cittadinanza

Cittadinanza e cittadinanze, ad omnes includendos: la via dei diritti umani

in M. Mascia (a cura di), Dialogo interculturale, diritti umani e cittadinanza plurale, Venezia, Marsilio, 2007
Logo Centro di Ateneo per i Diritti Umani "Antonio Papisca", Università di Padova

1. Sfide per una cittadinanza (solo) nazionale

Il tradizionale concetto di cittadinanza, caratterizzato dall’orizzonte dello Stato-nazione, è oggi messo in discussione non solo per motivi etici ma anche perché sono in atto processi di ampia portata e di cambiamento strutturale, trasversali alle diverse realtà nazionali. Mi riferisco alla complessa, asimmetrica interdipendenza planetaria, alla sempre più marcata natura transnazionale di rapporti e strutture, all’organizzazione permanente della cooperazione in campo inter-governativo e non-governativo, alla globalizzazione economica, all’internazionalizzazione dei diritti umani e naturalmente all’integrazione europea attuata attraverso l’architettura istituzionale dell’Unione Europea. In questo contesto planetario, che genera sfide positive e negative, la governance vive una crisi profonda e l’esperienza della democrazia è messa a dura prova anche nei Paesi che hanno una lunga tradizione in materia. Questa crisi colpisce non solo le capacità per così dire ordinarie dei governi nazionali – in questo caso si tratterebbe di crisi congiunturale – ma anche la «forma» stessa dello Stato, caratterizzata dalle dimensioni di nazionalità, sovranità, confini ed eserciti. Ci troviamo pertanto davanti a una crisi «strutturale» della statualità quale costruita e attuata negli ultimi secoli. 

La crisi della (pratica) della democrazia è strettamente collegata alla crisi strutturale della statualità nazionale. Le decisioni cruciali vengono ormai prese in ambito extra-nazionale: in modo trasparente, se sono coinvolte le legittime istituzioni internazionali, in modo meno trasparente se in altre sedi. Insomma, lo spazio dello Stato-nazione non è più sufficiente a garantire la vita fisiologica della democrazia, poiché quanto deve essere legittimato, controllato e supervisionato non ricade più, in ampia misura, all’interno della giurisdizione nazionale dei singoli Stati. 

In questa situazione i diritti di cittadinanza sono in pericolo, anche quelli più consolidati. Se il Parlamento e il Governo del mio Paese non dispongono più del potere di decidere su molte questioni vitali, qual è il significato delle elezioni politiche e del mio ruolo democratico di legittimazione e partecipazione? Se lo Stato e altre pubbliche istituzioni si sottraggono ai loro impegni nel campo del welfare, rinunciando a garantire la tutela dei diritti umani economici e sociali, qual è la differenza tra essere e non essere un cittadino? Se lo Stato-nazione non è in grado di garantire a tutti quelli che vivono nel suo territorio la sicurezza dal crimine organizzato transnazionale e dalle guerre, qual è la differenza tra essere e non essere un cittadino? Se, utilizzando il potere che gli rimane, lo Stato, caratterizzato dal polinomio nazionalità-sovranità-esercito-confini-cittadinanza ad alios excludendos, soccombe alla tentazione di esasperare le proprie funzioni autoritarie (punitive, repressive), quali garanzie costituzionali sopravvivranno, e quanto a lungo? Per quale motivo e per quanto tempo dovremo vivere in un angosciante «stato d’eccezione»? 

Un adeguato modo di affrontare questa magmatica situazione consiste nel ridefinire la cittadinanza innanzitutto da un punto di vista concettuale, cioè partendo dal basso, ossia dalle radici della comunità politica, per risalire sino alle istituzioni preposte alla governance, al fine di considerare quest’ultima alla luce del telos dei diritti umani e della legittimazione democratica prima che in termini di autorità, potere e capacità. Questa operazione bottom-up si rende ancora più urgente se consideriamo i gravi conflitti ancora in corso o addiittura in espansione in molti territori ove i diversi gruppi etnici, religiosi e culturali hanno pur convissuto per secoli, mentre contemporaneamente si diffondono la xenofobia e la discriminazione in Paesi ove giungono numerosi e folti gruppi di esseri umani che sono portatori di diverse culture e, a giusto titolo, rivendicano gli stessi diritti di cittadinanza dei cittadini autoctoni di quei territori. 

Fortunatamente, lo scenario mondiale non è del tutto negativo. Le dinamiche dell’interdipendenza planetaria hanno una dimensione duplice, positiva e negativa, ove la prima consta principalmente della crescente consapevolezza che sia effettivamente possibile perseguire obiettivi di buona governance mondiale e avvalersi, in modo genuinamente cooperativo, di istituzioni e processi decisionali internazionali e sopranazionali per gestire e distribuire equamente i «beni globali» presenti nel paniere comune della sicurezza e dello sviluppo umano. Questi aspetti positivi sono ben più di meri «interstizi» per operazioni di cambiamento pacifico. 

A loro volta, l’internazionalizzazione dei diritti umani e, per noi che viviamo in Europa, il processo di integrazione europea offrono numerose opportunità strategiche per ridefinire il concetto di cittadinanza e aprire nuovi percorsi per la sua pratica. Il primo fornisce il paradigma giuridico-assiologico per una fondazione autenticamente umanocentrica della cittadinanza, il secondo lo spazio reale per esercitare la (nuova) cittadinanza, ed entrambi offrono eccellenti opportunità per sviluppare un processo educativo nel segno della legalità e delle responsabilità condivise. 

Appunto il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani ci consente, rectius ci obbliga, a ricostruire la cittadinanza a partire, come già accennato, non dalle istituzioni statali (la tradizionale cittadinanza top-down) ma dal suo titolare originario, l’essere umano (cittadinanza bottom-up): intendo la cittadinanza non come status elargito (octroyé) dallo Stato, ma come patrimonio immanente all’essere umano, uguale per tutti poiché tutti egualmente membri della famiglia umana. È superfluo sottolineare che si rendono necessari interventi normativi per regolamentare la pratica della nuova cittadinanza all’interno degli Stati, al fine appunto di renderla compatibile con i principi della cittadinanza universale, compreso naturalmente il principio di non-discriminazione. 

Dal canto loro, il processo di integrazione europea e l’apparato istituzionale dell’UE consentono di sperimentare una cittadinanza plurale in un contesto evolutivo di institution building che richiede una forte legittimazione sostanziale, cioè la partecipazione e la cittadinanza attiva come elementi fondativi della macropolis europea. La duplice realtà dell’internazionalizzazione dei diritti umani e dell’integrazione europea fornisce ulteriore evidenza logica ed empirica per aggiornare e arricchire le categorie di identità e appartenenza in ottica solidarista. 

2. I diritti umani, plenitudo iuris 

Il riconoscimento giuridico dei diritti umani e delle libertà fondamentali direttamente nell’ordinamento internazionale, è una fondamentale conquista del lungo movimento storico che ha portato alle costituzioni democratiche negli Stati, un movimento caratterizzato da sofferenze e rivendicazioni popolari, da sforzi intellettuali, mobilitazioni di massa e impegno politico. Con la Carta delle Nazioni Unite del 1945 e la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, la «ratio costituzionale» del diritto è stata prolungata a livello mondiale, superando i confini della sovranità statuale-nazionale. 

Per la prima volta nella storia dell’umanità, la persona umana è stata riconosciuta come soggetto, non più come mero oggetto, di Diritto internazionale, rectius come soggetto originario in tale ordinamento. 

