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L’idea centrale del Messaggio è che la vita e la pace sono indissolubilmente legate fra loro: un nesso che offre al Papa argomenti per tracciare alcune linee di impegno sociale e politico secondo un’agenda che fa riferimento a obiettivi di alto rilievo morale e politico quali progresso sociale, sviluppo industriale e agricolo, universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico, strutturazione etica e controllo dei mercati monetari, finanziari e commerciali, sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, preparazione di nuove generazioni di leaders…
Il diritto alla vita è la radice di tutti i diritti fondamentali, a cominciare da quelli del nascituro. E’ un diritto assoluto, indisponibile. Se non c’è la vita manca il soggetto titolare dei diritti. Scrive il Papa: “La vita in pienezza è il vertice della pace…La pace concerne l’integrità della persona umana ed implica il coinvolgimento di tutto l’uomo…Il desiderio di pace corrisponde ad un principio morale fondamentale, ossia, al dovere-diritto di uno sviluppo integrale, sociale, comunitario”. Alla luce di questo approccio, che guarda all’essere umano coi suoi bisogni vitali -materiali e spirituali -, si spiega la particolare insistenza del Messaggio sui temi economici e sociali legati all’attuale crisi economica e finanziaria.
Forte è la denuncia delle crescenti diseguaglianze fra ricchi e poveri e dell’egoismo espresso anche “da un capitalismo finanziario sregolato”. La crescita economica non può conseguirsi penalizzando “la funzione sociale dello Stato e le reti di solidarietà della società civile”, con conseguente violazione dei diritti e dei doveri sociali, in particolare del diritto al lavoro. Questo monito offre al Papa l’occasione di richiamare un passo dell’enciclica Caritas in veritate, e cioè che bisogna continuare “a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti”. Il Papa denuncia che “il lavoro e il giusto riconoscimento delllo statuto giuridico dei lavoratori non vengono adeguatamente valorizzati, perché lo sviluppo economico dipenderebbe soprattutto dalla piena libertà dei mercati. Il lavoro viene considerato così una variabile dipendente dei maccanismi economici e finanziari”. Guardando all’Italia, non si può non pensare che queste affermazioni suonino condanna dell’azione che ha portato alla modifica, e al depotenziamento, dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, conquista irrinunciabile della civiltà del lavoro.
Legata al monito c’è l’affermazione che i diritti e i doveri sociali “sono fondamentali per la piena realizzazione di altri diritti, a cominciare da quelli civili e politici”. Il Papa fa dunque proprio un principio fondamentale del vigente Diritto internazionale dei diritti umani, quello della interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti della persona, che significa che il diritto al lavoro, il diritto all’alimentazione, il diritto all’assistenza in caso di necessità, il diritto alla salute, il diritto all’educazione sono altrettanto fondamentali del diritto alla libertà di associazione o del diritto di elettorato attivo e passivo. Questo principio ha la sua radice nella verità ontologica dell’essere umano, fatto di spirito e di materia, di anima e di corpo.
“L’etica della pace è etica della comunione e della condivisione” e, per uscire dalla crisi, “sono necessarie persone, gruppi, istituzioni che promuovano la vita favorendo la creatività umana per trarre, perfino dalla crisi, un’occasione di discernimento e di un nuovo modello economico”, da realizzare anche attraverso “l’universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico”.
Per gli operatori di pace si prospetta un mandato di alto profilo anche politico: agire per l’affermazione di un “nuovo modello di sviluppo e di economia”, cioè di un modello di buona governance globale, legato al binomio Stato di diritto/Stato sociale, le due facce di una stessa medaglia che si chiama statualità umanamente sostenibile. Dunque: rispetto della legalità, certezza del diritto, indipendenza della magistratuta e, allo stesso tempo, politiche pubbliche e misure positive secondo i dettami della giustizia sociale ed economica. La forma di statualità così caratterizzata deve valere per tutti i livelli in cui si esercitano funzioni politiche e di governo, dal Comune fino alle Nazioni Unite e all’Unione Europea.
Il Messaggio lancia, chiaramente, una chiamata di leva per l’impegno politico dei “veri operatori di pace”, individuati in “coloro che amano, difendono e promuovono la vita umana in tutte le sue dimensioni: personale, comunitaria e trascendente…e si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore”.
