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Giustizia epistemica: la sfida globale per una scienza aperta a tutte e tutti

Giustizia epistemica: la sfida globale per una scienza aperta a tutte e tutti
© Foto creata con l’IA CoPilot

Il dibattito sulla libertà della ricerca scientifica attraversa oggi confini nazionali e ideologici. Questo tema parte da un grido d’allarme lanciato negli Stati Uniti per riflettere su questioni che toccano anche l’Europa e l’Italia: la politicizzazione del sapere, l’esclusione epistemica e il ruolo dell’educazione nel costruire una cittadinanza scientifica consapevole.

Mentre l’attenzione mondiale si concentra sugli effetti economici dei dazi e delle guerre commerciali, rischia di passare inosservato un allarme ben più profondo e strutturale: quello lanciato da circa 1.900 scienziati statunitensi, tra cui numerosi premi Nobel, contro le politiche dell’amministrazione Trump che – a loro dire – stanno minando gravemente l’autonomia della scienza e mettendo a rischio salute pubblica, economia e sicurezza nazionale. In una lettera aperta pubblicata su Scientific American e rivolta direttamente alla popolazione americana, i firmatari – membri delle National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine – parlano senza mezzi termini di un vero e proprio “assalto alla scienza”.

Il grido d’allarme non è retorico. Le decisioni prese nei primi mesi dell’amministrazione Trump – blocco delle comunicazioni con l’esterno, licenziamenti di massa, tagli ai finanziamenti delle agenzie federali, censura istituzionalizzata e nomine di figure ideologicamente ostili alla scienza – hanno colpito duramente istituzioni centrali come i National Institutes of Health (NIH), i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), la Food and Drug Administration (FDA) e la Environmental Protection Agency (EPA). Queste agenzie non sono solo colonne portanti del sistema scientifico e sanitario statunitense: svolgono un ruolo strategico a livello globale, stabilendo standard, producendo dati, offrendo orientamenti e finanziamenti che influenzano anche la ricerca e le politiche sanitarie di altri Paesi, inclusi molti Stati europei.

Il rischio più grande, secondo i ricercatori, è che venga compromesso il principio stesso di indipendenza scientifica, sostituito da una subordinazione a interessi politici e ideologici. Un principio che, se infranto, apre la porta alla disinformazione sistemica e all’arretramento su conquiste fondamentali per il benessere collettivo. Basta pensare a quanto ottenuto in campo medico negli ultimi decenni: dalla lotta all’HIV all’immunoterapia contro i tumori, fino al vaccino contro il COVID-19. Risultati resi possibili da un ecosistema di ricerca libero, cooperativo e fondato sull’evidenza.

La gravità dell’attacco emerge chiaramente anche dalla recente lettera di dimissioni di Peter Marks, direttore del Center for Biologics Evaluation and Research presso la FDA, il quale ha scritto: “È diventato chiaro che il Segretario non desidera né la verità né la trasparenza, ma piuttosto una conferma subordinata della sua disinformazione e delle sue bugie.” Una dichiarazione durissima, che mette in luce il livello di manipolazione a cui rischia di essere sottoposto l’intero apparato scientifico.

Tuttavia, questo clima di ostilità verso la scienza non è confinato agli Stati Uniti. Anche in Europa, seppure con forme più sottili e meno eclatanti, si osservano derive simili: pressioni politiche sui contenuti della ricerca, attacchi all’autonomia universitaria, tagli cronici ai finanziamenti pubblici e un crescente peso di narrazioni antiscientifiche nello spazio mediatico e politico. La pandemia ha agito da catalizzatore: se da un lato ha mostrato l’importanza della scienza, dall’altro ha alimentato sospetti, teorie complottiste e ostilità nei confronti di ricercatori e istituzioni scientifiche.

In Paesi come Ungheria e Polonia, per esempio, si sono verificati interventi diretti del potere politico sui programmi universitari, con la chiusura o riorganizzazione forzata di istituti considerati “ideologicamente scomodi”. In Italia, negli ultimi anni, si è assistito a un indebolimento sistemico del sistema ricerca: il sottofinanziamento strutturale, la precarietà diffusa tra i giovani ricercatori, e la crescente difficoltà di attrarre cervelli dall’estero rappresentano una minaccia silenziosa ma costante all’eccellenza scientifica.

Nel contesto italiano, si apre inoltre una riflessione sempre più urgente attorno alle Linee guida nazionali per l’insegnamento dell’educazione civica, che includono anche la cittadinanza scientifica come uno dei tre assi portanti. Queste indicazioni, pensate per promuovere una cittadinanza consapevole e informata, intendono valorizzare il ruolo della scienza come strumento di comprensione del mondo e di partecipazione democratica. Tuttavia, nella loro applicazione concreta, rischiano talvolta di proporre una visione parziale e semplificata della scienza, presentandola come un insieme di verità oggettive, lineari e indiscutibili, prive di conflitti, dubbi o contesti storici e sociali.