L’art. 1 della Dichiarazione universale è esplicito per quanto attiene al fondamento dei diritti fondamentali: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni rispetto agli altri in uno spirito di fratellanza». Come dire: diritti umani, noi. A sottolineare l’importanza di questo assunto, il Preambolo della Dichiarazione proclama che «il riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Viene così esplicitamente sottolineato che il valore fondante dell’ordine mondiale e di ogni sistema giuridico e politico è la dignità umana. Conformemente al Diritto internazionale vigente e in perfetta consonanza con il Diritto (genuinamente) «costituzionale» nazionale, la sovranità appartiene ai popoli e alla famiglia umana nel suo insieme poiché ognuno dei suoi membri è intrinsecamente dotato di dignità umana e di pari diritti fondamentali.

Possiamo a giusto titolo affermare che la ratio umanocentrica del Diritto costituzionale dei singoli Stati è ora rafforzata dal «nuovo» Diritto internazionale, vero Ius novum universale o Diritto panumano, che nell’arco di sessant’anni è divenuto un organico corpus di principi e norme che integrano e aggiornano la prima parte della Carta delle Nazioni Unite. 

Il DNA di un ordine mondiale più giusto, pacifico e democratico è costituito da principi fondamentali quali: l’universalità dei diritti umani, la loro interdipendenza e indivisibilità, l’indissociabilità dei diritti umani delle donne e delle bambine rispetto ai diritti umani internazionalmente riconosciuti, la proscrizione della guerra, il divieto di utilizzare la forza per la composizione delle dispute internazionali, lo stato di diritto, la democrazia sia come diritto sia come metodo naturale per l’attuazione di diritti umani, l’universalità della giustizia penale internazionale, la responsabilità penale personale (per i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio) direttamente perseguibile a livello internazionale[1].

Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti della persona comporta che gli Stati e altri sistemi organizzati di governo debbano essere considerati quali entità «derivate», strumentali al conseguimento degli obiettivi primari attinenti ai diritti umani e alle libertà fondamentali[2].

Per sottolineare il primato originario dell’essere umano sui sistemi derivati, l’art. 28 della Dichiarazione universale proclama il diritto alla pace positiva come diritto fondamentale: «Ogni persona ha diritto a un ordine sociale e internazionale nel quale tutti i diritti e le libertà enunciati nella presente Dichiarazione possono essere pienamente realizzati». La portata di questo articolo è assolutamente rivoluzionaria se consideriamo che il diritto alla pace (ius ad pacem), assieme al diritto alla guerra (ius ad bellum), è uno dei forti attributi tradizionali della sovranità degli Stati. In virtù di questo articolo, che evidenzia e rafforza il contenuto di altre norme della Carta delle Nazioni Unite, si può argomentare che, riconoscendo la pace quale diritto umano, il diritto di fare la guerra non può che sparire dal corredo degli attributi degli Stati e dei rapporti tra Stati, con la logica conseguenza che il diritto degli Stati alla pace è diventato il dovere di fare la pace (officium pacis)[3]. 

Gli Stati, il sistema interstatuale, le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’Unione Africana e altre istituzioni internazionali, in quanto sistemi «artificiali» creati per un facere prestabilito, non contengono in sé la raison d’être e, ovviamente, non sono caratterizzati dal «libero arbitrio» come nel caso degli esseri umani.

Poiché gli esseri umani, ovunque essi vivano, hanno le stesse esigenze vitali riconosciute come diritti fondamentali dal Diritto internazionale in vigore, tutti gli Stati e le Organizzazioni internazionali devono attenersi alla stessa deontologia umanocentrica e irenica. 

Quando un sistema giuridico si fonda sui diritti umani, esso entra in una fase di maturazione umanocentrica che possiamo definire di plenitudo iuris, di pienezza del diritto. Il Diritto internazionale dei diritti umani indica che tale conquista contrassegna oggi anche il sistema mondiale. Essendo il «traghettatore» che porta l’etica umana universale nell’arena della politica e dell’economia, esso costituisce anche il nucleo fondamentale di ogni genuina strategia educativa. A tale proposito, la Dichiarazione universale afferma esplicitamente che la sua attuazione deve essere principalmente perseguita attraverso l’insegnamento e l’educazione. Insomma, il Diritto pan-umano, in quanto noyeau dur del «sapere» dei diritti umani – le savoir des droits de la personne –, è uno strumento particolarmente utile a scopi pedagogici poiché consente di riferirsi a valori che, per il fatto stesso di essere inclusi nelle norme giuridiche internazionali, non possono non essere assunti come obiettivi o, se si vuole, meno arbitrari di altri. 

L’Europa è certamente la fonte storica sia di una filosofia organica sia del linguaggio e dei tecnicismi giuridici dei diritti umani, ma la cultura dei diritti umani, così come si sta sviluppando e diffondendo, è il risultato della confluenza dei contributi concettuali (e politici) provenienti dalle diverse regioni del mondo. Ad esempio, il principio di interdipendenza e indivisibilità dei diritti umani è stato formalmente proclamato nel dicembre 1977 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite su proposta e pressioni di Paesi non europei[4]. Lo stesso principio è stato puntualmente ripreso nella Dichiarazione di Vienna adottata dalla Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti umani nel 1993. Al giorno d’oggi, grazie al paradigma dei diritti umani universalmente riconosciuti, è in pieno corso un processo di «fertilizzazione incrociata» di culture e visioni politiche.

In questo «cantiere universale», giova sottolinearlo, vi è una grande varietà di attori che svolgono ruoli significativi: governi, organizzazioni intergovernative, organizzazioni non-governative, accademici e tribunali sopranazionali (con la loro giurisprudenza creativa). 

Migliaia di monitori «istituzionali» dei diritti umani sono attualmente impegnati in operazioni sul campo in tutto il mondo. La «dimensione dei diritti umani» sta diventando trasversale (mainstreaming) rispetto al mandato e alla struttura operativa delle missioni di pace dell’ONU. Amnesty International e una miriade di organizzazioni di società civile globale agiscono in un continuum di ruoli che origina dalle comunità locali e risale sino ai santuari della politica internazionale, comprese le giurisdizioni sopranazionali. 

A partire da «Rio 1992», le grandi Conferenze mondiali indette dalle Nazioni Unite mobilitano ampi settori di società civile di tutte le regioni e i continenti, e offrono alla cultura dei diritti umani la possibilità di esprimersi in termini di democrazia partecipativa transnazionale. In effetti, il paradigma dei diritti umani costituisce un codice di simboli utilizzati da attori significativi della società civile mondiale per comunicare tra di loro e con le istituzioni nazionali e internazionali, un codice transculturale. La questione della legalità internazionale basata sui diritti umani e sul multilateralismo è diventata un tema familiare appunto alla società civile globale, non solo per avanzare denunce, in modo competente e in piena legittimità, contro dittature, egemonismi, programmi di economia senza giustizia, comportamenti di Real-politik, ma anche per ideare e proporre adeguate istituzioni, misure positive e buone prassi per conseguire gli obiettivi della (buona) governance mondiale. L’appassionata e creativa realtà delle organizzazioni e dei movimenti solidaristici che agiscono al di là e al di sopra dei confini degli Stati dimostra che i ruoli civici e politici, ossia la cittadinanza attiva, non si limitano più allo spazio intrastatale e che, come in precedenza accennato, si sta effettivamente delineando una «geometria» adeguata per l’esercizio della democrazia nello spazio mondiale. Il tradizionale sistema interstatuale era un club esclusivo di «governanti per governanti», la cui linfa vitale era garantita da ciò che la cibernetica definisce withinputs (ossia, domande e sostegni dei governanti per i governanti, la pratica dei «vertici» è significativa al riguardo), e non da inputs provenienti, fisiologicamente, dai «governati», ossia dagli esseri umani che definiamo «cittadini». 

