Articolo 23 - Per un lavoro dignitoso
Articolo 23
1.
Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a
giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la
disoccupazione.
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una remunerazione equa e
soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una
esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da
altri mezzi di protezione sociale.
4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.
Il
contenuto di questo Articolo è ulteriormente specificato dagli Articoli
6, 7 e 8 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e
culturali del 1966, dove è innanzitutto stabilito che le misure che gli
Stati sono obbligati a prendere “per dare piena attuazione a tale
diritto”, dovranno comprendere “programmi di orientamento e di
formazione tecnica e professionale, nonché l’elaborazione di politiche
e di tecniche atte ad assicurare un costante sviluppo economico,
sociale e culturale ed un pieno impiego produttivo” (corsivo aggiunto).
Il messaggio che proviene dal Diritto internazionale è chiaro: il
settore del lavoro non può essere lasciato al libero arbitrio del
mercato, ma deve costituire oggetto di politiche pubbliche nel quadro
di una più ampia programmazione di stato sociale. E’ inoltre stabilito
che deve esserci “la possibilità eguale per tutti di essere promossi,
nel rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza
altra considerazione che non sia quella dell’anzianità di servizio e
delle attitudini personali”. La meritocrazia trova qui i parametri
conformi a dignità umana, come tali prioritari rispetto a qualsiasi
altra tipologia.
Il diritto umano al lavoro trova anche riscontro nella Convenzione internazionale contro la discriminazione razziale, nella Convenzione internazionale contro ogni forma di discriminazione nei riguardi delle donne, nella Convenzione internazionale sui diritti dei bambini, nella Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, nella Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli e in tanti altri strumenti giuridici, internazionali e regionali-continentali.
Nell’interpretazione del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti
economici, sociali e culturali il diritto al lavoro è un diritto che
inerisce ad ogni persona ed è allo stesso tempo un diritto collettivo.
Esso comprendente tutte le forme legittime di lavoro, dipendente o non.
La produzione di norme giuridiche internazionali in materia di lavoro
ha il suo principale laboratorio nell’Organizzazione Internazionale del
Lavoro, OIL, con sede a Vienna. La sua Conferenza è formata da
delegazioni nazionali ‘tripartite’, comprendenti i rappresentanti dei
governi, dei sindacati dei lavoratori, delle organizzazioni padronali.
Alcuni organi interni di controllo sull’applicazione della normativa
sono formati da persone indipendenti dagli stati. Tra le molte
Convenzioni OIL si segnala la numero 22 portante sulla politica
dell’occupazione, la quale parla del diritto ad una “occupazione piena,
produttiva e liberamente scelta”. Purtroppo questa prospettiva rimane
molto lontana per milioni di esseri umani.
La disoccupazione e la mancanza di lavoro sicuro spingono i lavoratori a trovare occupazione nel settore informale dell’economia. Il vigente Diritto internazionale è molto deciso nello stigmatizzare sia il lavoro forzato sia il lavoro prestato in settori dell’economia informale. Il primo è definito dall’OIL come “qualsiasi lavoro o servizio esigito dalla persona sotto la minaccia di una qualsiasi penalità e per il quale la persona non si è offerta volontariamente”. Gli stati sono obbligati ad abolire, vietare e contrastare qualsiasi forma di lavoro forzato, come anche prescritto dall’articolo 5 della Convenzione sulla schiavitù. Gli stati devono altresì intervenire per ridurre quanto più possibile il numero di lavoratori che operano al di fuori dell’economia formale, obbligando i datori di lavoro a rispettare la legge e dichiarare i nomi dei loro lavoratori in modo da rendere possibile la garanzia dei loro diritti.
Gli stati sono
inoltre obbligati a proibire il lavoro dei minori di sedici anni. Tra i
loro obblighi, oltre quelli di assicurare non discriminazione, pari
opportunità ed eguaglianza, c’è quello di adottare misure che
assicurino che le misure di privatizzazione non ledano i diritti dei
lavoratori. In particolare, il Comitato delle Nazioni Unite afferma
senza mezzi termini che “specifiche misure destinate a incrementare la
flexicurity dei mercati del lavoro non devono rendere il lavoro meno
stabile o ridurre la protezione sociale dei lavoratori”.
Già, la
flexicurity. Ci si può ubriacare (colpevolmente) di flexicurity così
come avvenne con la deregulation. Anche in sede di Unione Europea c’è
il rischio che si istituzionalizzi il vizio della flexicurity. Il
Diritto internazionale dei diritti umani esige che, in tema di
occupazione, si parta col piede giusto (anzi, obbligato), cioè dal
diritto al lavoro come diritto fondamentale che è, allo stesso tempo,
diritto alla piena occupazione e diritto allo stato sociale. Il diritto
al lavoro come tale non ha pertanto nulla a che vedere con l’ideologia
neoliberista e relative vischiose varianti.
Il diritto umano al lavoro è strettamente collegato ai cosiddetti diritti sindacali, a fondare e far parte di sindacati. Il Diritto internazionale ‘riconosce’ i sindacati, non parla invece di ‘partiti’, se non nel contesto regionale dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa. E’ il caso di ricordare che dal 1961 è in vigore la Carta sociale europea, più volte riformata, sulla cui applicazione veglia il Consiglio d’Europa, in particolare attraverso il Comitato europeo dei diritti sociali, organo formato da esperti indipendenti. Ad esso possono presentare reclami proprio le associazioni sindacali e organizzazioni non governative. La Dichiarazione universale non fa cenno allo sciopero. Ci pensa invece l’Articolo 8 (1 comma, lettera d) del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, che impone agli stati l’obbligo di garantire “il diritto di sciopero, purchè esso venga esercitato in conformità alle leggi di ciascun paese”. Il rinvio è dunque alla legge nazionale, la quale deve però essere conforme ai principi generali del Diritto internazionale, e considerare quindi lo sciopero quale articolazione connaturale al diritto fondamentale al lavoro. E’ appena il caso di sottolineare che l’esercizio di questo diritto deve avvenire nel rispetto di tutti gli altri diritti fondamentali, in uno spirito di alta responsabilità sociale.
Se ne dicono tante sui
sindacati. Certamente, essi devono essere guidati da persone che
abbiano nella mente e nel cuore i diritti dei lavoratori, e che non
vengano a compromesso con istanze vetero-corporative. Si possono e si
devono criticare quelle dirigenze sindacali che si sono burocratizzate
o, più o meno palesemente, partiticizzate. Ma chiediamoci: se non ci
fossero stati i sindacati, sarebbe stato possibile avviare la ‘civiltà
del lavoro’? E se non ci fossero oggi, sarebbe possibile riprendere
quel cammino?
Riflessione finale, forse troppo ovvia. L’Articolo 1
della Costituzione Italiana proclama che “L’Italia è una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro”. E se il lavoro non c’è? Senza
fondamento(a) la Repubblica crolla. E se al posto del lavoro si mette
il precariato o la flexicurity, quanto ne guadagna la statica della
Repubblica?”