© Università degli Studi di Padova - Credits: HCE Web agency
Radhika Coomaraswamy è la prima Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne. Il suo incarico dura quasi 10 anni, dal 1994 al 2003. E’ la prima volta che il tema della violenza contro le donne entra con la sua specificità nell’agenda ufficiale delle Nazioni Unite. Il lavoro è cospicuo e numerosi sono i rapporti pubblicati durante il suo mandato. Lo sforzo iniziale è quello di dare un quadro descrittivo delle forme di violenza e ascriverle tra le violazioni dei diritti umani internazionalmente riconosciuti. L’ampio lavoro della Relatrice speciale riflette la struttura del suo primo rapporto preliminare in cui vengono individuate tre dimensioni o ambiti in cui la violenza contro le donne si manifesta: la famiglia, la comunità, lo Stato. Dopo la panoramica generale fornita dal rapporto preliminare, la Relatrice approfondisce le problematiche proprie dei tre ambiti nei successivi tre rapporti rispettivamente dedicati a: la violenza contro le donne nel contesto familiare, la violenza nel contesto comunitario e le forme di violenza perpetrate e/o condonate dallo Stato.
In questo schema generale si collocano anche altri rapporti che analizzano in dettaglio temi specifici legati ad aspetti e manifestazioni del fenomeno della violenza contro le donne che risultano, dall’analisi e dalle informazioni ricevute dalla Relatrice speciale, molto urgenti e preoccupanti. In particolare, Radhika Coomaraswamy porge la sua attenzione a: le politiche e le pratiche che hanno un effetto negativo sui diritti riproduttivi delle donne, il fenomeno della tratta, la violenza perpetrata e/o condonata dallo Stato durante i conflitti armati, le pratiche culturali all’interno della famiglia violente nei confronti delle donne.
Nel rapporto preliminare pubblicato all’inizio del mandato della Relatrice speciale nel 1994, vengono messe in evidenza le cause che determinano e contribuiscono ad alimentare il fenomeno della violenza contro le donne e quali ne siano le principali conseguenze. In tale quadro, la violenza è definita come parte di un processo storico e di relazioni di potere inique tra uomini e donne, e in quanto tale come questione politica di cui tutti gli Stati sono responsabili. La violenza contro le donne viene concettualizzata, infatti, come uno dei maggiori ostacoli al pieno godimento dei diritti umani da parte delle donne, perché le costringe in uno status di subordinazione e sottomissione dovuto alla paura, che ha la conseguenza di escluderle dalla vita familiare e comunitaria e quindi dai processi di sviluppo. In questo primo rapporto, la Relatrice presenta, inoltre, un quadro dettagliato di obblighi e standard internazionali e regionali esistenti (fino a quel momento) relativi all’eliminazione della violenza contro la donna.
1. La violenza nel contesto familiare
Nel rapporto preliminare la Relatrice speciale analizza due fattispecie della violenza nel contesto familiare: la violenza domestica e le pratiche tradizionali, temi ripresi ed ulteriormente approfonditi in due rapporti successivi.
Per quanto riguarda la violenza domestica, il rapporto analizza alcuni aspetti cruciali del problema: le sue cause, alcuni esempi di legislazione nazionale esistente, il ruolo fondamentale svolto dalle forze di polizia nel momento in cui crimini di questa natura vengono denunciati, l’approccio della giustizia criminale al fenomeno nonché le caratteristiche dei servizi preposti per fornire assistenza.
La “violenza domestica” è tradizionalmente definita come l’insieme delle violenze e dei maltrattamenti che si esplicitano nel contesto della sfera privata tra persone legate tra loro da una relazione intima sancita biologicamente o legalmente. Nonostante la terminologia abbia mantenuto un carattere neutro, la Relatrice sottolinea l’importanza di riconoscerla come una forma di violenza di genere, un crimine compiuto principalmente da uomini contro donne. Le statistiche, infatti, sui casi di violenza contro gli uomini, non influenzano l’osservazione di una specifica caratterizzazione di genere della violenza domestica. Nel rapporto del 1996, dedicato interamente alla violenza nel contesto familiare, la violenza domestica viene definita in maniera più ampia come la violenza perpetrata nella sfera domestica contro le donne in ragione del ruolo che ricoprono in quell’ambito o come violenza intesa ad avere un effetto diretto e negativo sulle donne all’interno della sfera domestica. Tale violenza può essere perpetrata da attori sia privati sia pubblici. Questa interpretazione è più in linea con la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne che, all’articolo 2, definisce il concetto di violenza domestica come comprensivo, ma non limitato, alla “violenza fisica, sessuale e psicologica, che avviene in famiglia, incluse le percosse, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento”. In questo quadro la violenza domestica è considerata una violazione dei diritti umani e una forma specifica di discriminazione di genere e, in alcuni casi, può arrivare a costituire un atto di tortura o trattamento o punizione crudele, disumana e degradante.
