La popolazione vittima della guerra in Colombia, una delle guerre civili più lunghe della storia contemporanea, scappa e cerca rifugio in Ecuador da circa 40 anni. A nord dell’Ecuador molto vicino al confine con la Colombia, nella città di Ibarra, nel 2017 ho avuto l’opportunità di partecipare come volontaria del primo gruppo di Corpi Civili di Pace italiani e accompagnare queste persone per un anno di servizio.
Fondamentale è stato per me avere accanto il mio compagno di viaggio, Giovanni, sia per i rapporti con la popolazione beneficiaria sia per un motivo di equilibrio all’interno del team: quando uno dei due stava per crollare, ecco lì pronto/a l’altro/a sostenerlo ancora di più. Possiamo far finta che non sia così, ma qui la dimensione di genere conta molto, sia che si tratti di una vittima, che di una persona che la sta accompagnando. Le colombiane che migravano in Ecuador erano etichettate subito come prostitute, gli uomini come narcotrafficanti, i bambini come ladri.
Camminare al loro fianco e ascoltare senza fretta e giudizio chi non era ascoltato da nessuno, né dalle istituzioni da cui fuggiva, né da quelle presso cui cercava rifugio, né dalla popolazione locale reticente all’accoglienza, è stato il nostro principale compito. Contribuivamo a reinventare una vita che nella maggior parte dei casi andava riscritta da capo. Per una donna raccontare una violenza subita o una storia violenta, ad occhi bassi e sottovoce, riesce meglio quando si ha di fronte un’altra donna. Le donne vittime di guerra, e tante tra quelle che si sono aperte a me e alle quali ho potuto offrire un ascolto attivo, sono persone sulle quali si produce una molteplice violenza: psicologica (causata della persecuzione), fisica (spesso nella forma di violenza sessuale), quella della solitudine, nella quale si ricade nella ricerca di una nuova vita (nella ricerca disperata di offrire cibo e futuro ai propri figli). Nel contesto del conflitto gli uomini prendono spesso parte attiva ai combattimenti in gruppi guerriglieri o nell’esercito, lasciando la famiglia per cercare fortuna e spesso lasciando vedove le loro mogli.
Entrare nella vita ingarbugliata e distrutta di queste persone è come camminare in punta di piedi su un terreno pieno di vetri rotti. Bisogna avere cura, tempo, empatia, forza, coraggio, sensibilità e anche creatività: tutto ciò che chi è chiamato ad intervenire in aree di conflitto non sempre ha modo, né voglia, né capacità di offrire. E per questo che è importante il ruolo dei civili. Uomini e donne, persone che offrendo se stesse con le loro capacità specifiche di uomini e donne camminano fianco a fianco, a volte compiendo piccoli miracoli, come strappare un sorriso a chi ha perso tutto e tutti o alleggerire il peso che queste persone portano sulle loro spalle.