“Dono messianico e opera umana ad un tempo”, la costruzione della pace nella giustizia, afferma il Papa, “non è un sogno, non è un’utopia: è possibile”. Per motivarsi e attrezzarsi di buona volontà, il Papa invita a “vedere più in profondità, sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà positiva che esiste nei cuori” e che naturalmente spinge ad agire ‘sulla superfice’, nella città dell’uomo. In questa esistono, oltre che sanguinosi conflitti, minacce di guerra, terrorismo, criminalità internazionale, capitalismo finanziario sregolato, fondamentalismi, fanatismi religiosi - è il catalogo diagnostico segnalato all’inizio del Messaggio -, anche opportunità e strutture di bene, che devono essere colte e sviluppate utilizzando la grammatica dei ‘segni dei tempi’ secondo l’insegnamento della Pacem in Terris.
Un ‘segno’ recente, utile a sostenere il grande disegno della “universalizzazione di uno Stato di diritto e democratico”, è quello apparso il 24 settembre del 2012 quando i capi di stato e di governo dei 193 stati membri dell’ONU, riuniti al Palazzo di Vetro in apertura della 67a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, hanno adottato la Dichiarazione “sullo Stato di diritto a livello nazionale e internazionale”. L’importante, e per molti aspetti innovativo, documento, di forte impatto anche pedagogico, inizia con la solenne affermazione: “Siamo determinati a stabilire una pace giusta e duratura ovunque nel mondo, in conformità ai fini e ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Vi si afferma tra l’altro che “i diritti umani, lo stato di diritto e la democcrazia sono legati fra loro e si rafforzano reciprocamente e appartengono ai valori e principi universali e indivisibili che sono al cuore delle Nazioni Unite”.
Un altro ‘segno’, anch’esso recente, riguarda lo specifico campo dell’educazione. Esso è utile per aggiornare e arricchire di contenuti qualsiasi genuino disegno educativo e per la stessa legittimazione giuridica degli operatori di pace. Il 19 dicembre del 2011, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la solenne Dichiarazione “sull’educazione e la formazione ai diritti umani”, che stabilisce che c’è un diritto fondamentale della persona cui corrisponde l’obbligo degli stati di favorirne la realizzazione. Recita l’articolo 1: “1. Tutti hanno diritto a conoscere, cercare e ricevere informazioni su tutti i dirirtti umani e le libertà fondamentali e avere accesso all’educazione e alla formazione ai diritti umani. 2. L’educazione e la formazione ai diritti umani sono essenziali per la promozione del rispetto universale e l’osservanza di tutti i diritti umani per tutti, in conformità al principio dell’universalità, dell’indivisibilità e dell’interdipendenza dei diritti umani. 3. L’effettivo godimento di tutti i diritti umani, in particolare del diritto all’educazione, rende possibile l’accesso all’educazione e alla formazione ai diritti umani”. L’articolo 2 stabilisce che questo tipo di educazione comprende l’educazione sui diritti umani, l’educazione attraverso i diritti umani, l’educazione per i diritti umani “, la quale ultima rende le persone “capaci di godere e esercitare i loro diritti e di rispettare e difendere i diritti degli altri” (il testo inglese usa il verbo to empower). L’articolo 7 dispone che “gli Stati e le pertinenti autorità governative hanno la responsabilità primaria di promuovere e assicurare che l’educazione e la formazione ai diritti umani siano sviluppate e implementate in uno spirito di partecipazione, inclusione e responsabilità”.
Siamo nell’ottica dell’umanesimo, che per Benedetto XVI deve essere “un umanesimo aperto alla trascendenza”, segnato dall’“etica della comunione e della condivisione” e rispettoso “dell‘imprescindibile legge morale naturale scritta da Dio nella coscienza di ogni uomo”. La cultura di cui c’è bisogno è antitetica rispetto alle correnti antropologie che, denuncia il Papa, tramutano i mezzi in fini e centrano l’educazione sugli strumenti e sull’efficienza invece che sulla realizzazione della persona: precondizione della pace, afferma con forza il Papa, è “lo smantellamento della dittatura del relativismo”.
La cultura dei diritti fondamentali della persona è, aggiungo io, espressione di pensiero forte: il nucleo centrale del Diritto internazionale dei diriti umani - le cui principali fonti, giova ricordarlo, sono la Dichiarazione Universale del 1948 e i due Patti internazionali del 1966, rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali -, non si presta a sbavature relativizzanti, che assimilano ai diritti fondamentali diritti che fondamentali non sono.