Questa evoluzione nella definizione della violenza domestica mette in evidenza la gravità del fenomeno e permette di superare la tradizionale concezione della sfera privata come luogo “sacro” ed esclusivo, entro cui lo Stato non ha diritto di interferire. Questo è un punto su cui la Relatrice si sofferma più volte, mettendo in relazione la visione di non interferenza nella vita privata con la “invisibilità” in cui sono rimasti nascosti per lungo tempo gravissimi abusi contro donne e bambine. Nel richiamare gli Stati, quindi, ad assumersi la loro responsabilità per una più forte ed efficace protezione dei diritti della donna anche nella sfera della vita privata, la Relatrice richiama il concetto di due diligence (debita diligenza), in base al quale l'esistenza di un sistema giuridico che criminalizza e commina pene per le aggressioni domestiche non viene considerata sufficiente di per sé per un’effettiva protezione dei diritti umani. Lo Stato ha il dovere di prendere le misure necessarie per prevenire, indagare e punire gli atti di violenza contro le donne, sia che tali atti siano perpetrati dallo Stato sia da persone private, nonché per garantire rimedi e riparazioni alle violazioni (a). In relazione a questo aspetto, la Relatrice sottolinea le gravi conseguenze derivate dalla tolleranza e dall'inazione degli Stati verso la violenza domestica che hanno determinato un’implicita legittimizzazione sociale della violenza contro le donne e hanno contribuito a renderla una pratica diffusa e ampiamente immune da sanzioni legali.
Alla fine del rapporto la Relatrice speciale indirizza agli Stati dieci raccomandazioni generali e ventitré specifiche sulle azioni da realizzare per combattere il fenomeno della violenza domestica. A queste raccomandazioni, fa seguito il rapporto del 1999 che presenta un follow-up sulle iniziative intraprese dagli Stati per implementare obblighi e standard internazionali.
Il secondo argomento ampiamente trattato dalla Relatrice speciale nel rapporto preliminare e in altri successivi riguarda le pratiche tradizionali pericolose per la salute delle donne che costituiscono forme specifiche di violenza di genere in quanto violano il diritto all’integrità fisica, il diritto di espressione e i principi fondamentali di uguaglianza e dignità. Il tema è materia complessa e sensibile in quanto mette in questione elementi culturali e religiosi profondamente radicati nelle società che godono di rispetto e accettazione.
Nel rapporto del 1997 sulla violenza nel contesto comunitario, la Relatrice speciale affronta la questione degli estremismi religiosi che hanno conseguenze negative sui diritti delle donne. Su questo argomento, la Relatrice chiarisce che non si tratta di considerare alcune religioni incompatibili con i diritti umani, quanto piuttosto alcuni costumi e pratiche dell’uomo, spesso proclamate in nome della religione, che sono discriminatorie nei confronti delle donne. Nel 2002, il tema è ripreso in un altro rapporto in cui la Relatrice presenta ampie prove dell’esistenza di pratiche violente e dannose in tutte le culture e società del mondo, ad esempio, le mutilazioni genitali femminili, la preferenza per il figlio maschio (aborti selettivi),le differenze di genere nell’alimentazione, la violenza legata alla dote, i matrimoni in età infantile, i test di verginità e l’imposizione di canoni di bellezza irrealistici. Il rapporto ha l’obiettivo di indurre gli Stati ad agire prontamente per sradicare quelle pratiche che costituiscono forme di violenza contro le donne e che, per molto tempo, sono state sottratte allo scrutinio nazionale e internazionale. Il relativismo culturale, afferma la Relatrice nel rapporto, è spesso usato come scusa per legittimare pratiche disumane e discriminatorie contro le donne nonostante le norme internazionali sui diritti umani affermino che nessuna tradizione, costume o religione può esimere gli Stati dal rispetto degli standard internazionali per eliminare la violenza contro le donne e le bambine nel contesto familiare (b).
