La Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni (2007)
Le problematiche relative ai popoli indigeni vengono portate all'attenzione dell'opinione pubblica internazionale solo negli anni '80, quando le prime organizzazioni indigene, soprattutto nel continente americano, iniziano ad impadronirsi dei linguaggi giuridici delle Nazioni Unite e a fare ascoltare la loro voce nei contesti internazionali appropriati.
E' grazie a questo processo che nel 1982, già prima della pubblicazione dello studio di Martinez Cobo, relatore speciale alla Sottocommissione delle Nazioni Unite per la prevenzione delle discriminazioni e protezione delle minoranze, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) crea un nuovo organo con la risoluzione 1982/34: il Gruppo di lavoro sui popoli indigeni (WGIP), importante punto di riferimento per la promozione dei diritti dei popoli indigeni, oggi sciolto per dare spazio a nuovi e più appropriati meccanismi.
Già nel 1985 il WGIP decide di lavorare alla elaborazione di una bozza di Dichiarazione sui popoli indigeni della Terra. Dopo alcuni anni di consultazioni, che videro protagonisti gli stessi popoli indigeni e le più attive Ong, nel 1993, la bozza viene sottoposta all'attenzione della Sotto-commissione per la promozione e la protezione dei diritti umani (organo sussidiario della Commissione dei diritti dell'uomo), la quale, a sua volta, l'anno successivo, sottopone il testo alla Commissione. Ma la ratifica di questo documento doveva superare ancora altre importanti prove.
Nel 2006, in particolare, dopo anni di consultazioni, i lavori subiscono un brusco arresto all'Assemblea Generale a causa delle richieste di alcuni Paesi africani guidati dalla Namibia e sostenuti da Russia, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Il testo, infatti, pur non essendo vincolante, stabilisce il diritto dei popoli indigeni a non essere sottoposti all’assimilazione forzata o alla distruzione della loro cultura, a non essere espulsi dai loro territori e raccomanda, in caso di violazioni, un risarcimento sotto forma di restituzioni o compensazioni da parte dei governi.
Nonostante le obiezioni di tali Paesi, alla fine la Dichiarazione viene adottata dall'Assemblea Generale il 13 settembre del 2007 con 143 stati a favore, 11 astenuti e 4 importanti 'contro', ovvero Australia, Nuova Zelanda, Canada e Stati Uniti. L'Australia ha, poi, modificato la propria posizione nel 2009, mentre tra l'aprile e il novembre 2010 è stata la volta di Nuova Zelanda e Canada. Ultimi gli Stati Uniti: il 16 dicembre 2010, il Presidente Obama ha annunciato il proprio parere favorevole in occasione della Conferenza delle nazioni tribali della Casa Bianca.
Per quanto riguarda i paesi astenuti, nel 2009 la Colombia, stato in cui si stima vivano circa un milione e mezzo di indigeni, ha deciso di supportare la Dichiarazione, seguita anche dallo Stato indipendente della Samoa. Infine, anche l’Ucraina ha adottato una posizione favorevole nel 2014.
La Dichiarazione si compone di 19 paragrafi introduttivi e 45 articoli, suddivisi in 9 sezioni, tra cui:
- diritti all'autodeterminazione, alla partecipazione della vita dello Stato, alla nazionalità e alla libertà dalla discriminazione
- minacce alla sopravvivenza delle popolazioni indigene e delle singole persone
- identità spirituale, linguistica e culturale dei popoli indigeni
- diritto all'educazione, all'informazione, al lavoro
- diritto alla terra e all'usufrutto delle sue risorse
- esercizio del diritto all'autodeterminazione e alla costituzione di istituzioni indigene
In primo luogo, la Dichiarazione riconosce ai popoli indigeni il "diritto all'autodeterminazione, in virtù del quale essi decidono liberamente il proprio statuto politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale" (Art.3).
Viene anche riconosciuto il diritto alla nazionalità (Art.6) e alla non assimilazione forzata o distruzione della loro cultura o all'allontanamento dai territori ancestrali (Art.8). Con l'Art.13 viene loro riconosciuto il diritto a conservare e tramandare la propria lingua, cultura e tradizioni. In questo contesto, gli Stati si impegnano ad adottare misure idonee alla comprensione reciproca in modo da evitare errate interpretazioni nelle fasi decisionali. La Dichiarazione garantisce anche la libertà d'espressione per mezzo dei media che devono rappresentare i popoli indigeni in modo tale da rispettarne la diversità culturale (Art.16). Attenzione viene riservata anche nei confronti dei diritti dei bambini delle comunità indigene e del loro diritto all'educazione (Art.17).
Importante, poi, la menzione al "libero, previo e informato consenso", spesso violato nei frequenti casi di espropriazione e mancata compensazione dei territori indigeni già citati nel Preambolo (Art.19 e 20). Importante anche il riferimento al diritto di scegliere le cure più idonee; l'accesso alla medicina tradizionale comporta anche la tutela della biodiversità delle specie vegetali presenti sui territori indigeni (Art.24). A questo proposito viene ricordata l'importanza dell'ambiente naturale per i popoli indigeni della Terra (Art.25-29). In questo quadro, gli Stati non possono svolgere azioni militari nei territori indigeni salvo che in casi eccezionali come la salvaguardia della sicurezza nazionale o una specifica richiesta o il consenso degli stessi popoli indigeni (Art.30-33); essi hanno il diritto di decidere in totale libertà le proprie regole e se sia il caso di sfruttare o meno le risorse minerarie o di altro genere presenti sul proprio territorio.