Corte europea dei diritti umani

Corte europea dei diritti dell'uomo: causa Morabito c. Italia, violazione dell'articolo 3 CEDU

Nel caso Morabito c. Italia (ricorso n. 4953/22), la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) ha emesso la sua sentenza il 10 aprile 2025, ritenendo che l'applicazione prolungata di un regime di detenzione eccezionale a un detenuto anziano e affetto da deficit cognitivi costituisse una violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che vieta la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti.
Aula della Corte europea dei diritti dell'uomo a Strasburgo, Francia
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Sommario

  • Fatti della causa
  • Conclusioni della Corte nel merito
  • Opinione dissenziente del giudice Balsamo
  • Commenti dell'autore sulle osservazioni dello Stato parte
  • Conclusioni

Fatti della causa

Il ricorrente, Giuseppe Morabito, nato nel 1934, era una figura di spicco della 'Ndrangheta calabrese ed era stato condannato per essere uno dei suoi leader. È stato arrestato nel 2004 e sottoposto al regime 41-bis, una misura di sicurezza speciale prevista dal codice penitenziario italiano volta a impedire ai membri di alto rango della mafia di esercitare la loro influenza sulle organizzazioni criminali dal carcere. Questo regime è una delle forme di detenzione più severe in Europa. Limita fortemente i contatti con il mondo esterno, le visite, la corrispondenza, l'accesso alle attività comuni e persino le interazioni sociali con gli altri detenuti. Il regime, sebbene legittimo in linea di principio, è soggetto a un rigoroso controllo giurisdizionale e deve essere periodicamente rinnovato con prove aggiornate che ne dimostrino la necessità.

Per quasi vent'anni, il Ministero della Giustizia italiano ha ripetutamente rinnovato l'applicazione dell'articolo 41-bis a Morabito. Durante questo periodo, la sua salute è peggiorata notevolmente. Soffriva di diverse patologie croniche, tra cui ipertensione, problemi alla prostata, artrite ed ernie. Soprattutto, ha sviluppato un progressivo declino cognitivo, diagnosticato dal punto di vista medico come morbo di Alzheimer. La sua capacità di memoria, ragionamento e comunicazione è peggiorata in modo significativo, limitando la sua capacità di svolgere autonomamente le attività quotidiane.

Nonostante le numerose perizie mediche e le ripetute richieste della difesa, i tribunali nazionali hanno costantemente respinto le richieste di alleggerimento delle misure detentive, come gli arresti domiciliari, e hanno continuato a sostenere il regime 41-bis. Il loro ragionamento si basava in gran parte sul ruolo criminale storico di Morabito e sul rischio generalizzato rappresentato dalle organizzazioni di tipo mafioso, piuttosto che su una valutazione individualizzata del rischio.

Nel 2022, Morabito ha presentato una domanda alla Corte europea dei diritti dell'uomo, sostenendo che la sua continua sottomissione al regime 41-bis costituiva un trattamento inumano e degradante, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione. Il suo caso ha fatto eco a precedenti sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo, come Enea c. Italia (2009) e Provenzano c. Italia (2018), che hanno entrambe esaminato la compatibilità della detenzione 41-bis con la Convenzione.

Le conclusioni della Corte sul merito

La Corte ha strutturato la sua analisi attorno a due questioni centrali. La prima era se lo stato di salute generale del ricorrente fosse compatibile con la sua detenzione continuativa. La seconda era se il mantenimento del regime di cui all'articolo 41-bis, alla luce della sua età avanzata e del suo deterioramento cognitivo, costituisse un trattamento inumano o degradante.

Sulla prima questione, la Corte non ha riscontrato alcuna violazione dell'articolo 3. Ha riconosciuto che Morabito era un detenuto vulnerabile a causa della sua età e delle sue malattie. Tuttavia, ha osservato che durante la detenzione riceveva cure mediche regolari e adeguate. Aveva accesso a medici specialisti, le cure erano adeguate alle sue condizioni e non vi erano prove che le autorità avessero trascurato le sue esigenze sanitarie. Secondo la valutazione della Corte, sebbene la detenzione comportasse inevitabilmente uno stress, la soglia dell'articolo 3 non era stata superata per quanto riguarda le cure mediche generali.

La seconda questione si è rivelata decisiva. Con sei voti contro uno, la Corte ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell'articolo 3 in relazione alla prolungata applicazione del regime di cui all'articolo 41-bis. I giudici hanno sottolineato che, sebbene il regime non fosse di per sé illegale, la sua continua imposizione richiedeva una giustificazione convincente, attuale e individualizzata. Nel caso di Morabito, le autorità italiane si sono basate quasi esclusivamente sul suo ruolo criminale passato e sui pericoli astratti della criminalità mafiosa. Non sono riuscite a dimostrare concretamente come, dato il suo avanzato declino cognitivo, potesse ancora mantenere il controllo operativo o simbolico all'interno della sua rete criminale.

La Corte ha sottolineato che il morbo di Alzheimer è una malattia degenerativa che compromette profondamente la memoria, la comunicazione e la capacità decisionale. In tali circostanze, era dubbio che Morabito conservasse la capacità di agire necessaria per rappresentare una minaccia reale. Trascurando di rivalutare tale aspetto alla luce delle prove mediche, le autorità nazionali non hanno soddisfatto gli elevati standard richiesti dall'articolo 3.

Inoltre, la Corte ha considerato la durata della misura. Morabito era stato detenuto ai sensi dell'articolo 41-bis per quasi vent'anni. L'effetto cumulativo di un isolamento così prolungato, in particolare su un detenuto con un grave declino cognitivo, costituiva un trattamento inumano e degradante. Questo ragionamento faceva eco alle precedenti conclusioni della Corte nella causa Provenzano c. Italia, in cui anche l'applicazione prolungata dell'articolo 41-bis a un detenuto in fase terminale era stata ritenuta sproporzionata.

