Convenzione Europea dei Diritti Umani

Luxemburgo locuto, causa finita? La Corte di giustizia dell’UE dice no al progetto di accordo per l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti umani

Una moltitudine di colori formata dalle bandiere al Parlamento Europeo di Strasburgo
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Introduzione

La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha imposto uno stop al processo di adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti umani. Ora gli Stati parte della Convenzione e l’Unione dovranno rinegoziare un nuovo accordo di adesione che tenga in considerazione i rilievi critici segnalati dalla Corte. Questi ultimi però sono talmente profondi che appare abbastanza probabile non possano essere superati se non mettendo mano agli stessi trattati istitutivi dell’Unione. In ogni caso, sembra che il parere emesso dalla Corte sia destinato a pesare a lungo sulle prospettive di adesione – analogamente a quanto è accaduto con il precedente parere, sempre negativo, dato dalla stessa corte sullo stesso argomento nel 1996 (parere 2/94). L’impressione è che la Corte abbia perso l’occasione di riconoscere anche nel quadro del diritto dell’Unione il ruolo specifico che la tutela dei diritti umani internazionalmente riconosciuti riveste negli ordinamenti giuridici degli Stati, una specificità che giustifica il riconoscimento della funzione di controllo sul rispetto di tali standard attribuita ad organismi esterni, quali in particolare la Corte europea dei diritti umani.

  

Antefatto

Dopo tre anni di negoziati, nella primavera del 2013 l’Unione Europea (UE) e il Consiglio d’Europa (CdE) e i rispettivi stati membri erano giunti a elaborare un progetto di accordo sull’adesione dell’UE alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del CdE, nonché ai suoi Protocolli n. 1 e 6 (si tratta dei Protocolli che sono al momento stati ratificati da tutti i 28 Stati membri dell’UE). Il progetto di accordo (contenuto nel quinto e ultimo rapporto al Comitato di pilotaggio per i diritti umani del CdE: documento 47+1(2013)008rev2), corredato con vari altri documenti e una relazione esplicativa, costituisce un testo di notevole complessità e molto articolato, che peraltro non esaurisce la gamma di atti che saranno necessari per il pieno adeguamento degli ordinamenti di tutti gli Stati interessati all’operazione, nonché per riallineare i metodi di lavoro della Corte europea dei diritti umani (CtEDU) e dei vari organi dell’UE e del CdE coinvolti dal nuovo assetto.

L’adesione dell’UE alla CEDU, di cui si discute da oltre vent’anni, è oggi prevista dall’art. 6.2 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), così come introdotto dal Trattato di Lisbona in vigore del 2009 (“L’Unione aderisce alla [CEDU]. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati“). Ulteriori precisazioni in merito a tale adesione sono state introdotte nel Protocollo n. 8 al TUE. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), entrata in vigore contestualmente al trattato di Lisbona, è stata emendata in previsione della prevista adesione dell’UE alla CEDU. Anche quest’ultima, infine, negli anni recenti, ha subito alcuni emendamenti minori proprio in previsione della futura adesione dell’UE.

Prima di sottoporre la bozza di accordo al Consiglio per la sua approvazione e l’autorizzazione (tramite decisione da adottare all’unanimità) alla firma dello stesso, per poi passare alla fase delle ratifiche da parte degli Stati membri, l’Unione Europea in sede di negoziato ha precisato che sarebbe stato richiesto un parere alla Corte di giustizia dell’UE (CGUE) in merito alla compatibilità tra il progetto di accordo e i trattati. La richiesta di parere è stata quindi depositata presso la CGUE il 4 luglio 2013. Le conclusioni dell’Avvocato generale davanti alla CGUE sono state di segno favorevole, pur indicando una serie di raccomandazioni per superare alcuni punti critici.

Il parere è stato emesso dalla CGUE il 18 dicembre 2014 – ed è negativo: il progetto di accordo è risultato in più punti incompatibile con i trattati istitutivi, ovvero con il quadro costituzionale dell’UE.

La Commissione, naturalmente, sosteneva la compatibilità del progetto di accordo – che essa aveva in prima persona contribuito a elaborare per conto dell’Unione – con il diritto dell’UE. 24 Stati membri dell’UE avevano sostanzialmente appoggiato la posizione della Commissione, difendendo la bozza di accordo a cui erano pervenuti in dialogo con gli altri Stati del CdE; sostegno era stato espresso anche dagli agenti del Parlamento e del Consiglio.