Orbene, oggi proprio i «cittadini», in particolare attraverso le organizzazioni e i movimenti transnazionali, hanno visibilità e legittimazione anche formale – oramai de iure condito – nello spazio costituzionale mondiale. La democratizzazione delle istituzioni e delle politiche internazionali nel vero senso della democrazia – che significa non «un Paese, un voto» (traduzione procedurale del vecchio principio dell’eguaglianza delle sovranità statuali), ma una più diretta legittimazione degli organismi multilaterali e una più efficace partecipazione politica nel loro funzionamento – è diventata la nuova frontiera di ogni importante e pacifico sviluppo umanocentrico della governance. Lottare per una democrazia internazionale-transnazionale costituisce già la messa in pratica della nuova cittadinanza.

Questa ampia mobilitazione popolare è ulteriormente legittimata, in modo specifico e innovativo, dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sul «Diritto e responsabilità dei singoli, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti», adottata con Risoluzione dell’Assemblea generale A/RES/53/144 (9 dicembre 1998). In virtù di questo strumento, noto come la Magna Charta dei difensori dei diritti umani, «ogni individuo ha diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale» (art. 1). L’enfasi è posta sul diritto a «lottare» (questo verbo è evidentemente più forte di «agire» o «adoperarsi»), per superare qualsiasi confine nazionale. L’art. 7 afferma che «tutti hanno il diritto, singolarmente e in associazione con altri, di sviluppare e discutere nuove idee e principi relativamente ai diritti umani e di operare per la loro accettazione». L’art. 18, commi 2 e 3, prosegue: «i singoli, i gruppi, le istituzioni e le organizzazioni non-governative hanno un ruolo importante da svolgere e una responsabilità per quanto attiene alla salvaguardia della democrazia, alla promozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali e alla promozione e all’avanzamento delle società, delle istituzioni e dei processi democratici. I singoli, i gruppi, le istituzioni e le organizzazioni non-governative hanno anche un importante ruolo e responsabilità nel contribuire, se del caso, alla promozione del diritto di ciascuno a un ordine sociale e internazionale in cui i diritti e le libertà enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti umani e in altri strumenti dei diritti umani possono essere pienamente realizzati». 

È superfluo far notare che i compiti relativi all’estensione della democrazia e alla costruzione dell’ordine mondiale hanno un alto profilo politico. L’unica condizione di legittimità prescritta dalla Dichiarazione è che tali ruoli siano svolti «in modo pacifico», dunque  in perfetta sintonia con la logica non violenta della promozione umana.

3. Cittadinanza intesa come albero di cittadinanze

Conformemente al Diritto internazionale che riconosce i diritti umani, la cittadinanza deve essere definita come lo status giuridico della persona nello spazio che è proprio di tale Diritto. Come in precedenza accennato, questo dilatato spazio costituzionale coincide con lo spazio vitale di tutti i membri della famiglia umana. Lo status giuridico di «persona umana» non emana dal potere anagrafico dello Stato, il relativo status di cittadinanza è pertanto non elargito (octroyée) ma semplicemente «riconosciuto», è cittadinanza universale in via originaria appunto perché il suo titolare è, come già sottolineato, soggetto originario di diritti fondamentali nell’ordinamento internazionale, prima di essere cittadino o  suddito di questo o quello Stato. 

In altre parole, tutti gli esseri umani, cioè tutti coloro che il nuovo Diritto internazionale assume dotati di intrinseca eguale dignità ed eguali diritti, sono naturaliter cittadini del pianeta terra. La cittadinanza universale è cittadinanza primaria ed è comune, giova ripeterlo, a tutti i «membri della famiglia umana». Le cittadinanze anagrafiche, nazionali ed europea, sono cittadinanze secondarie o derivate o complementari e, in quanto tali, devono essere coerenti con lo status giuridico originario dell’essere umano. 

Una metafora potrebbe essere utile ai fini educativi: la cittadinanza è un albero, il cui tronco e le cui radici sono lo status giuridico dell’essere umano, che coincide con la cittadinanza universale, o cittadinanza della persona, e i rami sono le cittadinanze nazionali e sub-nazionali. La cittadinanza è una categoria concettuale e giuridica plurale. 

La cittadinanza nazionale è tradizionalmente teorizzata e insegnata come un istituto di identificazione collettiva ad intra, attorno ai simboli della storia nazionale e della statualità nazionale, e di esclusione ad extra rispetto a ciò che non ricade all’interno dei confini nazionali. Giova ricordare che la paradigmatica Dichiarazione francese del 1789 fa riferimento ai droits de l’homme et du citoyen, che ha di fatto portato all’interpretazione dei diritti fondamentali come di un privilegio per coloro che sono già cittadini anagrafici di un determinato Stato, insomma una sorta di valore aggiunto o di lusso per loro. La sua implicita ratio è ad alios excludendos, dunque contraddittoria rispetto all’immanente universalità dei diritti umani. 

La Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale esplicitamente assumono, come più volte già sottolineato, i diritti fondamentali come intrinseci (inherent) all’essere umano in quanto tale. Correttamente, nei rilevanti strumenti giuridici internazionali si dice «diritti umani» come sinonimo di «diritti della persona», non si opera distinzione tra essere umano e cittadino, l’essere umano è originariamente il cittadino. Insomma, la logica del nuovo Diritto internazionale è orientata chiaramente ad omnes includendos. Nell’attuale contesto di dinamiche planetarie che esigono nuove forme di organizzazione politica del mondo, la cittadinanza deve essere considerata come un concetto evolutivo, com’è per sicurezza e sviluppo, ossia secondo una logica multidimensionale. Le analogie sono chiare e convincenti. Sino a poco tempo fa la sicurezza era intesa come sicurezza «dello Stato» (state security), «nazionale» e «militare», mirata al perseguimento dell’interesse nazionale; oggi si parla invece di sicurezza umana (human security) come primariamente sicurezza della «gente» (people security), un concetto multidimensionale che comprende aspetti sociali, economici e ambientali, e postula anche un apparato collettivo sopranazionale di sicurezza[5]. È anche il caso di ricordare che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, lo sviluppo era considerato come un processo essenzialmente economicistico finalizzato alla crescita quantitativa; oggi si parla di «sviluppo umano» (human development) riferendosi a un ricco paniere di indicatori quantitativi e qualitativi, basati sul principio della centralità della persona umana come sottolineato dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sul diritto allo sviluppo del 1986. 

La riflessione sulla cittadinanza plurale solleva ovviamente problemi di portata addirittura drammatica, se consideriamo che, da un punto di vista storico e di diritto positivo, le cittadinanze nazionali preesistono alla cittadinanza universale. La grossa sfida è per la cultura, la politica e l’educazione, perché contribuiscano a modificare la forma mentis di molti, armonizzare i sistemi giuridici nazionali con il Diritto internazionale dei diritti umani, attuare adeguate politiche sociali nazionali e internazionali e favorire l’inclusione di tutti nel contesto di un’architettura multilivello della governance. Si è aperta una nuova frontiera per la promozione umana, la democrazia e la pace.