Come rimedio, la Corte ha ritenuto che la dichiarazione di violazione fosse di per sé sufficiente a riparare il danno morale subito. Non è stato concesso alcun risarcimento pecuniario.

Opinione dissenziente del giudice Balsamo

Il giudice Balsamo, in qualità di giudice ad hoc, ha espresso un parere separato, concordando in parte e dissentendo in parte. Egli ha concordato con la maggioranza sul fatto che non vi fosse stata alcuna violazione per quanto riguarda l'adeguatezza delle cure mediche durante la detenzione.

Tuttavia, non ha condiviso la conclusione secondo cui la continua applicazione del regime 41-bis violasse l'articolo 3.

A suo avviso, il deterioramento cognitivo non neutralizza automaticamente la capacità di influire all'interno delle organizzazioni di tipo mafioso. Egli ha sostenuto che i gruppi mafiosi operano spesso attraverso l'autorità simbolica e la lealtà gerarchica. Anche una figura con capacità cognitive ridotte potrebbe continuare a ispirare o dirigere i subordinati, in modo esplicito o implicito. Pertanto, misure preventive come il 41-bis potrebbero rimanere giustificate.

Il giudice Balsamo ha inoltre messo in guardia contro un approccio eccessivamente medicalizzato alla pericolosità. Ha sottolineato che la valutazione del rischio deve includere considerazioni criminologiche e sociologiche, non solo valutazioni neurologiche. A suo avviso, le autorità italiane hanno agito entro i limiti del loro margine di apprezzamento nel continuare ad applicare il regime 41-bis, data la minaccia persistente rappresentata dalla criminalità organizzata in Italia.

Ha quindi concluso che il mantenimento del regime 41-bis, anche nelle circostanze specifiche del caso Morabito, non ha superato la soglia del trattamento inumano o degradante. Il suo dissenso illustra la tensione persistente tra le preoccupazioni di sicurezza e la tutela dei diritti umani nella giurisprudenza della Corte.

Significato della sentenza

La sentenza Morabito rappresenta una pietra miliare nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di trattamento dei detenuti anziani e con deficit cognitivi. Si basa su precedenti sentenze come Enea c. Italia e Provenzano c. Italia, ma introduce una nuova dimensione affrontando direttamente l'impatto delle condizioni neurodegenerative sulla giustificazione dei regimi eccezionali.

La Corte ha ribadito che l'articolo 3 impone un obbligo assoluto. Gli Stati devono garantire che le condizioni di detenzione siano compatibili con la dignità umana, indipendentemente dalla gravità del reato. La sentenza evidenzia tre principi fondamentali:

  1. La vulnerabilità come fattore giuridicamente rilevante: l'età avanzata e il declino cognitivo aumentano il livello di protezione richiesto dall'articolo 3.
  2. Necessità e proporzionalità dei regimi eccezionali: gli Stati devono dimostrare, attraverso prove aggiornate e individualizzate, che restrizioni come il 41-bis rimangono indispensabili.
  3. Effetti cumulativi dell'isolamento prolungato: l'imposizione a lungo termine di regimi restrittivi può costituire di per sé un trattamento inumano o degradante, in particolare per i detenuti vulnerabili.

Il caso sottolinea anche l'importanza del controllo giurisdizionale. I tribunali italiani si sono ripetutamente basati su ragionamenti generici piuttosto che sulla situazione medica attuale del ricorrente. Questa mancanza riflette un rischio più ampio di rinnovi meccanici dei regimi eccezionali, una pratica che la Corte ha esplicitamente condannato.

Da un punto di vista comparativo, la sentenza è in linea con un corpus crescente di norme internazionali in materia di diritti umani che riconoscono che la privazione della libertà non deve mai comportare la privazione della dignità. Essa riprende temi presenti nella giurisprudenza degli organi delle Nazioni Unite sul trattamento dei detenuti vulnerabili e sottolinea la necessità di un processo decisionale dinamico e basato su prove concrete nei contesti di detenzione.

Conclusioni

Morabito c. Italia rafforza il principio secondo cui le considerazioni di sicurezza non possono giustificare restrizioni automatiche e indefinite senza una motivazione rigorosa e individualizzata. Anche i detenuti condannati per i reati più gravi conservano i loro diritti fondamentali ai sensi dell'articolo 3.

La sentenza conferma che l'Italia, e per estensione tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa, devono riesaminare attentamente la necessità di regimi di detenzione speciali, in particolare quando applicati a detenuti anziani o con deficit cognitivi. I comportamenti criminali passati non possono sostituire indefinitamente le attuali valutazioni del rischio.

La sentenza sottolinea inoltre il ruolo della Corte europea dei diritti dell'uomo nella definizione degli standard in materia di diritti umani per i sistemi penitenziari, spingendo gli Stati a conciliare le politiche di controllo della criminalità con gli obblighi previsti dalla Convenzione. Per l'Italia, ciò porterà a riforme nel modo in cui vengono giustificati i rinnovi del 41-bis, richiedendo una più stretta integrazione delle competenze mediche e degli standard in materia di diritti umani nel ragionamento giudiziario.

In termini più generali, la decisione illustra la crescente disponibilità della Corte europea dei diritti dell'uomo ad affrontare le questioni dell'invecchiamento, della disabilità e della detenzione. Essa segnala che le condizioni di detenzione devono evolvere in linea con lo stato di salute dei detenuti e che la dignità umana rimane lo standard fondamentale con cui vengono misurate tutte le pratiche di detenzione.

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