Quali sono i punti del progetto di accordo di adesione alla CEDU che la CGUE ha rilevato essere incompatibili con i trattati?

 

Il diritto dell’UE non può deflettere dalla propria natura - Luxemburgum caput mundi

Dopo aver illustrato i termini del quesito sottopostole dalla Commissione e dopo avere estesamente riportato le considerazioni svolte dalla Commissione stessa e dagli Stati membri a sostegno della compatibilità della bozza di accordo con il diritto dell’UE, la CGUE inizia, al paragrafo 144, la propria trattazione critica. Affermata la ammissibilità della domanda di parere, la Corte nota, in primo luogo, che la bozza di accordo non tratta adeguatamente un punto da essa ritenuto fondamentale, ossìa la garanzia che, nel trattare i casi relativi ad uno Stato membro dell’UE, i diritti umani riconosciuti sia nella Convenzione sia nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la CtEDU rispetti rigorosamente il principio di prevalenza del diritto dell’UE rispetto alle norme interne (comprese quelle costituzionali) degli Stati membri dell’UE, anche quando queste ultime forniscono una protezione migliore all’individuo (§§ 179-190).

L’art. 53 CEDU formula la regola – tradizionale nelle convenzioni internazionali sui diritti umani – secondo cui la CEDU stessa non va interpretata nel senso di limitare i diritti garantiti ad un livello superiore in base ad altre normative applicabili al caso. Una regola simile si trova anche nella CDFUE (anche in questo caso si tratta dell’art 53). Con riguardo a quest’ultima disposizione, tuttavia, la giurisprudenza della CGUE ha ritenuto che tale principio non debba compromettere il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’UE in tutti gli Stati membri (sentenza Melloni, EU:C:2013:107, punto 60, citata nel parere al § 188). E l’unico organo che può garantire che una norma della CDFUE sia interpretata secondo tali parametri (anche quando il diritto in questione coincida con quello tutelato dalla CEDU) è per l’appunto la CGUE. Non avere previsto alcun meccanismo di “coordinamento” per circostanze di questa natura, in cui il parametro della CEDU coincide con quello del diritto dell’UE, costituisce una carenza irrimediabile della bozza di accordo, dal momento che lascia alla CtEDU la possibilità di pronunciarsi in modo vincolante per l’UE e i suoi Stati membri in merito a standard che sono propri del diritto dell’UE, senza essere tenuta alla garanzia del quadro costituzionale peculiare dell’Unione.

Per illustrare la problematica ci si può riferire proprio alla citata sentenza Melloni. In questo giudizio, una delle questioni sottoposte alla CGUE dal giudice rimettente (si trattava di una pronuncia pregiudiziale) riguardava la possibilità – prospettata dal giudice spagnolo che aveva formulato la domanda – di non applicare le norme sul mandato di cattura europeo (decisione quadro 2009/299/GAI) in caso di richiesta di consegna di una persona condannata nel proprio paese in absentia. Il giudice nazionale riteneva che la normativa dell’UE dovesse “cedere” rispetto a norme più garantiste in materia di equo processo derivate dalla costituzione spagnola (nello specifico: subordinare la consegna dell’individuo allo stato richiedente – l’Italia – alla assicurazione della possibilità di ottenere una revisione del processo), sulla base appunto dell’art. 53 CDFUE (ritenuto corrispondere al 53 CEDU). Tale interpretazione dell’articolo in questione è stata rigettata dalla CGUE, in ragione dei parametri sopra ricordati (primato del diritto europeo su quello nazionale, unità e effettività dell’ordinamento giuridico europeo), dal momento che l’interpretazione proposta dal giudice rimettente avrebbe compromesso l’applicazione omogenea della regola fissata dal diritto europeo, la quale in tanto è efficace in quanto trova leale e uniforme applicazione in tutti gli stati dell’Unione.