4. Cittadinanza europea dei diritti umani: quale coerenza?

Il primo e più significativo messaggio che discende dal sistema istituzionale dell’integrazione europea può essere riassunto come segue[6]. Poiché è stato possibile, de iure e de facto, superare i confini territoriali e gli egoismi della sovranità statuale, dovrebbe essere anche possibile superare pregiudizi e divari tra i gruppi e tra i popoli. Si tratta di un messaggio di pace e di liberazione che offre ai cittadini «nazionali» reali opportunità di entrare in nuovi spazi territoriali e funzionali per lo sviluppo umano, la sicurezza umana, l’esercizio di ruoli democratici e di sperimentare nuove forme di statualità, di «statualità sostenibile» (sustainable statehood). 

Non dobbiamo dimenticare che il progetto di integrazione europea, così come fu concepito dai lungimiranti «padri fondatori» dell’Europa, si è tradotto in un processo di reale costruzione della pace. Il metodo previsto per attuare questo progetto, quanto meno nella fase iniziale, era conforme all’approccio funzionalista del gradualismo, e questo spiega perché i soggetti chiave ai fini dell’integrazione erano imprenditori, burocrati e lobbisti, e non gli esseri umani in quanto tali. Ciononostante, come sappiamo, sin dall’inizio l’architettura istituzionale e il funzionamento del sistema europeo sono stati coinvolti e metabolizzati in un processo di evoluzione permanente.

Fu ben presto sollevato il problema del cosiddetto «deficit democratico» relativo ai limitati poteri del Parlamento europeo. Ci si rese conto che sarebbe stato impossibile parlare di democrazia sopranazionale e di stato di diritto a prescindere dal loro collegamento al paradigma dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

La «cittadinanza UE», come noto, è stata formalmente istituita dal Trattato di Maastricht nel 1992, esattamente quarant’anni dopo il Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1951. Nel successivo Trattato di Amsterdam del 1997, i diritti umani sono stati proclamati parte integrante dei principi fondativi dell’Unione Europea. Infine il 10 dicembre 2000, a Nizza, i Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea hanno congiuntamente proclamato la «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea» predisposta da una Convenzione europea ad hoc. La Carta è allo stesso tempo una conquista – poiché rende la materia più coerente e sistematica – e un punto di partenza per ulteriori sviluppi verso la piena «costituzionalizzazione» del sistema dell’Unione Europea, in particolare fornendo un adeguato terreno per una più corretta fondazione della cittadinanza UE. 

A ben considerare, questioni legate ai diritti umani sono state affrontate nel sistema europeo ben prima degli anni novanta, grazie all’illuminata giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e all’appassionato impegno del Parlamento europeo. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che i diritti umani erano compresi anche nel primo progetto di «Costituzione europea» (progetto Altiero Spinelli), approvato dal Parlamento europeo nel 1984, ma non anche dal Consiglio che seguì invece la via della «Conferenza intergovernativa» dando vita all’Atto Unico Europeo del 1987. 

Dal canto suo la Commissione europea, principalmente con il lavoro della propria «Unità diritti umani e democratizzazione», è stata molto attiva in quest’ambito, garantendo un sostegno politico e finanziario alle ONG e alle università per progetti di informazione ed educazione ai diritti umani e alla democratizzazione[7].

È utile ricordare che a partire dal 1999, il Rapporto annuale sui diritti umani del Parlamento europeo è accompagnato dal Rapporto annuale sui diritti umani dell’Unione, predisposto dal Consiglio e fatto oggetto di discussione nell’annuale sessione del «Forum UE sui diritti umani», presieduta dalla Presidenza di turno dell’UE, con la partecipazione dei rappresentanti degli Stati membri, delle istituzioni e degli organi dell’UE, delle ONG e degli accademici. Giova altresì ricordare che nell’ambito delle relazioni esterne, i diritti umani, collegati in particolare alle reti di strutture educative e di società civile, hanno da molti anni grande visibilità soprattutto nel contesto della cooperazione allo sviluppo con i Paesi ACP. Dall’inizio degli anni novanta, è stata inclusa una «clausola sui diritti umani» nei trattati con i Paesi terzi, che prevede la sospensione dei suddetti trattati se lo Stato in questione non rispetta i principi dei diritti umani e della democrazia. Da sottolineare anche l’importante ruolo svolto dalle istituzioni dell’Unione Europea nel sostenere la creazione e il funzionamento della Corte penale internazionale. L’Unione Europea, nel suo insieme, si è venuta dotando di uno specifico apparato organizzativo per la materia dei diritti umani. Presso il Parlamento europeo sono attivi il Comitato per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, il Comitato delle petizioni, il Sottocomitato dei diritti umani del Comitato degli affari esteri, l’Unità per i diritti umani presso il Segretariato generale dello stesso Parlamento. 

Dal canto suo il Consiglio dell’Unione si avvale di un Gruppo di lavoro permanente sui diritti umani (COHOM), a carattere intergovernativo. Il Segretario generale del Consiglio-Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) è coadiuvato da un Rappresentante personale per i diritti umani. La Commissione, nell’ambito della Direzione generale relazioni esterne, si avvale di una Direzione per i rapporti multilaterali e i diritti umani e, come prima ricordato, di un’Unità sui diritti umani e la democratizzazione. È stata inoltre istituita l’Agenzia europea per i diritti umani, con sede a Vienna. Da ricordare anche il «Mediatore europeo» il quale, fin dalla sua costituzione in virtù del Trattato di Maastricht, esercita il proprio mandato sulla base di un approccio esplicitamente orientato ai diritti umani. 

Più di recente, la prassi consolidata del «dialogo sociale» è stata integrata dal cosiddetto «dialogo civile», allo scopo di coinvolgere le Organizzazioni della società civile (OSC) nella definizione delle politiche dell’Unione in modo più ampio e sostanziale. In tale contesto si sta sviluppando un’apposita «rete dei diritti umani»[8]. 

Alla luce dei dati che abbiamo velocemente richiamato, risulta che esistono adeguate premesse per la revisione dell’attuale «cittadinanza UE», come tale non fondata sui diritti umani. Come esplicitamente stabilito dal Trattato che istituisce la Comunità Europea (Parte II, Cittadinanza dell’Unione, artt. 17-22) e omologhe disposizioni  del Trattato di Lisbona contenute sia nel Trattato sull’Unione Europea (Titolo II, Disposizioni relative ai principi democratici, art. 9), sia Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Parte seconda, Non discriminazione e cittadinanza dell’Unione, artt. 18-25) –, l’appartenenza a uno Stato membro dell’Unione costituisce condizione essenziale della cittadinanza UE. 

Questo significa che la «nazionalità» rimane ancora il requisito principale. Nell’attuale ordinamento UE, le disposizioni relative alla cittadinanza aprono la strada a un paradosso: discriminazioni e contraddizioni sono presenti non solo nel testo del Trattato della Comunità Europea prima richiamato, ma anche nel Trattato di Lisbona. In quest’ultimo documento, si menziona la «cittadinanza di Maastricht» (che non ha fondamento nei diritti umani), e fa  riferimento al «cittadino UE» elencando soltanto alcuni diritti specifici, senza richiamare i diritti fondamentali definiti nella Carta. Questa infatti proclama nel suo Preambolo che l’UE «istituendo la cittadinanza dell’Unione, pone l’individuo al centro delle proprie attività» (corsivo aggiunto, il riferimento sarebbe in questo caso all’«essere umano»). 

