Ripensare la natura umana: tra cooperazione, fiducia e giustizia sociale

Nel saggio Humankind: A Hopeful History (2020), tradotto in italiano come Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, Rutger Bregman avanza una tesi controcorrente rispetto alla visione dominante della natura umana, mettendo in discussione i paradigmi culturali e scientifici che hanno sostenuto una narrazione fondata sul presupposto dell’egoismo, della competizione e della violenza come tratti originari dell’essere umano. L’assunto secondo cui l’uomo sarebbe “naturalmente cattivo” ha attraversato secoli di pensiero filosofico, politico e psicologico, da Machiavelli a Hobbes, da Freud fino alle scienze sociali contemporanee, permeando tanto l’immaginario collettivo quanto le architetture istituzionali. La costruzione delle norme, delle politiche pubbliche e dei sistemi educativi si è spesso fondata su un’idea restrittiva della natura umana, da disciplinare, contenere e guidare attraverso strutture verticali e dispositivi di controllo.
In questo contesto, Bregman propone una rilettura storica e antropologica dell’umanità degli ultimi 200.000 anni, fondata su un’impostazione che egli stesso definisce di “realismo speranzoso”. A partire da dati provenienti da ambiti diversi – dalla biologia evolutiva alla psicologia sociale, dall’archeologia all’antropologia culturale – l’autore ricostruisce un quadro alternativo, nel quale la cooperazione, la solidarietà e la gentilezza emergono come strategie evolutive centrali nella storia dell’Homo sapiens. In netto contrasto con la narrazione hobbesiana della “guerra di tutti contro tutti”, Bregman mostra come numerose società umane, anche in condizioni di crisi, abbiano espresso capacità diffuse di resilienza collettiva, cura reciproca e organizzazione egualitaria.
Una parte significativa del lavoro di Bregman consiste nella decostruzione critica di alcuni degli esperimenti psicologici più noti del Novecento, come lo Stanford Prison Experiment di Philip Zimbardo (1971) e il celebre studio sull’obbedienza di Stanley Milgram (1961). In entrambi i casi, l’autore evidenzia come le interpretazioni dominanti abbiano accentuato gli aspetti di conformismo e aggressività a scapito della complessità delle reazioni individuali e collettive. L’intervento diretto di Zimbardo nel ruolo di “supervisore carcerario” e l’assenza di rigore metodologico sollevano dubbi sulla validità scientifica dell’esperimento e sulle sue conclusioni. Analogamente, l’analisi dei dati dell’esperimento di Milgram rivela che numerosi partecipanti mostrarono disagio, opposizione o rifiuto attivo, aspetti spesso omessi nelle narrazioni successive. Bregman sottolinea come tali letture riduzioniste abbiano contribuito a costruire e legittimare una visione distorta e pessimistica della natura umana, che ha avuto implicazioni profonde nel campo delle politiche sociali, educative e di giustizia.
Accanto a questa revisione critica, Bregman recupera episodi storici emblematici di altruismo spontaneo, come la tregua di Natale del 1914 tra i soldati al fronte, la solidarietà nei quartieri di Londra durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, o la storia poco nota di un gruppo di adolescenti naufraghi nel Pacifico che, contrariamente alla distopia narrata in Il signore delle mosche, riuscirono a costruire una micro-società fondata sulla cooperazione. Questi episodi, lungi dall’essere eccezioni, rappresentano per Bregman una base empirica da cui partire per ripensare le categorie di fiducia, responsabilità e potere.
Tali riflessioni trovano un potente riscontro nell’opera The Dawn of Everything (2021) di David Graeber e David Wengrow. Gli autori, attraverso una sintesi monumentale di studi antropologici e storici, smantellano il “mito della guerra primitiva” e mettono in discussione la narrativa evoluzionista lineare che associa lo sviluppo della complessità sociale alla coercizione e alla gerarchia statale. Al contrario, mostrano come molte società abbiano elaborato forme sofisticate di governance non autoritaria, gestito i conflitti con strumenti rituali e non violenti, e spesso alternato consapevolmente periodi di strutturazione verticale con fasi di orizzontalità e rifiuto dell’autorità permanente. Centrale è la valorizzazione del ruolo delle donne come agenti di mediazione, così come l’attenzione alle pratiche culturali che promuovevano la pace come scelta politica e non come mera assenza di conflitto.
L’impianto teorico offerto da Bregman, Graeber e Wengrow invita a ripensare radicalmente la relazione tra natura umana, costruzione sociale e giustizia. Nella misura in cui le istituzioni si fondano su un’antropologia della sfiducia, esse tendono a riprodurre meccanismi escludenti, autoritari e punitivi. Al contrario, una concezione della persona come agente cooperativo e dotato di competenze etiche innervate nella storia evolutiva e culturale dell’umanità può costituire il fondamento per politiche educative, sociali e culturali realmente orientate all’inclusione e alla giustizia sociale. Ciò implica un ribaltamento epistemologico: non è la violenza a dover essere assunta come dato di partenza, bensì la possibilità concreta di costruire relazioni fondate sulla fiducia, la reciprocità e la cura.
In un tempo segnato da polarizzazioni, crisi globali e sfiducia sistemica, il contributo di queste ricerche rappresenta non solo un contro-narrativo necessario, ma anche un invito urgente a ridefinire le coordinate etiche e politiche su cui costruire istituzioni inclusive, solidali e capaci di affrontare le sfide del presente con spirito cooperativo e visione trasformativa.