Dialogo civile e società civile nell’Unione Europea
“Dialogo civile” è una di quelle espressioni che, insieme con “società civile”, ricorre sempre più frequentemente nel linguaggio degli ambienti politici, in particolare nel sistema dell’Unione Europea. Il tema è certamente collegato a quello, più generale e impegnativo, della democratizzazione delle istituzioni internazionali e dei relativi processi decisionali. In questo contesto, dialogo civile starebbe ad indicare la dimesione «partecipativa-popolare» della democrazia internazionale.
Di dialogo civile peraltro non esiste ancora una definizione che sia condivisa dalle istituzioni dell’Unione Europea. Allo stato attuale di prassi evolutiva ciò che si può dire, per esclusione, è che il dialogo civile non è un sistema formale di accreditamento delle organizzazioni di società civile (OSC) presso l’UE, assimilabile ai regimi di status consultivo delle ONG, e non rappresenta un’alternativa rispetto al «dialogo sociale» – per il quale, tra l’altro, sono espressamente individuati attori e competenze –, ma è assunto come complemetare sia al dialogo politico con le autorità nazionali ed europee sia al dialogo sociale tra le parti sociali.
Per le istituzioni UE, dialogo civile è il «dialogo strutturato e regolare tra l’insieme delle organizzazioni europee rappresentantive della società civile e l’Unione Europea», è «il dialogo settoriale quotidiano tra le organizzazioni della società civile e i loro interlocutori in seno ai poteri legislativo ed esecutivo» dell’Unione. In altre parole, è uno strumento per promuovere nella società civile europea un consenso diffuso e radicato nei riguardi del processo di integrazione europea e del suo sviluppo.
C’è comunque convergenza tra le istituzioni UE nel considerare il dialogo civile quale parte integrante del processo di «consultazione» nel sistema UE, come tale reputato necessario a soddisfare i principi generali di good governance, in particolare quelli della trasparenza e della partecipazione. Esso rappresenta la dinamica interattiva che si esprime in virtù della estesa e complessa rete di canali d’accesso che le sedi istituzionali dell’UE vanno via via rendendo disponibili alle organizzazioni della società civile.
Il dialogo civile può riguardare questioni «verticali» o «orizzontali» e quindi assumere la forma di dialogo generale oppure settoriale. Esso è inteso estendersi a tutti gli ambiti di intervento dell’UE, da quelli interni (politica sociale, protezione dei consumatori, mercato interno, politiche giovanili, ecc.) a quelli esterni (sviluppo sostenibile, aiuto umanitario, diritti umani, allargamento, commercio internazionale, politica estera e di sicurezza comune).
Sulla definizione di società civile, istituzioni e organi dell’Unione Europea non hanno ancora trovato un accordo tale da consegnarci un concetto univoco. Fa tuttavia obbligo segnalare che è in corso una riflessione sempre più puntuale in materia.
A supporto di questo lavoro di elucidazione, il CESE fornisce non una, ma più definizioni nel Parere che è da considerare come il più organico in re.
Una prima definizione è quella che identifica la società civile come
l’insieme di tutte le strutture organizzative i cui membri, attraverso un processo democratico basato sulla discussione e sul consenso, sono al servizio dell’interesse generale e agiscono da tramite tra i pubblici poteri e i cittadini.
Nello stesso atto formale, c’è poi una definizione che enfatizza la dimensione per così dire di socializzazione politica: la società civile organizzata è intesa come “un luogo per l’apprendimento collettivo”, come una “scuola di democrazia”, come un “processo culturale” che si fonda su principi quali il pluralismo, l’autonomia, la solidarietà, la partecipazione, l’educazione, la responsabilità, la sussidiarietà.
Una ulteriore definizione è quella che intende per società civile
un termine collettivo per tutti i tipi di azione sociale, realizzati attraverso individui e gruppi, che non sono l’emanazione dello stato e nemmeno un suo prolungamento. Ciò che caratterizza il concetto di società civile è la sua natura dinamica, il fatto che esso significhi sia situazione sia azione.
Il CESE fornisce infine il quadro delle “appartenenze” asserendo che “c’è accordo nel definire le ONG, le CBO (Community-Based Organisations, nella misura in cui si distinguono dalle prime) e le parti sociali come organizzazioni di società civile in senso ampio”.
Fuori di metafora dei cerchi concentrici, è evidente che siamo in presenza di un approccio ‘estensivo’ al tema della società civile, spiegabile anche in ragione del fatto che all’interno del CESE sono rappresentati oltre che gli interessi dei datori di lavoro e dei sindacati dei lavoratori, anche gli interessi cosiddetti ‘generali’, cioè una gamma praticamente illimitata di domande, aspirazioni, rivendicazioni e obiettivi.
Dal canto suo la Commissione, nel citato Libro Bianco sulla governance europea, definisce la società civile attraverso l’elencazione dei suoi “attori rappresentativi”:
organizzazioni sindacali e padronali, organizzazioni non governative, associazioni professionali, volontariato, organizzazioni di base, organizzazioni che coinvolgono i cittadini nella vita locale municipale con il particolare contributo delle chiese e delle comunità religiose.
In un documento successivo, ma coerentemente con l’ottica ampiamente inclusiva del Libro Bianco, la Commissione precisa che per organizzazioni della società civile devono intendersi “le principali strutture della società al di fuori degli organi governativi e della pubblica amministrazione, compresi gli operatori economici che generalmente non sono considerati come facenti parte del cosiddetto terzo settore o delle ONG”, il cui ruolo “nelle democrazie moderne è strettamente connesso col diritto fondamentale dei cittadini di formare associazioni per perseguire finalità comuni, come sancito dall’art.12 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE”.
E’ chiaro che la via prescelta dalla Commissione è ancor più ampia di quella imboccata dal CESE: alla fine, per essa è “civile” tutto ciò che non è “governativo” o “amministrativo”, a prescindere dunque da qualsiasi distinzione del tipo di interessi perseguiti.
Appare dunque evidente la tendenza delle istituzioni comunitarie a considerare attori del dialogo civile sia le associazioni che operano per fini solidaristici di servizio alla comunità – dunque le ONG comunemente intese - sia il settore privato che ha come fine il profitto.
Il proposito di ricomprendere quanti più attori non-statali possibili dentro la definizione di società civile è di per sé lodevole, esso potrebbe sottendere una felice tensione pedagogica da parte delle istituzioni europee e portare all’innesco di un esteso processo di fecondazione, o contaminazione valoriale, ad opera dei diritti umani, tale da arrecare grandi benefici alla coesione sociale ed economica, cioè in ultima analisi alla pace sociale nell’UE. Certamente, questo approccio contribuisce in via di principio a dare maggiore visibilità, se non anche forza per l’immediato, al polo funzionale della sussidiarietà.
Tuttavia occorre evitare che alla fine risulti intaccata l’identità che è costitutivamente propria degli attori della solidarietà, un’identità che è oggi riconoscibile e spendibile sul campo, in ogni parte del mondo, con l’acronimo ONG.