Nel rapporto vengono riportate, infine, alcune buone pratiche di collaborazione tra governi e associazioni per i diritti delle donne al fine di eliminare le pratiche culturali violente, senza per questo pregiudicare la ricchezza culturale di ogni società.
2. La violenza nel contesto comunitario
Nel rapporto preliminare del 1994 la Relatrice speciale colloca nel contesto comunitario quelle particolari forme di violenza per lo più legate alla sessualità e al comportamento sessuale delle donne. Se da un lato, infatti, la comunità rappresenta uno spazio di espressione sociale, dall’altro, è anche il luogo in cui vengono imposti limiti e restrizioni alla sessualità femminile e, di conseguenza, norme di controllo e punizioni - spesso disumane e degradanti - per ciò che viene considerato sessualmente inappropriato. Il rapporto preliminare si sofferma sull’analisi delle seguenti manifestazioni della violenza di genere: lo stupro, le aggressioni e le molestie sessuali, la prostituzione e la tratta, le condizioni di vita delle lavoratrici migranti e la pornografia.
Stupro, aggressioni e molestie sessuali
Lo stupro e le aggressioni sessuali si configurano come fattispecie trasversali ai tre ambiti individuati - la famiglia, la comunità e lo Stato - e sono identificati come strumenti per eccellenza del controllo delle società patriarcali sulle donne (c). Le molestie sono considerate l’evidenza di un continuum di violenza sessuale contro le donne, così come afferma il rapporto del 1997 sulla violenza nel contesto comunitario. Questo genere di attacchi colpisce corpo e mente, viola l’integrità del corpo e genera paura, pone ostacoli alla libertà di movimento e spesso anche all’educazione. E’ quanto sottolinea la Relatrice affermando che le aggressioni e le molestie sessuali perpetrate nei luoghi di lavoro o in quelli di formazione sono particolarmente pericolose perché hanno l’effetto di escludere le donne da quegli ambiti della società con conseguenze molto gravi sulla loro condizione personale, sociale ed economica (d).
Dall’analisi di alcuni ordinamenti nazionali e delle loro disposizioni in materia di stupro e molestie, la Relatrice fa emergere l’importanza della definizione degli elementi giuridici che configurano lo stupro e le molestie come fattispecie criminose in un dato sistema giuridico (ad esempio, il consenso della vittima, la coercizione e i dettagli specifici che caratterizzano l’aggressione). Tali elementi risultano cruciali nella lotta alla violenza contro le donne non solo perché influiscono sul modo di condurre le indagini e sulle sanzioni, ma anche perché condizionano il modo in cui queste forme di violenza sono percepite nella società di riferimento.
Altri aspetti molto importanti relativi alla violenza sessuale contro le donne che emergono dal rapporto si riferiscono al ruolo della polizia, da un lato, e alle politiche sulla salute riproduttiva, dall’altro. L’atteggiamento tendenzialmente discriminatorio degli ufficiali di polizia nei confronti delle vittime di violenza che si recano nelle stazioni di polizia per denunciare e i numerosi abusi e maltrattamenti riportati dalle stesse vittime proprio nelle stazioni di polizia sono elementi particolarmente gravi. Essi, infatti, influiscono pesantemente sulla scelta delle donne di denunciare o meno una violenza subita e sulla percezione che della violenza contro le donne si ha in generale nella società. Un’altra questione aperta in molti paesi riguarda i casi di gravidanza indesiderata in seguito ad uno stupro. Nei paesi in cui l’aborto non è ammesso o è sottoposto a restrizioni anche in questi casi, le donne sono esposte ad una doppia violenza: lo stupro e la gravidanza forzata imposta dallo Stato. Le leggi che criminalizzano l’aborto interferendo con il diritto delle donne di decidere del proprio corpo e della propria vita riproduttiva, afferma la Relatrice, violano l’obbligo internazionale di tutti gli Stati di proteggere la salute e i diritti riproduttivi delle donne.
