alle strutture della società civile: «Proprio perché è vitale che ciascuno degli organi delle Nazioni Unite impieghi le sue capacità nel modo equilibrato e armonioso previsto nello Statuto, la pace, nel suo significato più ampio, non può essere raggiunta solamente dal sistema delle Nazioni Unite o dai governi. Le organizzazioni non-governative, le istituzioni accademiche, i parlamentari, le imprese e le comunità professionali, i mezzi di comunicazione e il pubblico in generale devono tutti essere coinvolti».
li Rapporto «Un’Agenda per lo sviluppo», presentato dal Segretario generale alla 48a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 6 maggio 1994, si può considerare come la continuazione naturale di ”Un’Agenda per la pace”. L’affenuazione contenuta al parag. 3 è chiara al riguardo: «Lo sviluppo è un diritto umano fondamentale. Lo sviluppo è la base più sicura della pace». Anche in questo Rapporto, egli fa più volte riferimento alle ONG, e indica ciò che esse possono fare per contribuire, insieme con gli stati, l’ONU e le altre organizzazioni internazionali, all’affermazione dei principi di giustizia economica e sociale e di solidarietà internazionale.
Particolarmente significative sono le affermazioni riguardanti il ruolo che le ONG svolgono a livello locale e nazionale per promuovere lo sviluppo umano sostenibile: «Una società civile energetica è indispensabile per creare uno sviluppo sociale prospero e duraturo. Lo sviluppo sociale, per essere sostenibile, deve provenire dalla società stessa. (...) Le ONG con base locale, in particolare, possono fungere da intermediari e dare alla popolazione una voce (...). Coloro che fanno politica dovrebbero considerare tali organizzazioni non come rivali per il governo, ma come partners. In paesi dove la società civile è debole, il rafforzamento della stessa dovrebbe essere lo scopo più importante delle istituzioni pubbliche» (parag. 107).
Boutros-Ghali traccia qui il profilo operativo delle ONG sulla base di un triplice ordine di prescrizioni: a) per realizzare uno sviluppo umano, le ONG devono partecipare direttamente alle politiche e ai processi di sviluppo; b) le ONG locali devono svolgere una funzione di «ponte» tra la popolazione e le istituzioni dello stato, preoccupandosi di aggregare la domanda politica di base; c) le ONG devono essere considerate come soggetti che, insieme alle istituzioni pubbliche locali e nazionali, perseguono la realizzazione del fine ultimo di ogni stato e cioè soddisfare i bisogni essenziali-diritti umani delle persone e delle comunità umane.
Il Segretario generale passa quindi ad elogiare la capacità d’azione delle organizzazioni non-governative sia nell’assistenza umanitaria sia nella cooperazione internazionale per lo sviluppo: «Le ONG intraprendono progetti valutati per un valore di oltre 7 miliardi di dollari. Impegnate da lungo tempo nella ricerca della pace, le ONG sono spesso apparse sulla scena dei conflitti nella fase iniziale, contribuendo in maniera decisa all’immediato soccorso delle popolazioni colpite e gettando le fondamenta per la ricostruzione di società dilaniate dalle guerre. Con strutture flessibili, la capacità di mobilitare fondi privati e personale altamente motivato, le ONG possiedo no un vasto potenziale per la causa dello sviluppo. Durante lo scorso decennio, la crescita delle ONG in numero ed influenza è stata fenomenale. Esse stanno creando nuove reti mondiali e stanno dimostrando di essere una componente indispensabile per le grandi conferenze internazionali di questo decennio. È giunto il momento di portare le attività delle ONG e delle Nazioni Unite in una relazione di consultazione e collaborazione sempre più produttiva» (parag. 147).
In questo paragrafo, Boutros-Ghali mette in evidenza le caratteristiche principali delle ONG che operano nei settori della cooperazione allo sviluppo e degli aiuti di emergenza: rapidità di intervento, strutture flessibili e democratiche, capacità di mobilitare in tempi brevissimi importanti risorse finanziarie e personale eticamente motivato e competente, capacità di networking su scala planetaria.
Tra le organizzazioni non-governative e il Consiglio di sicurezza, non c’è mai stato un rapporto diretto, come avviene, per esempio, fin dall’inizio, con il Consiglio Economico e Sociale e con il Segretariato e, più di recente, anche con l’Assemblea Generale. li Consiglio di sicurezza, santuario dell’interstatalismo, è sempre stato inaccessibile alle ONG in quanto il suo fine principale, cioè il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, appartiene, per definizione, alla sfera della «high politics», riservata alla diplomazia dei cinque membri permanenti. È utile ricordare che fino al 1989 il Consiglio di sicurezza non è quasi mai riuscito a svolgere le funzioni per le quali è stato creato: la sua possibilità di agire veniva bloccata dal cosiddetto potere di veto dei cinque membri permanenti; dall’inizio della sua attività al 31 maggio 1990 i veti sono stati 279.
Il problema della democratizzazione del Consiglio di sicurezza e del controllo di legittimità dei suoi atti è divenuto oggi uno dei punti principali oggetto di riflessione non soltanto dei gruppi di lavoro sulla riforma delle Nazioni Unite creati dall’ Assemblea Generale ma anche delle organizzazioni della società civile globale. Di recente, il Consiglio di sicurezza si è accorto delle ONG. Questo si spiega alla luce del crescente coinvolgimento degli attori non statali nelle aree di crisi internazionale, con funzioni di assistenza umanitaria, monitoraggio dei diritti umani, promozione della fiducia reciproca e, in taluni casi (guerra del Golfo e conflitto in Bosnia), anche di interposizione nonviolenta tra le parti in conflitto.