Cosa fare? Si può cominciare col dire che la Carta di Nizza legittima a operare perché la cittadinanza UE sia basata sui diritti umani come avviene per qualsiasi cittadinanza nazionale democratica. Questo fondamento, che è allo stesso tempo logico e naturale e in linea di principio non incompatibile con il parametro della complementarietà della cittadinanza nazionale ed europea, consentirà a quest’ultima di divenire fisiologica, nel senso di rendersi coerente con il Diritto internazionale dei diritti umani, in particolare con il principio di non-discriminazione, cioè con un consolidato principio consuetudinario di ius cogens. Anche il principio di interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani troverà piena ragion d’essere nell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea. Insomma, i diritti specifici che caratterizzano la cittadinanza UE (in particolare, la libera circolazione, il diritto di elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo e a livello comunale, il diritto di petizione e la protezione diplomatica all’estero) non possono essere disgiunti dal più completo insieme di tutti gli altri diritti fondamentali della persona – civili, politici, economici, sociali e culturali –, ossia dal loro «grembo» naturale. 

I diritti della (attuale) cittadinanza UE sono concretamente «giustiziabili», ma questa tesi dell’effettività giuridica non può e non deve aprire la strada alla discriminazione tra i cittadini di uno Stato membro dell’Unione e coloro che, pur vivendo regolarmente nello spazio territoriale dell’Unione medesima, non godono di questo «privilegio». Rivendicare un fondamento corretto e coerente per la cittadinanza UE all’insegna di «tutti i diritti umani per tutti» non può non costituire una parte importante dell’esercizio attivo dell’attuale cittadinanza UE – per quanto limitata e di privilegio –, una causa degna di altissimo impegno morale, civico e politico.

5. L’orizzonte spaziale della cittadinanza plurale

La pratica della cittadinanza plurale richiede una profonda consapevolezza dei valori fondanti, come pure la conoscenza delle fonti giuridiche, dei percorsi, dei metodi e degli strumenti operativi. L’intervento educativo deve mirare alla trasmissione di precisi dati cognitivi, in particolare di quelli che attengono alle conquiste della civiltà del diritto, per aiutare a interiorizzare valori e a motivare all’azione. Questo approccio non può che essere globale, interdisciplinare, partecipativo e orientato all’azione come in particolare elucidato dall’UNESCO, sin dai tempi della Raccomandazione del 1974 su «Educazione alla comprensione, alla cooperazione, alla pace internazionale e all’educazione riguardo ai diritti umani e alle libertà fondamentali». 

In questa prospettiva di ampia e capillare mobilitazione educativa, è necessario rivolgere debita considerazione alla definizione del diritto all’educazione, sancito dall’art. 13, comma 1, della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e morali, del 1966, che recita: «Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo all’educazione. Essi convengono sul fatto che l’educazione deve mirare al pieno sviluppo della personalità umana e del senso della sua dignità e rafforzare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali. Essi convengono inoltre che l’educazione deve porre tutti gli individui in grado di partecipare in modo effettivo alla vita di una società libera, deve promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia fra tutte le nazioni e tutti i gruppi razziali, etnici o religiosi e incoraggiare lo sviluppo delle attività delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace». Nell’opera di elucidazione dei valori, deve essere chiaro che essi non sono, in quanto tali, oggetto di mera contemplazione, devono invece essere tradotti in obiettivi da perseguire seguendo l’approccio assio-pratico che è proprio della cultura dei diritti umani. Mi pare superfluo sottolineare che la concreta protezione dei diritti umani significa soddisfare bisogni vitali – non capricci o lussi o arroganze – e che questo comporta, oltre che leggi adeguate ed eque sentenze giudiziarie, soprattutto azioni positive e politiche pubbliche.

Il rapporto diretto con il territorio, in particolare con le istituzioni di governo locale, è essenziale non solo perché la gente deve avere, in quel luogo determinato, la possibilità reale di esercitare i propri diritti di cittadinanza, ma anche perché, soprattutto per quanto riguarda la dimensione europea della cittadinanza, le istituzioni governative regionali e locali sono formalmente obbligate ad attrezzare se stesse in modo tale da «creare e rafforzare il legame verticale tra cittadinanza europea e cittadinanza di Regioni e Comuni (Comitato delle Regioni dell’UE)»[9].

In Europa, i rami dell’albero della cittadinanza plurale sono le cittadinanze comunali, provinciali e regionali. L’interesse dei cittadini nei confronti delle istituzioni e delle politiche europee aumenta a patto che ci siano possibilità reali e canali atti a garantire la partecipazione politica popolare. Secondo il citato Comitato delle Regioni «la cittadinanza europea rappresenta in larga misura un’estensione della cittadinanza delle regioni e dei comuni», in particolare quella parte della cittadinanza europea che prevede il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni del comune di residenza. 

A scopo educativo giova sottolineare che le Regioni e i Comuni, in quanto genuinamente «territorio» ma non «confine», hanno un’intrinseca vocazione alle relazioni transnazionali, e come tali costituiscono terreno fertile per sviluppare una medesima identità inclusiva e pacifica all’interno e al di fuori delle proprie giurisdizioni domestiche: «La cittadinanza europea non può e non deve essere asserita e sviluppata senza prima prendere in considerazione altri tipi di cittadinanza. Il successo della cittadinanza europea dipende in larga misura da quanto sarà integrata nelle attuali strutture civili, politiche e democratiche e dalle misure che saranno adottate dalle amministrazioni locali e regionali»[10]. Questa prospettiva apre la strada alla messa in opera di un’alleanza strategica tra le autorità locali, le organizzazioni della società civile e gli attori dei processi educativi e formativi. 

Come già prima accennato, l’attuale crisi della democrazia, che alcuni vogliono dissennatamente esportare anche con i bombardamenti, è in gran parte dovuta al fatto che le problematiche legate alle articolazioni partecipative e rappresentative della democrazia sono affrontate facendo riferimento unico allo «spazio» dello Stato-nazione, ignorando il fatto che viviamo in una dilatata realtà politica all’interno della quale decisioni di enorme portata sono prese, in via sia trasparente sia opaca, al di fuori e al di là di questo spazio ormai insufficiente. Dal momento che le istituzioni di governo locale sono obbligate, per loro stessa natura, ad affrontare direttamente problematiche che attengono all’agenda politica dell’ordine mondiale, esse sono pienamente legittimate a rivendicare e a svolgere un più visibile ruolo negli affari internazionali. Essendo più vicine di altre istituzioni ai bisogni vitali dei cittadini, le autorità locali non possono non svolgere un ruolo di protagoniste nel gioco della sussidiarietà. In presenza dei processi in corso di globalizzazione e trans-nazionalizzazione, perché sia efficace questo gioco deve avere luogo nello spazio mondiale in cui le istituzioni multilaterali costituiscono il polo più alto della sussidiarietà. Ne discende che le comunità politiche locali hanno un interesse cruciale a rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite, l’Unione Europea e altre legittime istanze multilaterali, condividendo questi stessi obiettivi con le ONG e i movimenti sociali transnazionali di società civile globale. Riuscire a ottenere uno spazio più adeguato all’interno di queste istituzioni costituisce un obiettivo fondamentale di quel movimento in crescita che va sotto il nome di diplomazia delle città (city diplomacy), necessario per la salute istituzionale sia delle autorità locali sia delle organizzazioni multilaterali[11]. È opportuno a questo punto citare il caso dell’Italia, visto che i nuovi statuti di cui si sono dotati migliaia di Comuni e Province, prevedono la cosiddetta «norma pace diritti umani» in base alla quale «il comune X (o la provincia X), in coerenza con i principi costituzionali che sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e conformemente ai principi del Diritto internazionale dei diritti umani, riconosce la pace quale diritto fondamentale della persona e dei popoli. A questo scopo si impegna a porre in essere iniziative e cooperare con le organizzazioni della società civile, scuole e università». Questa interessante esperienza di inculturazione costituzionale, che per la sua rilevanza giuridica e politica rimane tuttora unica al mondo, ha preso avvio nel 1991-1992, quando i Comuni e le Province, grazie a una legge nazionale, hanno potuto godere di una maggiore autonomia. Dal canto loro, numerose Regioni italiane hanno adottato leggi regionali «per la promozione dei diritti umani, della pace e della cooperazione allo sviluppo, da realizzarsi in collaborazione con scuole, università e organizzazioni non-governative». Esempio trainante è quello della Regione Veneto che, nel 1988, ha anticipato, con la prima legge regionale in materia, l’azione statutaria in redi Comuni e Province[12]. In virtù della norma «pace diritti umani», i Comuni e le Province italiane si impegnano formalmente a rispettare i principi della Carta delle Nazioni Unite, in particolare l’art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani che proclama il diritto di ogni essere umano a «un ordine sociale e internazionale all’interno del quale tutti i diritti e le libertà enunciati nella Dichiarazione possono essere pienamente realizzati». 