Collegate a questa conclusione – che di fatto chiude alla possibilità che un organo diverso dalla CGUE possa pronunciarsi sui diritti enunciati dalla CDFUE anche quando questi coincidono con quelli della CEDU -, sono altre due censure che il parere esprime in relazione al progetto di accordo. È criticata la mancanza di una disposizione che prenda atto della circostanza che gli stati membri dell’UE hanno stabilito di attribuire al diritto dell’UE e ai suoi organi di garanzia (in particolare alla CGUE) l’esclusiva funzione di regolare taluni loro rapporti. Ciò implica non solo (come sopra indicato) che nessun giudice estraneo al sistema dell’UE possa decidere su tali materie, ma anche che nessuno Stato membro dell’UE possa verificare (rivolgendosi alla CtEDU, per esempio) se un altro Stato membro rispetti o meno gli standard sui diritti umani che costituiscono diritto dell’UE (§§ 191-195).

Inoltre, è considerata dalla CGUE un vizio del documento la mancata presa di posizione circa la possibilità che uno Stato membro possa aderire al Protocollo n. 16 alla CEDU, il quale prevede che le supreme corti degli Stati possano domandare alla CtEDU pareri consultivi. In effetti, la compatibilità di questo meccanismo non è in alcun modo presa in considerazione dalla bozza di accordo, ma per una ragione evidente: perché il Protocollo n. 16 è stato aperto alla firma degli Stati del CdE dopo che il progetto di accordo era già stato chiuso. Ad ogni buon conto, secondo la CGUE la procedura consultiva introdotta dal Protocollo 16 potrebbe aggirare il meccanismo della domanda di pronuncia pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, vera “pietra angolare” del diritto dell’UE (§§ 196-200).

 

In queste prime decisive considerazioni, il parere della CGUE evidenzia una chiara impostazione: l’UE non è uno Stato; se per uno Stato è possibile attribuire ad un organo giudiziario come la CtEDU, esterno al proprio ordinamento, la competenza a statuire in termini vincolanti circa l’inosservanza di una norma, per l’UE ciò non è apparentemente possibile. Nemmeno se questo è ciò che vorrebbero gli stessi Stati membri, le istituzioni dell’UE e – presumibilmente – i cittadini europei. Il parere sembra contrapporre alla volontà degli Stati e delle istituzioni “politiche” dell’Unione le esigenze “supercostituzionali” dell’UE (le sue “caratteristiche specifiche”, su cui v. diffusamente i §§ 156-177 del parere), di cui supremo e unico interprete non può che essere la CGUE. Al cuore della struttura costituzionale dell’UE stanno i diritti fondamentali enunciati nella CDFUE, la cui tutela però – abbastanza paradossalmente – non può giovarsi della garanzia esterna data da un giudice internazionale (in questo caso la CtEDU), ma deve a appoggiarsi unicamente su procedure interne (§ 175: “spetta ai giudici nazionali e alla Corte[GUE] garantire la piena applicazione del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri, nonché la tutela giurisdizionale dei diritti spettanti agli amministrati in forza del diritto dell’Unione”).

 

Ricorsi Stato contro Stato? Non tra paesi dell’UE – Canis canem non est

Il parere prosegue in questo tipo di ragionamento attaccando il modo in cui il progetto di accordo ritiene di aver scongiurato la possibilità che uno Stato membro dell’UE possa portare a giudizio davanti alla CtEDU un altro Stato dell’UE o l’Unione stessa (ovvero la possibilità che l’UE ricorra davanti alla CtEDU contro uno Stato membro) per violazione di una norma sui diritti umani. Un simile scenario costituirebbe un duro colpo all’autonomia del diritto dell’UE e, in particolare, sarebbe contrario ad una fondamentale disposizione del TFUE, l’art. 344, secondo il quale “[g]li Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all'interpretazione o all'applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dal trattato stesso”.

Anche la CEDU contiene una disposizione simile: l’art. 55 prevede che “Le Alte Parti contraenti rinunciano reciprocamente […] ad avvalersi dei trattati, delle convenzioni o delle dichiarazioni tra di esse in vigore allo scopo di sottoporre, mediante ricorso, una controversia nata dall’interpretazione o dall’applicazione della presente Convenzione a una procedura di risoluzione diversa da quelle previste da detta Convenzione”.