Prostituzione e tratta
Il rapporto preliminare si riferisce alla prostituzione come violenza quando essa non è frutto di una scelta razionale, ma di costrizione, necessità e sfruttamento ed espone le donne a diversi abusi quali lo sfruttamento economico, le violenze sia da parte dei clienti sia dei protettori (spesso anche da parte della polizia), l’isolamento morale e legale e la mancanza di tutele, la stigmatizzazione sociale e l’esposizione a gravi rischi per la salute. La prostituzione come forma di violenza di genere è connessa al fenomeno della tratta, originalmente intesa esclusivamente come la “compra-vendita di donne a scopo di prostituzione”. La Relatrice ne osserva con preoccupazione una significativa crescita in molte parti del mondo, individuando alcune delle cause di questa tendenza nella paura di contagio HIV/AIDS, nella crescita del turismo sessuale (derivata a sua volta dal bisogno indotto per i paesi più poveri di produrre moneta estera) e la tolleranza sociale verso gli imperativi della sessualità maschile. Nel rapporto del 1997, la Relatrice speciale si sofferma sulla definizione di “tratta” per ampliarla e adeguarla alle nuove dimensioni e caratteristiche del fenomeno che (come evidenziato nel rapporto del 2000 che analizza la tratta quale specifica manifestazione di violenza nel contesto delle migrazioni internazionali) sono mutevoli e si adattano velocemente ai cambiamenti delle condizioni economiche, sociali e politiche. La nuova definizione intende includere oltre alla prostituzione anche le altre forme di sfruttamento sessuale ed economico intrinseche allo scopo della tratta che costringono le donne in condizioni di oppressione. Le condizioni alle quali le donne vittime di tratta sono sottoposte - stupro, violenze e percosse, torture psicologiche - sono riconosciute dalla Relatrice come pratiche simili alla schiavitù e quindi come gravi violazioni dei diritti umani (e).
Nel rapporto del 2000, la Relatrice evidenzia il carattere specificamente femminile di alcune violazioni comunemente riscontrabili nel più ampio fenomeno della tratta di esseri umani così come delle cause della migrazione (la femminilizzazione della povertà, i conflitti armati interni, la militarizzazione e l’instabilità politica). Una forte preoccupazione emerge rispetto ad un evidente legame tra le politiche migratorie nazionali a carattere protezionistico e anti-immigrazione e il fenomeno della tratta. Inoltre, il rapporto sottolinea l’inadeguatezza dell’approccio securitario (la tratta come problema di ordine pubblico) perché invece di rafforzare la protezione dei diritti umani crea o esacerba le cause che determinano o contribuiscono al fenomeno della tratta.
Lavoratrici domestiche
Nel porre attenzione alla violenza esercitata contro le donne migranti, la Relatrice nota come la categoria di lavoratrici migranti non qualificate, quali le lavoratrici domestiche, sia più a rischio di abusi e violenze con specifico carattere di genere. Esse sono infatti esposte ad una doppia marginalizzazione dovuta all’essere donna e all’essere migranti. Mentre nel rapporto preliminare gli abusi contro le lavoratrici domestiche sono analizzati come forma di violenza domestica, il rapporto del 1997 li colloca nell’ambito comunitario. Tale cambiamento è giustificato dal fatto che, sebbene questo tipo di violenze avvengano nel contesto tradizionalmente considerato “sfera privata”, gli individui che le commettono non hanno né una relazione domestica con la vittima né una funzione statale formale. La maggior parte delle lavoratrici migranti è impiegata nei settori di lavoro informale - non solo in ambito domestico, ma anche agricolo, industriale o dei servizi - i quali non sono regolati e si prestano più facilmente a situazioni di sfruttamento, abusi e violenze. Nell’analisi della Relatrice speciale, la natura degli abusi subiti dalle lavoratrici domestiche, per lo più perpetrati dai datori di lavoro, delinea condizioni di vita paragonabili ad una forma di schiavitù domestica.
Pornografia
Un altro tema affrontato nel rapporto preliminare è la pornografia. Nel rapporto preliminare, questo fenomeno è interpretato non solo come una forma di violenza in sé, ma anche come uno strumento attraverso cui la dominazione e il potere maschili vengono eroticizzati e la subordinazione delle donne veicolata come fenomeno naturale; ciò celebra e giustifica la violenza contro le donne facendo della pornografia sia un sintomo sia una causa della violenza di genere.
