COVID-19

COVID-19 e limitazioni alla libertà di religione

Un mondo con scritto il termine "pace" in lingue differenti

La recente emergenza sanitaria legata alla diffusione del COVID-19 ha portato con sé numerose restrizioni dei diritti umani a livello globale. Uno tra i temi più delicati riguarda le limitazioni relative alla libertà di religione. L’opinione pubblica in molti paesi si è frammentata, in particolare per quanto riguarda la chiusura dei luoghi di culto per il contenimento del numero dei contagi. Tali misure sono previste dal diritto internazionale dei diritti umani, purché rispettino determinate condizioni.

La libertà di religione è uno dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale. L’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (DUDU), nella sua definizione di libertà di pensiero, coscienza e religione, include sia la libertà “di cambiare di religione o di credo”, sia quella di “manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell'insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell'osservanza dei riti”. Troviamo quindi una prima distinzione tra la libertà di credo in sé (forum internum) e la libertà di manifestare il proprio credo (forum externum). Una seconda distinzione riguarda invece il tipo di manifestazione, che può essere sia individuale che collettiva e può avvenire sia in pubblico che in privato. Queste distinzioni sono essenziali per comprendere le limitazioni di tale diritto.

Il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (ICCPR) riprende la definizione della DUDU, aggiungendo che “nessuno può essere assoggettato a costrizioni che possano menomare la sua libertà di avere o adottare una religione o un credo di sua scelta” (art. 18.2). La libertà di credo o di appartenenza religiosa non è quindi in nessun caso limitabile, come confermato dal General comment n. 22 (paragrafo 3) del Comitato Diritti Umani delle Nazioni Unite, e dall’articolo 1.2 della Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme d’intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo del 1981. Ciò che può invece essere sottoposto a restrizioni sono le manifestazioni della propria religione o credo, a condizione che tali restrizioni siano necessarie ad alcuni scopi, tra i quali la tutela della salute pubblica, secondo lo stesso articolo 18.3 ICCPR. Inoltre, il General comment n. 22 difende un’interpretazione ampia dell’articolo 18 dell’ICCPR, che protegge le credenze teiste, non-teiste e atee, senza limitarsi alle religioni tradizionalmente riconosciute. Tale interpretazione è sostenuta dall’attuale Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di religione e di credo, Ahmed Shaheed.

La pandemia COVID-19 offre quindi un chiaro esempio di un contesto in cui alcuni diritti umani possono subire limitazioni, compreso il diritto alla libertà di manifestare il proprio credo. Milioni di persone in tutto il mondo hanno dovuto cambiare, negli ultimi mesi, le proprie abitudini relative alle pratiche religiose. In molti Stati sono state approvate leggi che limitano le riunioni pubbliche e la libertà di movimento, influenzando inevitabilmente le pratiche religiose che prevedono lo spostamento e l’assembramento di persone, come spesso accade per la celebrazione di riti e di cerimonie religiose.

Il dato più evidente riguarda la chiusura o la sospensione dei riti dei luoghi di culto in diversi paesi. In alcuni casi, come in Francia, sono stati lasciati simbolicamente aperti, limitandone però le attività. Numerose moschee in tutto il mondo sono state chiuse, in alcuni casi trasmettendo un invito alla popolazione a rimanere a casa tramite l’adhan, il richiamo alla preghiera diffuso dai minareti. L’Arabia Saudita ha temporaneamente sospeso il pellegrinaggio minore (Umrah) alla Mecca, non solo per gli stranieri ma anche per gli stessi cittadini e residenti.

Ka'bah, Grande Moschea della Mecca, Arabia Saudita

La celebrazione dei riti cristiani è stata sospesa in diverse parti del mondo, non senza polemiche, come nel caso del Brasile, della Grecia e dell'Italia. In alcuni casi, le autorità stesse hanno rifiutato certi tipi di restrizioni, come nel caso del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e del presidente del Brasile Jair Bolsonaro.

Negli ultimi mesi, anche le celebrazioni di importanti festività religiose, come la Pasqua o l’Eid Al-Fitr di fine Ramadan, hanno subito cambiamenti radicali, così come la celebrazione di cerimonie religiose come i funerali (ad esempio in Sri Lanka e in Israele)

Proteste negli Stati Uniti per la chiusura delle chiese

Tali restrizioni vanno imposte nel rispetto delle condizioni stabilite dal diritto internazionale dei diritti umani. Gli Stati possono adottare misure che limitano alcune pratiche religiose ai fini della tutela della salute pubblica, a condizione che rispettino i requisiti di legalità, necessità, proporzionalità e non-discriminazione, come ricordato dall’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR). Quest’ultimo ha però espresso la sua preoccupazione di fronte all’applicazione di restrizioni dei diritti umani sproporzionate allo scopo. Il Relatore Speciale Ahmad Shaheed, in un report del 2017, sottolinea che le limitazioni devono essere l'eccezione, non la regola, mostrando l’esistenza di un problema relativo all’uso eccessivo di simili restrizioni, che non è nato con lo scoppio della pandemia, responsabile al massimo di un suo inasprimento.

Un’altra problematica emersa è quella dell’aumento dell’intolleranza religiosa legata alla pandemia. Il fenomeno è stato denunciato in più occasioni dal Relatore Speciale sulla libertà di religione e di credo, che ha osservato un grave incremento di episodi di intolleranza ed incitamento all’odio, già presenti in molti paesi. Il Relatore Speciale ha rilevato, in particolare, l’aumento di episodi di antisemitismo, e la diffusione di “teorie del complotto” sul presunto legame tra la popolazione ebraica e la pandemia. L’organizzazione non-governativa Human Rights Watch ha riportato episodi analoghi contro i musulmani in India, accusati di diffondere intenzionalmente il virus, retorica che ha portato ad aggressioni fisiche.

La Commissione statunitense sulla libertà di religione internazionale, ente indipendente del governo federale, ha condannato la stigmatizzazione delle minoranze religiose durante la pandemia di COVID-19 in una dichiarazione dell’8 aprile 2020, rilevando, ad esempio, casi di islamofobia legati alla colpevolizzazione della minoranza musulmana in Cambogia, oltre che in India. Pochi giorni prima, aveva denunciato in particolare il caso della minoranza hazara sciita in Pakistan, presa di mira in quanto presunta responsabile della diffusione del virus. La Commissione ha inoltre pubblicato una breve scheda informativa, selezionando alcuni paesi la cui risposta alla pandemia (da parte dei governi e non) ha portato a gravi conseguenze sulla libertà religiosa.

Lo scoppio della pandemia ha quindi portato con sé grossi cambiamenti per quanto riguarda le manifestazioni religiose, soprattutto nella loro natura pubblica e collettiva, seguiti da un ampio ventaglio di prese di posizione nei confronti delle limitazioni dei governi e delle autorità religiose. Allo stesso tempo, ha avuto come conseguenza un inasprimento delle tensioni interreligiose. Tali tensioni non sono nate con la diffusione del COVID-19 (come nel caso indiano), che le ha però amplificate.

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