Il progetto previene questo tipo di scenario con una disposizione interpretativa (art. 5) che considera semplicemente non applicabile l’art. 55 CEDU ai procedimenti dinanzi alla CGUE, compresi quelli per violazione di norme dei trattati o della CDFUE da parte di uno Stato o di istituzioni dell’UE. Con questa disposizione, infatti, si consente che la CtEDU possa esaminare ricorsi inter-statali (o meglio inter-parti) per violazione della CEDU anche quando coinvolgono Stati membri dell’UE o la stessa UE, ma non quando le controversie toccano una norma riguardante i diritti umani contenuta (anche) nei trattati istitutivi dell’UE o nella CDFUE; in questi casi infatti avrebbero prevalenza i meccanismi di accertamento e risoluzione previsti dal diritto dell’UE e facenti capo alla CGUE.

Questa soluzione non convince tuttavia i giudici di Lussemburgo. Il parere è esplicito nel dire che “l’articolo 5 del Progetto di accordo si limita a ridurre la portata dell’obbligo previsto dall’articolo 55 [CEDU], ma lascia intatta la possibilità che l’Unione o gli Stati membri sottopongano alla Corte EDU, ai sensi dell’articolo 33 della CEDU, una domanda avente ad oggetto un’asserita violazione di tale convenzione commessa, rispettivamente, da uno Stato membro o dall’Unione, correlata al diritto dell’Unione” (§207). Di conseguenza, “soltanto un’espressa esclusione della competenza della Corte EDU risultante dall’articolo 33 della CEDU per eventuali controversie tra gli Stati membri, ovvero tra questi e l’Unione, relative all’applicazione della CEDU nell’ambito di applicazione sostanziale del diritto dell’Unione, sarebbe compatibile con l’articolo 344 TFUE” (§ 213).

 

Anche in questo caso si può notare che la CGUE, attenta a difendere le proprie prerogative secondo il diritto dell’UE e a non mettere a repentaglio l’autonomia e autosufficienza del sistema istituzionale e giudiziario di controllo sulle infrazioni al quadro normativo dell’Unione, non sembra altrettanto disposta a riconoscere come prioritario rispetto a tali esigenze il compito di assicurare un superiore grado di protezione ai diritti fondamentali.

 

“Convenuto aggiunto” e procedura di “previo coinvolgimento” della CGUE - Non sufficit

Una delle disposizioni più innovative del progetto di accordo di adesione dell’UE alla CEDU è quella che prevede la possibilità per uno Stato membro dell’UE o per l’UE di essere associato come convenuto aggiunto (co-respondent, equiparato in toto alla parte oggetto dell’originale ricorso) nel caso in cui, in forza del diritto dell’UE, condivida con il convenuto originario la responsabilità per la presunta violazione (art. 3 del progetto di accordo di adesione). Uno Stato, infatti, potrebbe aver violato la CEDU in attuazione di una norma di diritto dell’UE o di una decisione presa sulla base del diritto dell’UE – in questo caso anche l’UE è corresponsabile della violazione. Si pensi a un ricorso in cui uno Stato sia accusato di violare la CEDU dando applicazione al “regolamento Dublino” dell’UE in materia di individuazione dello Stato competente a trattare i casi di richiesta di protezione internazionale. Oppure si ipotizzi un  ricorso in cui ad un’istituzione, organo, ufficio o agenzia dell’UE, o un individuo operante per conto dell’UE, sia imputato di avere violato la CEDU nel dare applicazione a disposizioni contenute nei trattati, cioè in atti adottati dagli Stati membri che si pretende siano incompatibili con la CEDU – in questo caso anche gli Stati membri dell’UE devono essere chiamati a rispondere della presunta violazione della CEDU come convenuti aggiunti.

Il meccanismo prevede che la CtEDU inviti (in modo non vincolante) il presunto corresponsabile a costituirsi in giudizio, oppure che essa decida sulla domanda proposta a questo fine dallo Stato membro o dalla UE che ritenga di comparire come convenuto aggiunto.