Il rapporto prende in considerazione interpretazioni differenti che prediligono argomenti in favore della libertà di espressione e della creatività artistica. Secondo tale corrente di pensiero, la pornografia riguarda la libertà di espressione sessuale e può quindi essere una forma di liberazione anche della sessualità femminile. Tuttavia, l’approccio della Relatrice tende a cogliere la complessità e la pericolosità del fenomeno ed esige una definizione che chiaramente collochi la pornografia nell’ambito della violenza di genere (f). Nel rapporto del 1997, la Relatrice speciale sottolinea la necessità di intraprendere degli studi per comprendere a fondo l’impatto delle nuove tecnologie e delle nuove forme di comunicazione sulla diffusione di immagini raffiguranti la violenza contro le donne. Raccomanda, inoltre, un dialogo internazionale che conduca a strategie adeguate per combattere questo fenomeno senza violare la libertà di parola e di espressione e a standard internazionali sulla pornografia.
3. La violenza perpetrata o tollerata dallo Stato
La terza dimensione individuata dalla Relatrice speciale nella struttura generale della sua analisi è quella della violenza perpetrata e/o tollerata dallo Stato. Il rapporto che approfondisce le forme di violenza contro le donne in questo ambito è quello del 1998, la cui analisi si articola in tre capitoli dedicati rispettivamente alla violenza contro le donne durante i conflitti armati; la violenza subita dalle donne in custodia; la violenza contro le donne rifugiate e sfollate.
Violenza contro le donne durante i conflitti armati
In questo primo capitolo la Relatrice speciale presenta innanzitutto alcuni casi concreti che, per quanto non esaustivi, descrivono la natura e il grado di violenza perpetrata contro le donne durante i conflitti armati. La forma più diffusa di violenza contro donne e bambine in questi contesti è lo stupro, sia nella sua accezione di crimine individuale - che può sussistere in egual modo sia in tempo di pace sia di guerra - sia nella sua caratterizzazione quale atto di aggressione di massa usato per diversi scopi: come deterrente per annientare qualsiasi forma di resistenza dell’avversario; come strumento per terrorizzare la popolazione civile o per infliggere un’umiliazione estrema ad intere comunità; come propaganda di guerra; come mezzo di pulizia etnica.
Il rapporto del 1998 si sofferma su due questioni importanti: la prima riguarda la responsabilità degli attori non statali nei conflitti di carattere interno e, la seconda, l’inadeguatezza degli standard internazionali del diritto umanitario di fronte al fatto che sempre più donne si arruolano tra i combattenti. Sul primo punto, il rapporto cita nuovamente il concetto di ‘due diligence’, in base al quale ogni Stato ha l’obbligo di prevenire, perseguire e punire coloro che violano i diritti degli altri sia che essi agiscano in veste di agenti ufficiali dello Stato sia che si tratti di attori non statali. Sul secondo tema, la Relatrice mette in evidenza l’urgenza di adeguare le norme internazionali alle esigenze delle donne prigioniere di guerra e alla situazione in cui a compiere dei crimini di guerra siano donne combattenti.
Un altro argomento sensibile sollevato nel rapporto è quello dei crimini commessi dai peace-keepers. Nelle sue raccomandazioni finali, la Relatrice richiede che tali crimini siano esplicitamente considerati crimini internazionali e trattati di conseguenza. Nel rapporto del 2001, specificamente dedicato al tema della violenza contro le donne nei conflitti armati, si fa particolare riferimento alle violenze connesse alla presenza di contingenti delle Nazioni Unite in funzione di peace-keeping o, in genere, di basi militari.
Altri temi presentati nel rapporto del 2001 sono: i rischi a cui sono esposte in particolare le bambine durante i conflitti armati; i vuoti di protezione e assistenza esistenti nei confronti delle donne sfollate; la violenza e la discriminazione che le donne subiscono nei processi di riabilitazione e ricostruzione post-conflitto. Il rapporto inoltre fa un’analisi del lavoro svolto dai Tribunali internazionali per la ex Iugoslavia e il Ruanda che hanno stabilito degli standard giurisprudenziali per poter perseguire la violenza sessuale in tempo di guerra. Particolare attenzione è rivolta anche allo Statuto delle Corte Penale Internazionale (appena adottato al tempo) che definisce specificamente lo stupro ed altre violenze di genere come atti che costituiscono crimini contro l’umanità e crimini di guerra, superando l’approccio della Convenzione di Ginevra del 1949 sulla protezione dei civili che definisce i crimini di violenza contro le donne come crimini che offendono l’onore o la moralità.