Il fatto stesso di assumersi una responsabilità «globale» ben si coniuga con la natura più profonda del governo locale in quanto, come prima sottolineato, territorio, ma non confine. A giusto titolo si può dunque parlare di diplomazia della città come quella che comprende iniziative concrete, in modo particolare le politiche pubbliche che contribuiscono alla costruzione della pace interna e internazionale, cioè alla good global governance secondo il citato art. 28 della Dichiarazione universale. Il profilo politico sempre più alto di questo impegno istituzionale, oltre che il suo impatto educativo per l’esercizio della cittadinanza attiva, è di tutta evidenza: le autorità locali sono coinvolte direttamente nel promuovere e consolidare l’effettività degli strumenti giuridici internazionali relativi ai diritti umani. 

Il primo supporto a questa intrapresa dovrebbe venire proprio dal basso, perseguendo gli obiettivi della «città inclusiva», cioè offrendo a tutti coloro che vivono nella città pari opportunità nel far valere tutti i diritti umani (civili, politici, economici, sociali e culturali) nonché canali e mezzi per la partecipazione politica. L’obiettivo è di soddisfare, in modo coerente, i requisiti appunto della cittadinanza che definiamo appunto plurale e democratica[13]. Preso atto dell’esperienza fallimentare della cooperazione allo sviluppo quale centralizzata, anzi monopolizzata dai governi degli Stati, è oggi assolutamente necessario che la mobilitazione e l’impiego di maggiori risorse umane e materiali avvenga nel quadro di una cooperazione diretta tra le città. Partendo dall’assunto che la genuina cooperazione allo sviluppo costituisce un elemento essenziale della buona global governance, è dato prevedere che il profilo «politico» della cosiddetta cooperazione decentralizzata non potrà che aumentare. Sempre in questo contesto, è utile conoscere che la rete delle «Città per i diritti umani» si sta sviluppando in tutta Europa a seguito dell’adozione della «Carta europea dei diritti umani» avvenuta a Saint Denis nel 2000. Lo scopo di questa virtuosa iniziativa sta nel rendere più efficace la traduzione del contenuto degli strumenti giuridici internazionali sui diritti umani nella realtà quotidiana delle comunità locali (les droits humains dans la rue – los derechos humanos en la calle – human rights in the street). 

Per poter svolgere funzioni di positive peace-building dal basso verso l’alto fino alle Nazioni Unite, le autorità locali devono essere consapevoli di quanto sia efficace il soft power, fatto di dialogo, di partecipazione e di aderenza ai bisogni vitali della gente, e di quanto utilizzandolo si rafforzino l’identità e l’impatto dell’Unione Europea quale attore civile globale dotato appunto, in misura considerevole, di quello stesso soft power[14]. 

Per quanto in particolare concerne lo spazio europeo, dovremmo renderci conto che la pratica della cittadinanza deve maturare, come prima accennato, nel contesto di un processo continuo di institution building, cioè in un laboratorio le cui istituzioni politiche hanno ancora poche e relativamente deboli capacità simboliche di identificazione mentre il processo decisionale di vertice e tecnocratico prevale tuttora ampiamente sulla partecipazione popolare. È pertanto necessario sviluppare tra i cittadini, quale elemento di identificazione e di appartenenza, quello che definirei come lo «spirito costituente»: in altri termini, il senso delle responsabilità condivise nel costruire ciò che è importante e utile per tutti. Per alimentare questa tensione strategica, è ancora una volta utile mantenere vivi i rapporti tra le istituzioni sopranazionali e le istituzioni dei governi locali e regionali che, come ripetutamente sottolineato, svolgono un ruolo importante al di fuori dei loro territori e al di là dei confini nazionali, in ambiti come la cooperazione allo sviluppo, gli scambi culturali, la solidarietà internazionale e gli aiuti umanitari. 

Ma l’orizzonte per la cittadinanza plurale attiva è ancora più ampio di quello europeo, è lo spazio mondiale dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, i cui punti focali istituzionali sono le Nazioni Unite e il sistema delle loro agenzie specializzate. Anche questo spazio è un cantiere evolutivo di institution building, comprensibilmente più complesso rispetto al laboratorio della polity europea. C’è da sottolineare che, per quanto riguarda in particolare i simboli di identificazione, gli ideali dell’ONU continuano a dimostrarsi più attraenti di quelli dell’Unione Europea, soprattutto in quegli ambienti di società civile che sono sensibili all’agenda politica, in particolare alla tematica della costruzione di un ordine mondiale più giusto, pacifico e democratico. Come collegare il cantiere europeo con il cantiere dell’ordine mondiale? Nel mondo interdipendente e globalizzato, alla ricerca di governance efficace, trasparente e solidaristica, l’Unione Europea è riconosciuta in tutto il mondo come un modello di peace-building e di sviluppo umano, nonostante le sue non poche criticità. In quanto attore «civile» all’interno del sistema internazionale, l’UE ha l’enorme responsabilità di essere protagonista democratico nella costruzione di quell’ordine mondiale il cui DNA è nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale. Oltre che caratterizzarsi per l’originalità della sua architettura istituzionale e per aver conseguito l’obiettivo di una pace duratura tra gli Stati e tra i popoli europei, l’Europa può effettivamente offrire al mondo l’esempio di un bacino ricco e fertile di risorse umane: intendo riferirmi alla miriade di strutture di società civile e di istituzioni di governo locale, un enorme patrimonio creativo orientato alla pace e al rispetto dei diritti umani. 

Per coloro che vivono in Europa, la duplice consapevolezza di ciò che fa l’UE in termini di costruzione della pace nel sistema mondiale e della loro identità primaria di cittadini universali, dovrebbe portare a sviluppare velocemente l’identità complementare di cittadini europei insieme con un genuino senso di appartenenza alla comunità politica europea. 

Ai fini dell’impegno educativo, giova ribadire che è necessario trasmettere dati cognitivi soprattutto per quanto attiene al sistema mondiale della politica e dell’economia, alla legalità internazionale, alle Nazioni Unite, alla sicurezza collettiva e allo sviluppo umano, a modi e metodi della democratizzazione delle istituzioni e della politica internazionali, al diritto penale internazionale, alle operazioni di pace, ai principi della giustizia sociale ed economica. Anche in questo caso l’approccio non potrà che essere orientato all’azione, tenendo in considerazione il fatto che anche nel macro spazio mondiale ci sono opportunità reali per ruoli di cittadinanza attiva, soprattutto lavorando con le organizzazioni non-governative e i movimenti sociali transnazionali. «Democrazia internazionale» ed «Economia di giustizia» stanno infatti sempre più diffusamente mobilitando queste formazioni di società civile globale.