La prima educazione alla pace, afferma il Papa, è in famiglia, che l’articolo 16 della Dichiarazione Universale definisce “nucleo naturale e fondamentale della società che ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”.
Sullo stesso terreno educativo, una missione speciale è quella che il Papa assegna alle “istituzioni culturali, scolastiche e universitarie”, affinchè si impegnino, oltre che per la formazione di “nuove generazioni di leaders”, anche per il “rinnovamento delle istituzioni pubbliche, nazionali e internazionali”. Segno dei tempi: nelle università, in varie parti del mondo, aumenta il numero degli insegnamenti dedicati specificamente ai diritti umani. In Italia, l’Annuario Italiano dei Diritti Umani 2012, curato dal Centro diritti umani dell’Università di Padova, informa che esistono 118 insegnamenti distribuiti in 64 facoltà di 41 università, e che l’insegnamento di ‘Cittadinanza e Costituzione’, con al centro i diritti umani, va sviluppandosi nelle scuole di ogni ordine e grado, grazie soprattutto all’iniziativa e alla passione di insegnanti esemplari.
Gli autentici operatori di pace sono difensori dei diritti della persona, chiamati ad agire a livello nazionale e internazionale. Segno dei tempi: a legittimare a questo ruolo è la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1998 “sul diritto e la responsablità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti”. E’ la Carta degli human rights defenders, il cuiarticolo 1 stabilisce che “tutti hanno il diritto, invidualmente ed in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diriritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale”.
Nel Messaggio di Benedetto XVI è ripreso il tema di quell’ordine mondiale più giusto, pacifico, equo, solidale, democratico che è preconizzato dall’articolo 28 della Dichiarazione Universale col seguente testo: “Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale in cui tutti i diritti e le libertà enunciati nella presente Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”. C’è quì la definizione di pace quale opera della giustizia, Opus iustitiae pax, da realizzare dentro gli stati e nei loro rapporti internazionali.
Benedetto XVI tiene a ricordare che cinquanta anni orsono ebbe inizio il Concilio Vaticano II e che nel 2013 cade il 50° anniversario della Pacem in Terris. Il percorso irenico del magistero pontificale del 20° secolo è segnato da pietre miliari costituite non soltanto dalle Encicliche (Populorum Progressio, Sollicitudo Reis Socialis, tanto per citarne due), ma anche dai Messaggi per la Giornata Mondiale per la Pace. Nella presa di possesso delle Diocesi loro assegnate, i Vescovi raccolgono il Pastorale dalle mani dei rispettivi predecessori. Nella successione dei Papi c’è oggi la trasmissione non più del pesante Triregno dismesso da Paolo VI, ma di un umile bastone “di pellegrino della pace”. Giovanni Paolo II, nel suo primo Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace (1979), indirizzato a “voi tutti che desiderate la pace”, scriveva: “Io raccolgo dalle mani del mio venerato predecessore il bastone di pellegrino della pace. Sono anch’io in cammino, al vostro fianco, con in mano il Vangelo della Pace: Beati gli operatori di pace”.
Soprattutto a partire dalla Pacem in Terris (1963), la condanna della guerra diventa sempre più radicale. Al punto 67 dell’enciclica di Giovanni XXIII leggiamo: “Quare aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda”, traducibile in: “In un’epoca come la nostra, che si gloria di disporre della bomba atomica, è fuori di ragione (è folle) ritenere che la guerra sia lo strumento idoneo a ristabilire i diritti violati”. Nella Costituzione conciliare Gaudium et Spes (1965, n.80) leggiamo: “Ogni atto di guerra…è un delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”.
Nel 2003, Giovanni Paolo II diede questa accorata testimonianza: “Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani che non hanno vissuto questa esperienza: mai più la guerra”. E’ lo stesso grido - Jamais plus la guerre, Jamais plus la guerre - lanciato da Paolo VI nel memorabile discorso pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1965.
Queste citazioni portano a sostenere che la pena di morte, uccisione dell’individuo, è parimenti alla guerra crimine contro Dio e, come tale, deve essere condannata senza esitazione. Il binomio guerra/pena di morte è assolutamente incompatibile rispetto al binomio pace/vita. Gli ultimi Papi sono orientati in questa direzione, tra l’altro prendono posizione a favore della moratoria delle esecuzioni capitali e incoraggiano esplicitamente la campagna condotta per questa causa, tra gli altri, dalla Comunità di Sant’Egidio. Segno dei tempi: il divieto della pena di morte ha fatto ingresso nel Diritto internazionale tramite il 2° Protocollo aggiuntivo al Patto internazionale sui diritti civili e politici e, per quanto riguarda in particolare l’Europa, con il 13° Protocollo alla Convenzione europea sui diritti umani e con la Carta dei diritti fondamentai dell’Unione Europea.