Il parere della CGUE rileva una serie di insufficienze in questa procedura, legate, come sempre, al mancato rispetto delle particolari caratteristiche di autonomia del diritto dell’UE. In primo luogo, se è corretto che l’invito a diventare convenuto aggiunto non sia vincolante (la CtEDU non può ergersi a giudice dei criteri di ripartizione delle responsabilità tra Stati membri dell’UE o tra Stato membro e UE alla stregua del diritto dell’UE), non è accettabile che, quando l’iniziativa venga da uno Stato membro o dalla UE, la CtEDU statuisca sul punto con una propria decisione (sia pure presa sulla scorta delle argomentazioni avanzate dai proponenti). In questo modo infatti la CtEDU si pronuncia su una questione di diritto dell’UE (la ripartizione delle responsabilità tra Stati membri o tra Stati membri e UE), cosa che, per le ragioni più volte evidenziate, le è preclusa, essendo riservata ai soli giudici dell’UE. Per le stesse ragioni il parere critica la regola per cui la CtEDU, se accerta la responsabilità del convenuto originario, deve anche – salvo eccezioni – decretare la responsabilità anche del convenuto aggiunto. Non pouà infatti la CtEDU passar sopra ad eventuali riserve apposte da uno Stato membro, né valutare l’esistenza di differenti forme di responsabilità tra Stato membro e UE, dal momento che nell’uno e nell’altro caso interferirebbe con una scelta dello Stato o con regole dettate dal diritto dell’UE e sottoposte all’esclusiva competenza giurisdizionale della CGUE.

L’altra innovazione introdotta sempre nell’art. 3 (comma 6) della bozza di accordo riguarda il meccanismo del “previo coinvolgimento” della CGUE. Quando la UE risulta essere convenuto aggiunto in una controversia davanti alla CtEDU (cioè quando in un ricorso alla CtEDU uno Stato membro è stato accusato di aver violato la CEDU nel dare attuazione al diritto dell’UE), nella maggior parte dei casi il giudice interno avrà già avuto modo di risolvere la questione della legittimità ai sensi del diritto dell’UE dell’atto dell’autorità interna che viene contestato, o della corretta interpretazione di quest’ultimo secondo il diritto dell’UE: avrà cioè usufruito della procedura del rinvio pregiudiziale alle CGUE di cui all’art. 267 TFUE. L’attivazione di questa procedura dà l’opportunità alla CGUE di verificare l’eventuale conflitto tra la norma europea e gli standard sui diritti umani e consente alla CtEDU di pronunciarsi dopo che sia lo Stato sia l’UE hanno avuto modo di esprimersi esaurientemente sul punto. Può tuttavia eccezionalmente darsi il caso che la CGUE non sia stata consultata attraverso il meccanismo dell’art. 267 TFUE o non abbia comunque mai avuto modo di pronunciarsi sulla compatibilità tra la norma di europea e la CEDU. A questa carenza supplisce appunto la regola dell’art. 3, comma 6 del progetto di accordo: la stessa CtEDU sospende il procedimento presso di sé e dispone il previo coinvolgimento della CGUE. Quest’ultima deve decidere in tempi rapidi.

Anche questa previsione del progetto di accordo è stata criticata dalla CGUE. La critica evidenzia, in primo luogo, che il fatto stesso di potersi pronunciare circa l’esistenza o meno di una pronuncia da parte della CGUE su una questione di diritto uguale a quella dedotta nel ricorso davanti alla CtEDU dovrebbe essere preclusa al tribunale di Strasburgo, poiché un simile accertamento potrebbe essere svolto soltanto dalla CGUE stessa (e con effetto vincolante per la CtEDU). In secondo luogo, il parere osserva che nel rapporto esplicativo al progetto di accordo è precisato che, a seguito del proprio previo coinvolgimento, la CGUE deve fornire un’interpretazione delle pertinenti norme dei trattati (diritto primario) o esprimersi sulla validità del diritto derivato (regolamenti, direttive, ecc.) alla stregua del diritto fondamentale che si presume leso. Secondo la CGUE questo non è sufficiente, in quanto alla CGUE dovrebbe essere chiesto non solo di statuire sulla validità del diritto derivato, ma anche fornire l’interpretazione di quest’ultimo (così come ad essa è richiesto di interpretare il diritto primario, cioè i trattati). Non è ammissibile infatti che l’interpretazione di un regolamento o di una direttiva dell’UE sia affidata ad un organo diverso dalla CGUE quale è la CtEDU.

 

Le Corti e la PESC – Et in Arcadia ego

Infine, la CGUE non è persuasa del modo in cui il progetto di accordo ha trattato la questione di come violazioni della CEDU possano essere esaminate dalla CtEDU in rapporto ad attività condotte dagli Stati membri dell’UE e dall’UE nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (PESC).