Violenza subita dalle donne in custodia
Il capitolo descrive il fenomeno della violenza dello Stato verso le donne durante il periodo in cui esso ne assume la custodia. Le informazioni e i dati raccolti mostrano la diffusione del fenomeno e l’alto numero di abusi di potere da parte di agenti statali, spesso appartenenti a forze di polizia o militari, in un generale contesto di impunità verso tali comportamenti. La Relatrice si sofferma sulla definizione della situazione di custodia considerando diverse forme in cui essa si concretizza. Dall’analisi risulta un quadro con confini ampi che ha l’obiettivo di includere nel concetto di “custodia” diversi contesti in cui una persona è sottoposta al controllo fisico di un agente dello Stato, in particolare: la custodia psichiatrica, medica, educativa, la custodia della polizia o penale, ma anche la le perquisizioni e gli interrogatori svolti nelle abitazioni private, soprattutto durante conflitti armati o violenti disordini interni. Nel rapporto tuttavia l’analisi si concentra solo sulla custodia della polizia o penale.
Nell’analisi di questo fenomeno, la Relatrice mette in evidenza che, sebbene le forme di violenza sui soggetti in custodia possono essere simili per uomini e donne (sparizioni forzate, esecuzioni extra-giudiziali e tortura, incluso lo stupro), c’è un elemento che contraddistingue la violenza contro le donne in custodia che è la caratterizzazione sessuale della tortura. Lo stupro, la minaccia di stupro e altre forme di violenza sessuale, infatti, sono perpetrate in misura maggiore sulle donne rispetto agli uomini. Dal rapporto emerge che questo tipo di abusi perpetrati o tollerati da parte dello Stato sono spesso punitivi rispetto ai ruoli pubblici e privati che le donne ricoprono nella società e, sempre di più, per il loro attivismo.
Violenza contro le donne rifugiate e sfollate
Dalle informazioni ricevute dalla Relatrice e riportate nel rapporto del 1998 emerge che le donne rifugiate e le sfollate sono esposte a forme peculiari di violenza come conseguenza della loro situazione. I rischi a cui questa categoria di donne è esposta vengono analizzati nel rapporto da due distinte prospettive: da una parte, la persecuzione temuta o subita che determina la scelta di abbandonare la propria residenza; dall’altra, le violenze cui le donne vanno incontro una volta entrate nella condizione di rifugiate o sfollate. La violenza di genere in questi ambiti è stata ampiamente documentata sia come causa sia come conseguenza rispettivamente della richiesta e della condizione dello status di rifugiato. L’uso dello stupro è stato documentato in molti casi, specie nei conflitti armati, come strumento per intimidire, umiliare e degradare le donne, le loro famiglie e comunità. Anche alcune pratiche tradizionali pericolose per la salute di donne e bambine, specialmente le mutilazioni genitali femminili, sono state riconosciute da alcuni Stati come una forma di persecuzione. La Relatrice sottolinea l’importanza che la persecuzione sulla base del genere venga riconosciuta come legittima motivazione per il riconoscimento dello status di rifugiato.
Il secondo approccio fa emergere le specifiche manifestazioni di violenza di genere nei confronti delle donne nei paesi in cui viene richiesto l’asilo e/o nei campi per rifugiati, ma anche delle donne sfollate interne cioè coloro che fuggono dal luogo di residenza abituale ma non attraversano un confine internazionale. In tali casi, sono state documentate ulteriori persecuzioni e abusi, discriminazioni etniche, razziali, legali e linguistiche e rischi continui per l’integrità e la sicurezza fisica e psicologica. Le condizioni in cui tali donne vivono, inoltre, nella maggior parte dei casi non garantiscono loro un adeguato accesso a cibo, acqua, medicine e alloggio. In alcuni casi specifici, sono state registrate pratiche intese al ritorno forzato dei soggetti in fuga dal proprio paese, attacchi diretti violenti dentro e fuori i campi, periodi ingiustificati e prolungati di detenzione, sfruttamento anche sessuale da parte del personale amministrativo.