Nel Messaggio politematico per il primo gennaio 2013, c’è posto anche per considerazioni sulla libertà religiosa, che il Papa intende come una duplice libertà: libertà da (per esempio da costrizioni circa la scelta della propria religione) e di libertà di (testimoniare, insegnare, ecc.). Significativamente legata a questo passaggio è l’affermazione che “un’importante cooperazione alla pace è che gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia riconoscano il diritto all’uso del principio della libertà di coscienza nei confronti di leggi e misure governative che attentano contro la dignità umana, come l’aborto e l’eutanasia”.
Superfluo sottolineare che ci troviamo di fronte ad una tematica estremamente delicata che, coerentemente con l’approccio dei diritti umani e delle libertà fondamentali, deve essere affrontata in ottica di laicità positiva, cioè con riferimento ad uno spazio pubblico di libertà plurale, dove c’è posto per le libertà (di, da, per) di tutti a condizione che il relativo esercizio non confligga coi principi fondamentali del Diritto universale dei diritti umani. E’ il caso di sottolineare che all’interno di questo Diritto, la libertà religiosa è riconosciuta unitamente alla libertà di pensiero e alla libertà di coscienza secondo quanto dispone l’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religoone o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”. E’ qui solennemente proclamata la triade sacrale dell’intero codice dei valori universali.
L’obiezione di coscienza è parte della libertà di coscienza, è essa stessa un diritto fondamentale della persona, come argomentato da reputata dottrina e giurisprudenza. La ‘classica’ obiezione di coscienza è quella che riguarda il servizio militare. Oggi, alla luce dello sviluppo del Diritto internazionale dei diritti umani, la tipologia si è ampliata, in particolare con riferimento a tematiche di bioetica, un campo dove organizzazioni internazionali quali l’Unesco e il Consiglio d’Europa hanno cominciato a fissare chiari principi e divieti. L’obiezione di coscienza evocata da Benedetto XVI configura l’esercizio di un diritto fondamentale di libertà per la realizzazione, in particolare, di altri due diritti fondamentali: il diritto alla vita e il diritto all’integrità fisica e psichica dell’essere umano. In materia ci sono concezioni di diverso orientamento: sta alle pubbliche istituzioni e alla politica tenere aperto lo spazio delle libertà e, all’interno di questo, garantire l’esercizio delle obiezioni di coscienza, esigendo che tutti rispettino la dignità umana della persona e i diritti fondamentali che le ineriscono.
Tra i doveri del credente che rivendica la sua libertà di credere e professare la propria fede, oltre al dovere di rispettare l’altrui credo, ce n’è uno che chiamerei il dovere dei doveri: quello di onorare la propria religione, cioè di essere coerente in parole ed opere con il credo che professa.
La chiamata all’azione politica che Benedetto XVI indirizza agli operatori di pace ribadisce, e contestualizza nell’attuale momento storico, quanto leggiamo nella Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici di Giovanni Paolo II “su vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo” del 1987: “…Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l’azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio”. L’indole secolare dei fedeli laici è bene significata dalle “immagini evangeliche del sale, della luce e del lievito…immagini splendidamente significative, perché dicono non solo l’inserimento profondo e la partecipazione piena dei fedeli laici nella terra, nel mondo, nella comunità umana, ma anche e soprattutto la novità e l’originalità di un inserimento e di una partecipazione destinati alla diffusione del Vangelo che salva”.
La riflessione conclusiva a commento del Messaggio per il primo gennaio 2013 parte dalla spiegazione che Benedetto XVI dà della beatitudine evangelica degli operatori di pace: “adempimento di una promessa rivolta a tutti coloro che si lasciano guidare dalle esigenze della verità, della giustizia e dell’amore”. Umilmente oso aggiungere: e dalla volontà di cooperare con la Provvidenza che lancia segni dei tempi, perché siano colti, compresi e fatti fruttare con discernimento, intelligenza, competenza da parte di tutti, in primis dalle “nuove generazioni di leaders” auspicate dal Papa. Le scuole di formazione socio-politica, non soltanto in ambito ecclesiale, dovrebbero servire a questo.
30/05/2019