La regola generale espressa dal progetto di accordo (art. 1, comma 4) è che gli atti posti in essere da organi statali, per quanto in attuazione di disposizioni del diritto dell’UE, comportano la responsabilità dello Stato – a cui si aggiunge eventualmente quella dell’UE che comparirà davanti alla CtEDU come convenuto aggiunto. Per esempio, operazioni di pace decise dall’UE e realizzate da forze armate nazionali comporteranno responsabilità per violazione degli standard della CEDU in capo allo Stato membro (con la UE quale convenuto aggiunto) – con riguardo alle missioni dell’UE, quindi, la CtEDU non potrebbe emettere decisioni che, riconoscendo la responsabilità per atti commessi da agenti impegnati in operazioni di peacekeeping condotte sotto l’egida di organizzazioni internazionali in capo a queste ultime, affermano la mancanza di giurisdizione ratione personae.

Il punto è che, per una precisa scelta politica degli Stati membri dell’UE, la materia della PESC è in gran parte sottratta al controllo giurisdizionale della CGUE, che può soltanto sindacare la violazione delle norme sull’attribuzione di competenze tra le istituzioni della UE che intervengono sulla PESC (art. 40 TUE), o pronunciarsi sui ricorsi (per annullamento, o anche di altro tipo, secondo la Commissione) riguardanti le misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio (art. 275 TFUE).

Secondo la Commissione e gli altri Stati e istituzioni intervenute, questa situazione è soddisfacente. Infatti, per le attività PESC che danno vita a missioni militari o civili, l’eventuale responsabilità per violazioni dei diritti umani è chiaramente incardinata in capo agli Stati grazie alla disposizione dell’art. 1, comma 4. Quando il Consiglio adotta misure restrittive (ad esempio in attuazione di misure antiterrorismo o come sanzione contro esponenti di regimi che violano il diritto internazionale), invece, anche la CGUE può aver modo di intervenire per verificare l’eventuale violazione dei principi di tutela dei diritti. Nella gran parte dei casi in cui sono in gioco misure PESC, infine, difficilmente esse possono essere oggetto di un ricorso davanti alla CtEDU, trattandosi di atti di portata generale che non colpiscono singoli individui e quindi non sono idonei a creare in capo ad essi la condizione di “vittima”.

Secondo la CGUE, viceversa, la eventualità che la CtEDU possa occuparsi di violazione dei diritti umani connessi a atti, azioni o omissioni dell’UE nel quadro della PESC sottratte al controllo della CGUE e quindi sottoposte unicamente – ai soli fini della possibile violazione della CEDU – al controllo dei giudici di Strasburgo, è incompatibile con il diritto dell’UE e pertanto anche su questo punto il progetto di accordo è rigettato.

 

Conclusione – Primum vivere

Il parere della CGUE sembra sconfessare in larga misura il lavoro fin qui compiuto per permettere l’adesione dell’UE alla CEDU. Le questioni che pone sono in effetti quelle su cui sembrava che la scelta politica all’interno dell’UE fosse chiara: il trattato di Lisbona ha fissato in forma che sembrava inequivoca la volontà degli Stati membri e delle istituzioni e organi dell’Unione di sottoporsi al controllo della CtEDU. Si tratta di una scelta che riconosce la forza unificante e legittimante che hanno oggi i diritti umani. La CGUE ha preferito far prevalere su tali aspetti una visione rigorosa e forse “rigorista” del primato e dell’autonomia del diritto dell’Unione.

C’è da chiedersi quali altri emendamenti ai trattati possano essere apportati per rendere più esplicita la volontà di accedere alla CEDU e di compiere quelle riforme in linea con il paradigma universale dei diritti umani che la CGUE, a quanto pare, non intende per il momento avallare. Un aspetto non secondario di tale paradigma è in effetti quello di riconoscere l’incompletezza di qualunque sistema giuridico, statale o non statale, quando si tratta di garantire i diritti fondamentali della persona, e la conseguente necessità per qualsiasi ordinamento di aprirsi a forme esterne di controllo dell’effettiva attuazione degli standard più avanzati di tutela dei diritti fondamentali.

La CGUE ha scelto di confermare la pretesa di autosufficienza del diritto dell’UE, alla luce delle speciali caratteristiche istituzionali e giuridiche dell’Unione, non ricomprendendo tra queste il riconoscimento effettivo del valore preminente della causa dei diritti umani.

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