6. Conclusioni: verso un’identità civica trascendente (transcend civic identity)

Il tema del dialogo interculturale, collocato nel suo naturale contesto globale e transnazionale, è dunque strettamente interconnesso con quello della cittadinanza, cioè con la pratica della democrazia. Medesima è la radice morale e giuridica dei diritti umani. C’è anche una funzione strumentale di questo paradigma, nel suo porsi quale codice di simboli comunicativi, cioè quale strumento transculturale che facilita il passaggio dalla condizione potenzialmente conflittuale della multiculturalità allo stadio dialogico della interculturalità. Ma il dialogo potrebbe anche limitarsi a uno scambio di informazioni, a uno scambio vicendevole di immagini e di stereotipi. Questo è certamente un requisito essenziale ma non sufficiente a raggiungere lo scopo principale che è l’inclusione di tutti nella comunità politica per godere di diritti fondamentali uguali per tutti. La risposta giusta alla domanda «a cosa serve il dialogo interculturale?» è: il dialogo serve per lavorare assieme, per immaginare e realizzare progetti comuni per obiettivi di bene comune[15]. 

Per essere proficuo, il dialogo tra i singoli e tra i gruppi portatori di culture diverse deve avvenire tra pari, altrimenti si darebbe luogo ad altri tipi di interazione, per esempio a omologazioni deliberate da una parte o dall’altra. La parità, nel nostro caso, sta nella condivisa consapevolezza dell’uguaglianza ontica degli esseri umani così come esplicitamente assunto e sottolineato dal Diritto internazionale e dalla dottrina ortodossa dei diritti umani. Gli «eguali» sono gli originari titolari della cittadinanza universale. Il dialogo cui siamo interessati dovrebbe avvenire nel contesto della vita di tutti i giorni. 

Se partiamo dal paradigma dei diritti umani, il dialogo deve condursi non tanto su principi astratti – l’educazione dovrebbe svolgere un ruolo essenziale per favorire l’interiorizzazione dei valori – quanto soprattutto su come tradurre i principi in comportamenti e politiche e cioè su quanto andrebbe fatto assieme – da eguali – all’interno della stessa comunità politica. Come detto prima, il dialogo deve essere orientato a comuni obiettivi concreti (goal oriented) più che alla comparazione di stili di vita (comparison oriented). Il comune obiettivo strategico è la costruzione e lo sviluppo della città inclusiva risultante dal contributo delle varie culture. Il fertilizzante di questo processo di inclusion-building è, giova ribadirlo opportune et inopportune, il paradigma dei diritti umani. 

Ancora una volta, poniamo l’enfasi sul fatto che la cultura e la strategia dell’inclusione sono in relazione diretta rispetto sia alla pace interna (coesione sociale) che alla pace internazionale, le quali sono le due facce della stessa medaglia. Insomma, la città inclusiva costituisce il terreno fertile per la costruzione di un mondo giusto e pacifico. 

Prima dell’avvento del Diritto internazionale dei diritti umani, la cittadinanza si caratterizzava essenzialmente per essere nazionale, unilateralmente octroyée dallo Stato e basata sullo ius sanguinis o sullo ius soli, in un’ottica di distinzione-separazione degli esseri umani, in breve ad alios excludendos. 

Si è prima sottolineato che siamo in una fase avanzata di plenitudo iuris, la civiltà della pienezza umanocentrica del diritto, i cui principi postulano la plenitudo civitatis, la pienezza della cittadinanza. La dignità umana è il valore centrale della plenitudo iuris, che significa eguale dignità di tutti i membri della famiglia umana. La piena cittadinanza si raggiunge quando il relativo statuto a livello nazionale e subnazionale diventa istituzionalizzato a partire dallo statuto giuridico di «persona umana» internazionalmente riconosciuto. 

La «nuova» cittadinanza è forgiata su questo statuto ed è quindi fondamentalmente universale, in una logica ad omnes includendos, quindi articolata al plurale, nel senso che la dimensione universale non cancella le cittadinanze particolari ma apre invece all’esperienza di un’identità più riccamente articolata. La cittadinanza universale non è octroyée, e le cittadinanze particolari (i rami dell’albero) devono essere disciplinate nel rispetto dei contenuti della cittadinanza universale (il tronco e le radici dell’albero). 

Questo significa che il parametro dello ius humanitatis deve prevalere sui parametri tradizionali dello ius soli e dello ius sanguinis, rendendoli complementari al primo e funzionali rispetto all’esercizio armonioso delle identità. Anche per l’identità dei singoli cittadini universali vale l’espressione «uniti nella diversità»: in questo caso «unità» significa identità onticamente eguale di tutti i «membri della famiglia umana» che si arricchisce e si sviluppa in differenti contesti culturali e istituzionali. La cittadinanza universale riassume e armonizza le cittadinanze anagrafiche, e la città inclusiva è il luogo che favorisce questo processo, quindi la cittadinanza plurale postula la città inclusiva, e viceversa.

Nella città inclusiva, in particolare attraverso il dialogo interculturale, la dinamica evolutiva della/delle identità si sviluppa in direzione di una «identità civica trascendente», un’identità superiore o, se si vuole, un superiore grado di consapevolezza civica che è autenticamente laica perché è universalistica, trans- e meta-territoriale, e transculturale. Questa transcend civic identity è la plenitudo iuris così come viene interiorizzata e vissuta dai singoli, un’identità che è aperta alla condivisione di responsabilità appunto nella città inclusiva, nell’Unione Europea inclusiva, nelle Nazioni Unite inclusive. 

La pratica della nuova cittadinanza in associazione con l’impatto del necessario dialogo interculturale finalizzato all’inclusione democratica, può rivitalizzare la sfera pubblica nell’aggiornata ottica di governance a più livelli e sopranazionale. Questo tipo di architettura politica è coerente con il bisogno di garantire i diritti di cittadinanza universale nello spazio dilatato politico che le è congruo. Ed è, infatti, la «fenomenologia del plurale» della cittadinanza, del dialogo e dell’inclusione che obbliga le istituzioni a ridefinirsi in base al telos, quindi ad aprire e sviluppare canali multipli di rappresentanza e di partecipazione democratica a tutti i livelli, dalla città all’ONU. 

Alla luce dell’identità civica trascendente dei propri cittadini, l’Europa è sollecitata a «trascendere» la parte negativa della sua identità storica di «Occidente», cioè di potenza egemone, di «conquista», di colonialismo, di guerre mondiali. Per «trascendere», l’Europa deve ridefinirsi sulla scorta della parte positiva della sua identità storica, quale bacino di menti che hanno riflettuto e creato sul significato di universale, una comunità politica europea che si presenta al mondo come un laboratorio inclusivo all’interno del proprio territorio e come attore d’inclusione a livello mondiale.


[1] A. Papisca, L’internazionalizzazione dei diritti umani. Verso un diritto panumano, in C.Cardia (ed.), Anno Duemila, primordi della storia mondiale, Milano, Giuffré, 1999, pp. 139-167.

[2] J. Maritain, Man and the State, Chicago, Chicago University Press, 1951.