Questo approccio, se non viene bilanciato da un’adeguata riflessione critica ed epistemologica, finisce col riprodurre una concezione monolitica e occidentalocentrica della conoscenza scientifica. Si tende cioè a considerare “scientifico” solo ciò che risponde a determinati metodi, paradigmi o linguaggi sviluppati prevalentemente in Europa e nel Nord del mondo, a partire dal periodo illuminista. La domanda, allora, non è solo “che cosa è scientifico?”, ma anche “per chi lo è?”, “a vantaggio di chi?”, “in quale contesto di potere?”

Di conseguenza, si marginalizzano o ignorano altri modi di conoscere, altre tradizioni intellettuali e culturali – come quelle indigene, femministe, decoloniali o comunitarie – che pure producono saperi validi e trasformativi, ma che non rientrano nei canoni dominanti. La scuola – anche involontariamente – rischia così di trasmettere una visione gerarchica e selettiva del sapere, dove alcune forme di conoscenza sono legittimate e altre escluse.

Si parla poco, ad esempio, del ruolo che il colonialismo storico ha avuto nella costruzione delle scienze moderne, o del fatto che molte scoperte si sono sviluppate grazie all’appropriazione – spesso forzata – di risorse, informazioni e tecniche provenienti da altri popoli e contesti culturali. Allo stesso modo, si sottovaluta la componente patriarcale che ha a lungo escluso le donne (e ancora oggi limita molte voci femminili) dalla piena partecipazione alla produzione scientifica.

Come afferma il sociologo Boaventura de Sousa Santos, “non c’è giustizia sociale senza giustizia epistemica”. È dunque fondamentale, anche nell’ambito educativo, promuovere una cultura scientifica plurale, inclusiva e autocritica, capace di interrogarsi non solo su cosa insegna, ma anche su come lo insegna e da dove proviene ciò che viene considerato sapere legittimo.

In questa prospettiva, parlare di cittadinanza scientifica significa anche educare gli studenti a riconoscere i rapporti di potere che attraversano il sapere, a decostruire la presunta neutralità della scienza, e a sviluppare uno sguardo critico e situato, capace di valorizzare epistemologie alternative e prospettive storicamente marginalizzate.

Solo così sarà possibile formare cittadine e cittadini davvero consapevoli, capaci non solo di “applicare” la scienza, ma anche di partecipare attivamente alla sua evoluzione, chiedendosi chi ne beneficia, chi ne è escluso e in che modo possa contribuire a costruire un futuro più giusto, inclusivo e sostenibile.

Il colonialismo epistemico e l’occidentalismo restano ferite aperte nel mondo della ricerca: interi saperi, tradizioni e modalità di pensiero non occidentali vengono ancora oggi esclusi o delegittimati. Le dinamiche di potere che hanno segnato la storia coloniale continuano ad agire, spesso in modo invisibile, anche nella costruzione della “scienza ufficiale”, che tende a privilegiare punti di vista eurocentrici, maschili e settoriali.

Questa erosione della fiducia pubblica nella scienza – alimentata da fake news, polarizzazione e sfiducia nelle istituzioni – rappresenta una sfida democratica e culturale globale. Ma anche un’opportunità. Molte agenzie internazionali – dall’UNESCO alla Commissione Europea – promuovono oggi il paradigma dell’open science, chiedendo una trasformazione della scienza in senso partecipativo, trasparente e orientato alla giustizia sociale e ambientale, in linea con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030.

La ricerca scientifica non è un privilegio di élite, ma un bene comune. La sua indipendenza, pluralità e accessibilità non sono negoziabili se vogliamo affrontare con serietà le sfide globali: dal cambiamento climatico alla salute pubblica, dalla transizione energetica alla lotta contro le disuguaglianze.

Il messaggio lanciato dai 1.900 scienziati americani, dunque, ha valenza universale. È un invito urgente a ripensare il ruolo della conoscenza nella società contemporanea. Vogliamo una scienza libera, trasparente, aperta e pluralista? Oppure vogliamo mantenerla subordinata a interessi politici, economici o culturali dominanti?

Servono scelte politiche coraggiose, un maggiore dialogo tra scienza e società, e una rinnovata alleanza tra istituzioni, mondo educativo e cittadinanza attiva. Solo così potremo costruire una società capace di affrontare il futuro con lungimiranza, giustizia e resilienza.

E il primo passo, oggi più che mai, è non restare indifferenti.

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scienza educazione giustizia libertà