L’inizio del dialogo delle ONG con il Consiglio di sicurezza viene fatto risalire al marzo del 1992, quando l’Ambasciatore del Venezuela Diego Arria, durante la crisi nella ex Jugoslavia, è stato l’unico membro del Consiglio ad incontrare un sacerdote bosniaco che avevo chiesto “udienza” allo stesso Consiglio. L’Ambasciatore fu così colpito dal racconto del sacerdote che decise di invitare tutti i membri del Consiglio di sicurezza nella Sala dei Delegati per un caffè insieme con il sacerdote. La riunione ebbe un grande successo e così è nata la “Arria Formula”, un meccanismo informale di consultazione delle ONG sulle questioni della pace e della sicurezza internazionale.
A mo’ di esempio, prenderò in considerazione la Risoluzione con cui il Consiglio di sicurezza si rivolge direttamente alle ONG per conseguire l’obiettivo inteso ad assicurare alla giustizia coloro che hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È la Risoluzione 827 del 25 maggio 1993 con cui viene approvato lo statuto del Tribunale internazionale chiamato a giudicare le persone presunte responsabili di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità commessi nei territori della ex Jugoslavia a partire dallo gennaio 1991. AI paragrafo 5 della Risoluzione il Consiglio di sicurezza «sollecita gli stati e le organizzazioni governative e non-governative ad apportare al Tribunale internazionale contributi sotto forma di risorse finanziarie, di equipaggiamenti e di servizi, compresa l’offerta di personale specializzato».
Un esplicito richiamo alle ONG figura anche nello Statuto del Tribunale internazionale allegato alla Risoluzione 827 e preparato dal Segretario generale sulla base di tre progetti: quello del governo italiano, quello del governo francese e quello presentato dalla Svezia a nome della OSCE. All’art. 18 si legge: «Il Procuratore inizierà le indagini d’ufficio o sulla base di informazioni ottenute da qualunque fonte, in particolare da governi, organi delle Nazioni Unite, organizzazioni intergovernative e non-governative».
Per le ONG si tratta di un riconoscimento storico che allarga il loro campo d’azione e accresce la loro responsabilità in una materia, quella della giustizia penale internazionale, che rappresenta una novità assoluta anche per gli stati. Le organizzazioni della società civile impegnate in azioni di monitoraggio dei diritti umani nella ex Jugoslavia, come Amnesty International, Commissione internazionale dei giuristi e Human Rights Watch, hanno già presentato rapporti dettagliati al Procuratore del Tribunale.
Il riconoscimento più recente, di altissimo profilo, è quello contenuto nell’Accordo di Pace sulla ex Jugoslavia stipulato a Dayton il 20 novembre 1995 e firmato a Parigi il 15 dicembre 1995. L’Accordo si compone di un Accordo quadro generale e di 13 accordi specifici (allegati all’Accordo quadro) relativi agli aspetti militari e di polizia, ai confini, alle elezioni, ai diritti umani, ai rifugiati e profughi, alla nuova Costituzione per la Bosnia e Erzegovina, alla conservazione dei monumenti nazionali, alla creazione di corporazioni pubbliche, agli aspetti civili della ricostruzione. I principi che informano l’Accordo di pace sono quelli enunciati nella Carta delle Nazioni Unite, nell’Atto Finale di Helsinki e in altri documenti della OSCE, nonché nelle convenzioni giuridiche internazionali sui diritti umani.
Nell’Accordo, le ONG sono considerate attori rilevanti per la costruzione della pace al pari delle Agenzie specializzate delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni intergovernative. Il coinvolgimento ufficiale delle ONG nell’attuazione dell’Accordo si estende a tutti i settori operativi, ad eccezione di quelli relativi agli aspetti strettamente militari. Alle ONG è chiesto espressamente di fornire collaborazione e assistenza ai vari organi creati in applicazione dell’Accordo, in particolare alla Commissione elettorale provvisoria, alla Commissione sui diritti umani, allo Ombudsman sui diritti umani e alla Corte sui diritti umani, alla Commissione sui rifugiati e i profughi, alla Commissione sulle società pubbliche della Bosnia e Erzegovina, all’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite che ha il compito, tra l’altro, di coordinare tutte le attività delle organizzazioni e delle agenzie civili operanti in Bosnia e Erzegovina, nonché alla Commissione civile mista presieduta dallo stesso Alto Rappresentante, al Commissario della Forza di polizia internazionale delle Nazioni Unite.
Si può senz’altro affermare che i negoziatori di Dayton hanno raccolto quanto più volte suggerito dal Segretario generale delle Nazioni Unite nei Rapporti «Un’Agenda per la pace» e «Un’Agenda per lo sviluppo» circa un più strutturale coinvolgimento delle ONG nel peace-building. Le ONG, dunque, sono chiamate a dare, per la prima volta per espressa disposizione di un accordo di pace, un contributo organico alla effettività del diritto internazionale dei diritti umani.
In conclusione si può affermare che il rapporto che si è venuto a sviluppare tra ONG e Nazioni Unite è un rapporto sinergico, destinato a pesare fortemente sul futuro del nostro sistema internazionale.