[3] H. Gross Espiel, Il diritto alla pace, in «Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli», s. II, n. 1, 1988, pp. 15-30; D. Roche, Human Right to Peace, Toronto, Novalis Press, 2003; A. Papisca, The Nightmare of an Armed Multilateralism à la carte Urges for a UNESCODeclaration on the Human Right to Peace, in European University Center for Peace Studies - EPU (ed.), Collection of 100 Study Papers and Essays, 2001-2005, of UNESCO Chairs in Human Rights, Democracy, Peace and Tolerance, Stadtschlaining, EPU, 2006, pp. 289-297.

[4] Risoluzione UN-GA 32/130 del 16 dicembre 1977, che afferma (par. 1): «a) Tutti i diritti umani e le libertà fondamentali sono indivisibili e interdipendenti; è necessario dedicare uguale e urgente considerazione all’attuazione, promozione e tutela dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali; b) la piena realizzazione dei diritti civili e politici senza godimento di diritti economici, sociali e culturali è impossibile; il conseguimento di un progresso duraturo nell’attuazione dei diritti umani dipende da politiche nazionali e internazionali stabili ed efcaci nel campo dell’economia e dello sviluppo sociale, come riconosciuto dal Proclama di Teheran nel 1968». Questo principio, che ottempera ai requisiti di «integrità» dell’essere umano, è incluso nella Dichiarazione sui diritti umani di Vienna del 1993.

[5] In tema di «sicurezza umana» vedi S. Alkire, Concept of Human Security, in L.C. Chen, S. Fukuda-Parr, E. Seidensticker (eds.), Human Security in a Global World, Cambridge, Harvard University Press, 2003, pp. 15-40; J.P. Burgess, T. Owen (eds.), What Is HumanSecurity?, in «Special Section, Security Dialogue», vol. 35, n. 3, 2005, pp. 345-372; R. Pettman, Human Security as Global Security: Reconceptualising Strategic Studies, in «Cambridge Review of International Affairs», vol. 18, n. 1, 2005, pp. 137-150. Vedi anche il Rapporto del Segretario generale dell’ONU, In Larger Freedom: Towards Development, Security andHuman Rights for All, marzo 2005.

[6] A. Papisca, Reforming the United Nations by the Convention Method: Learning from the European Union, in «The Federalist Debate», vol. XIX, n. 1, 2006, pp. 8-12.

[7] Lo «European Master in Human Rights and Democratisation», E.MA, avviato nel 1997, sotto la supervisione del Centro per i diritti umani dell’Università di Padova in collaborazione con 10 università europee, rappresenta un efficace e positivo esempio di «investimento infrastrutturale» della Commissione europea. Le università partner sono divenute oggi 39. In collegamento con lo E.MA, nel 2003 è stato formalmente costituito lo «European Inter-University Centre for Human Rights and Democratisation» (EIUC), un’associazione di università che gode di personalità giuridica, con sede a Venezia. L’EIUC è ora formalmente incluso nel Regolamento 1889/2006 del dicembre 2006 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione «sulla istituzione di uno strumento finanziario per la promozione della democrazia e dei diritti umani in tutto il mondo» (vedi il punto 21 e l’art. 13e). Per altre informazioni sui primi sei anni di attività di questa istituzione accademica interuniversitaria, vedi A. Papisca, M. Nowak, H. Fischer, Curriculum Development and Academic Institution Building in the European Union: The Experience of the European Master in Human Rights and Democratisation, EMA, in «Pace diritti umani/Peace human rights», s. I, n. 3, 2004, pp. 123-146.

[8] H. Anheier, M. Glasius, M. Kaldor (eds.), Global Civil Society 2003 Yearbook, Oxford, Oxford University Press, 2003; C. Alger, The Emerging Roles of NGOs in the UN System: From Article 71 to a People’s Millennium Assembly, in «Global Governance», n. 1, 2002, pp. 93-117; M. Mascia, La società civile nell’Unione Europea. Nuovo orizzonte democratico, Venezia, Marsilio, 2004.

[9] Parere del Comitato delle Regioni dell’UE sul tema Cittadinanza europea, 2000/C156/03.

[10] Ibidem.

[11] Il 14 maggio 1999, è stato costituito presso le Nazioni Unite il Comitato consultivo delle autorità locali, UNACLA, con l’obiettivo primario di rafforzare il dialogo tra governi centrali e autorità locali in relazione all’attuazione dell’Habitat Agenda. Si sta nel frattempo sviluppando un movimento transnazionale per la promozione della «diplomazia delle città» il cui organismo guida è il Comitato «City Diplomacy» dell’Associazione mondiale delle città e dei governi locali (UCLG), ONG con status consultivo presso l’ECOSOC. Il Comitato è gestito dall’Associazione degli enti locali dei Paesi Bassi, VNG, con sede a L’Aia. Molte associazioni nazionali e transnazionali partecipano attivamente a questa rete, tra le altre il «Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani», con sede a Perugia. Il concetto di «diplomazia delle città» è in via di messa a fuoco in vari incontri e conferenze. «La diplomazia delle città è lo strumento dei governi locali e delle loro associazioni per supportare i governi locali in guerra grazie a una cooperazione tangibile e concreta da città a città con l’obiettivo di creare un ambiente stabile all’interno del quale i cittadini possano vivere assieme in pace, democrazia e prosperità»: questa è la definizione provvisoria formulata dalla Working Conference promossa dalla ONG «United Cities and Local Government» a Perugia il 6-7 ottobre 2006. In materia è opportuno citare anche la Dichiarazione sulle città e altri insediamenti umani nel nuovo millennio (Risoluzione S-25/2), approvata dall’Assemblea generale ONU, il 9 giugno 2001.

[12] Sull’argomento, sono state curate varie pubblicazioni dal Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova. In particolare: G. Lombardi, P. Merlo, M. Mascia, Pace e diritti umani negli Statuti comunali: il caso della Regione Veneto, Padova, CEDAM, 1997; La politica della Regione del Veneto per la pace. I diritti umani e la cooperazione allo sviluppo, Padova, CLEUP, 2005. Vedi anche l’opuscolo Pace, diritti umani e cooperazione decentrata in Italia: le leggi regionali, Padova, Centro Diritti Umani, 2005.

[13] Il tema dell’«inclusione» e della «città inclusiva» sono affrontati sempre più puntualmente da studiosi, centri di ricerca, autorità locali, associazioni di autorità locali, ONG, movimenti sociali transnazionali. La bibliografia si allunga di giorno in giorno, alcune indicazioni: UNCHS (Habitat), Cities in a Globalising World, Global Report on Human Settlements 2001, Earthscan Publications, London, 2001; AITEC, Rapport introductif sur la ville inclusive, Quatrième Forum International sur la Pauvreté Urbaine, Marrakech 16-19 octobre 2001. Si veda inoltre «Inclusive Cities Canada: A Cross-Canada Civic Initative», ICC, Social Planning Council of Ottawa, Our Homes, Our Neighbourhoods: Building an Inclusive City, Report on the Community Forum (20 September 2003).

[14] J.S. Nye jr., Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004.

[15] L’approccio action-oriented policy-oriented è comune alle conferenze organizzate dalla Commissione europea sul tema del dialogo interculturale in collaborazione con le reti del «Programma Jean Monnet» e l’«European Community Studies Association», ECSA-World. Materiali preziosi sono contenuti nei volumi a cura della Commissione europea, Direzione generale istruzione e cultura: Intercultural Dialogue/Dialogue interculturel (Bruxelles, 20-21 marzo 2002); Dialogue between Peoples and Cultures: Actors in the Dialogue/Dialogue des peuples et des cultures: les acteurs du dialogue(Bruxelles, 24-25 maggio 2004).

Parole chiave

cittadinanza pace diritti umani

Percorsi

Centro diritti umani