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22/2/2005 (Archivio storico)

Steel e Morris c. Regno Unito: la Corte europea dei diritti umani sul caso Mc Libel


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Martedì 15 febbraio la quarta sezione della Corte europea dei diritti umani ha emesso la sentenza di merito nel caso Steel e Morris c. Regno Unito. La sentenza ha riconosciuto la violazione degli articoli 6 (1) (diritto a un equo processo) e 10 (libertà di espressione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Ai sensi dell’art.41 della Convenzione, la Corte ha accordato un risarcimento di 20000 euro alla prima ricorrente e di 15000 euro al secondo per danno morale.

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Si tratta di una sentenza molto importante dal momento che riguarda una vicenda che ha occupato ampio spazio nelle cronache, specie nel Regno Unito. Al termine del più lungo processo degli annali giudiziari inglesi, Helen Steel e Davis Morris avevano ricevuto l'ordine di versare danni sostanziali alla compagnia di ristorazione McDonald's, per aver pubblicato nel 1986 una brochure dal titolo "Cosa non va da McDonald's?". Membri dell’associazione “London Greenpeace”, i due ricorrenti erano stati accusati nel 1990 di diffamazione dalla multinazionale, che esigeva un risarcimento di 100.000 sterline. Nelle sentenze del 1997 e del 1999, la giustizia britannica accordava a Mc Donalds’ un risarcimento di 60.000 sterline (ridotto a 40.000 in appello), ma al contempo riconosceva la veridicità di molte accuse contenute nella brochure in particolare quelle riguardanti lo sfruttamento pubblicitario dei bambini, la falsa informazione sui rischi per la salute legati a quel particolare tipo di alimentazione, la crudeltà nei confronti degli animali, l’attività antisindacale e i bassi salari.

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Steel e Morris depositavano quindi nel 2000 un ricorso alla Corte europea dei diritti umani, nel quale tra l’altro lamentavano la violazione nei loro confronti degli articoli 6 e 10 della Convenzione.

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L’elemento certamente più interessante della sentenza riguarda il riconoscimento da parte della Corte della violazione dell’art.10 della Convenzione che tutela la libertà di espressione:

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1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione.

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2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

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La Corte ha in primo luogo constatato l’accordo tra le parti sul fatto che il procedimento giudiziario e il suo esito abbiano costituito un’ingerenza, per la quale lo Stato ha la responsabilità, nei confronti del diritto dei ricorrenti alla libertà di espressione. La questione controversa riguardava il fatto se tale ingerenza, comunque “prevista dalla legge”, fosse una “misura necessaria in una società democratica.”

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Una delle argomentazioni più interessanti sollevate dai ricorrenti centrava un aspetto essenziale del caso: esigere che gli attivisti che distribuiscono materiale informativo sappiano dimostrare la veridicità di ogni dichiarazione in esso contenuta costituisce per essi un onere eccessivo.

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Quanto alla questione dell’onere della prova in un procedimento per diffamazione, ha osservato la Corte, l’obbligo in capo al convenuto di provare la veridicità delle dichiarazioni diffamatorie non costituisce di per sé una violazione dell’art.10 della Convenzione europea. Inoltre, il fatto che Mc Donalds sia una multinazionale di grandi dimensioni non la privava in linea di principio del diritto di difendersi da dichiarazioni diffamatorie. In altri termini, accanto all’interesse generale ad un dibattito libero sulle attività commerciali esiste un interesse concorrente a proteggere il successo commerciale di un’azienda, a beneficio degli azionisti e dei lavoratori ma in generale anche per il bene dell’economia. La Corte ha perciò riconosciuto allo Stato di poter assicurare alle imprese gli strumenti necessari a contestare affermazioni che danneggino la loro reputazione.

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Tuttavia, secondo la Corte, è essenziale che siano garantiti un giusto processo ma soprattutto l’uguaglianza dei mezzi a disposizione delle parti nel corso del procedimento, al fine di proteggere anche l’interesse legato alla libertà di espressione. A questo riguardo, la Corte non ha potuto non rilevare le difficoltà incontrate dai due ricorrenti durante il processo, in particolare a causa della mancanza di una adeguata assistenza legale. Il più generale interesse alla libera circolazione delle informazioni e delle idee circa le attività di potenti imprese commerciali e il loro possibile effetto “inibitore” sugli altri, devono allora considerarsi quali fattori decisivi, tenendo conto del ruolo chiave delle campagne di informazione nello stimolare l’opinione pubblica. La mancanza di equità procedurale (procedural fairness and equality) ha costituito pertanto, secondo la Corte, una violazione dell’art.10.
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Aggiornato il

16/7/2009