L’Addendum n. 4 al Rapporto del 1998 analizza le politiche e le pratiche che hanno un impatto negativo sulla salute riproduttiva delle donne e che contribuiscono a, causano o costituiscono violenza di genere. Il rapporto descrive in generale le devastanti conseguenze sia a livello fisico sia psicologico della violenza (in particolare, stupro, violenza domestica, tratta, prostituzione forzata e pratiche culturali dannose) sui diritti e sulla libertà riproduttiva delle donne. In seguito, affronta più specificamente il tema della violenza nel contesto delle politiche sulla salute riproduttiva. A tal fine, Radhika Coomaraswamy distingue tra violenza come risultato di un’azione diretta dello Stato e violenza come risultato dell’incapacità dello Stato di rispettare gli obblighi minimi fondamentali. Nel primo ambito, include molte violazioni dei diritti riproduttivi delle donne che costituiscono manifestazioni di violenza di genere. Tali violazioni vengono definite come qualsiasi atto di violenza di genere che causi, o è probabile che causi, danni fisici, sessuali o psicologici o sofferenza per la donna, incluso le minacce di tali danni, la coercizione o la deprivazione arbitraria della libertà di scelta sia che avvenga nell’ambito della vita privata sia in quello della vita pubblica.
Nel secondo ambito, invece, vengono collocati livelli inadeguati di conoscenza sulla sessualità umana, informazioni e servizi inadeguati o inappropriati sulla salute riproduttiva, discriminazione contro donne e bambine indotte da convinzioni culturali e, infine, limiti al controllo delle donne sulla loro vita sessuale e riproduttiva. Tutti questi elementi contribuiscono a violare il diritto delle donne alla salute riproduttiva.
Il rapporto su razza, genere e violenza contro le donne, pubblicato nel 2001, rappresenta il contributo della Relatrice speciale alla preparazione della Conferenza mondiale su razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza di Durban tenutasi nello stesso anno. Il punto centrale della riflessione è che la discriminazione basata sul genere interseca le altre forme di discriminazione basate su altre “alterità” come ad esempio la razza, l’etnia, la religione e lo status economico. Tale fatto costringe la maggioranza delle donne di tutto il mondo in condizioni di doppia o tripla marginalizzazione. Gli effetti combinati di razzismo e discriminazione di genere su migranti, immigrati, indigeni, minoranze e donne marginalizzate, in particolare, hanno avuto delle conseguenze devastanti sul godimento dei diritti umani sia nella sfera pubblica sia in quella privata; le violazioni che ne derivano, però, sono paradossalmente meno visibili di altre, proprio perché si manifestano in contesti di marginalità e di paradigmi radicati di discriminazione. Partendo dal bisogno di elaborare misure specifiche per affrontare la discriminazione nei confronti delle donne, il rapporto suggerisce rimedi e misure per sradicare il razzismo e la discriminazione razziale e i loro effetti sulle donne e sulle ragazze a livello nazionale, regionale e internazionale.
L’ultimo rapporto pubblicato da Radhika Coomaraswamy durante il suo mandato analizza gli sviluppi e le buone pratiche sperimentate per combattere la violenza contro le donne a livello internazionale, regionale e nazionali nel periodo 1994-2003. Il concetto di violenza è presentato come un problema multi-sfaccettato che deve essere affrontato su più livelli e in diversi settori della società contemporaneamente. Nelle sue raccomandazioni finali, la Relatrice si sofferma sul bisogno di affrontare alcuni temi: le radici della violenza incluso lo status economico, sociale e politico svantaggiato che restringe la conoscenza dei diritti e l’accesso a diverse risorse e opzioni; l’esigenza di garantire l’uguale accesso al sistema di giustizia criminale; la dilagante impunità verso gli atti di violenza di genere. Tuttavia, la Relatrice individua nella dottrina del relativismo culturale la più grande sfida per l’affermazione dei diritti delle donne e nell’articolazione dei diritti sessuali la frontiera ultima per il movimento che li difende. L’Addendum al Rapporto presenta un’analisi per paese di tutte le regioni del mondo con livelli di dettaglio diversi in base alle informazioni a disposizione.
(a) Il concetto di due diligence ha subito un’evoluzione importante in seguito alla sentenza della Corte Inter-Americana dei Diritti dell'Uomo in merito al caso Velásquez Rodríguez. In quell’occasione la Corte ha imposto al governo “di adottare ragionevoli misure per prevenire le violazioni dei diritti dell'uomo e di fare uso dei mezzi a sua disposizione per condurre un’approfondita indagine sulle violazioni compiute all'interno di questa giurisdizione, individuando i responsabili, infliggendo le pene adeguate e assicurando un adeguato risarcimento alla vittima”.
(b) Art. 4 Dichiarazione sull’Eliminazione della violenza contro le donne; Art. 5 Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne.
6/5/2015