Rapporto USA 2005 sulla situazione dei diritti umani nel mondo


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Lo scorso 8 marzo il Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America Condoleezza Rice ha annunciato la pubblicazione dell’edizione 2005 del Rapporto "Country Reports on Human Rights Practices". Il rapporto viene redatto annualmente dall’Ufficio Democrazia, Diritti umani e Lavoro del Dipartimento di Stato su richiesta del Congresso, in riferimento a quanto previsto dalle sezioni 116 (d) e 502B(b) del Foreign Assistance Act del 1961 e della sezione 504 del Trade Act; esso deve costituire un “rapporto completo e dettagliato riguardante lo stato dei diritti umani internazionalmente riconosciuti nei Paesi che ricevono assistenza da parte degli Stati Uniti e in tutti i Paesi stranieri che siano membri delle Nazioni Unite”. Il primo rapporto di questo genere fu pubblicato nel 1977.

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Nell’introduzione dell’edizione corrente del rapporto si legge come esso costituisca un valido strumento di lavoro ai fini dell’azione cooperativa tra governi, organizzazioni ed azioni individuali volte ad interrompere le violazioni dei diritti umani e a rafforzare la capacità dei Paesi a proteggere i diritti fondamentali di tutti i cittadini e di tutte le cittadine.

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Il documento continua con l’osservare che l’azione di promozione internazionale dei diritti umani ("worldwide championing of human rights”) non costituisca un tentativo pretestuoso per interferire nel dominio riservato dei Paesi stranieri, ma sia un diritto-dovere riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

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Infine, nell’introduzione si sottolinea come il rapporto si proponga di descrivere le situazioni nazionali dei diritti umani di ogni Paese nel 2005 piuttosto che le performances di uno Stato rispetto a quelle di un altro. Ciononostante, da un’analisi comparativa emergono le seguenti sei conclusioni: 1) I Paesi in cui il potere è concentrato nella mani di governanti non responsabili di fronte al popolo (unaccountable) tendono ad essere i principali violatori dei diritti umani al mondo; 2) diritti umani e democrazia sono strettamente interconnessi ed entrambi sono necessari per la stabilità e la sicurezza di lungo periodo; 3) alcune delle più serie violazioni dei diritti umani sono commesse da Governi nell’ambito di conflitti interni o riguardanti aree di frontiera; 4) quando si registra la presenza di ostacoli alle attività della società civile organizzata e all’indipendenza dei mezzi di comunicazione di massa, le libertà fondamentali di espressione, associazione ed assemblea corrono seri pericoli; 5) le elezioni democratiche di per sé non assicurano il rispetto dei diritti umani, ma pongono un Paese sulla strada delle riforme e “gettano le fondamenta” per l’istituzionalizzazione della protezione dei diritti umani; 6) il progresso nelle riforme democratiche e nei diritti umani non è né lineare né tanto meno garantito.

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Il rapporto mette anche in luce come “violazioni dei diritti umani ed impedimenti alla giustizia possano anche avere luogo in Paesi democratici” e che in particolare “il viaggio degli Stati Uniti verso la libertà e la giustizia è stato lungo e difficile e sia lungi dal ritenersi terminato”, concludendo tuttavia che “ciononostante, nel tempo il nostro modello [statunitense] di poteri governativi indipendenti, il nostro sistema di libera informazione, la nostra apertura al mondo e, soprattutto, il coraggio civile di ispirati patrioti americani (impatient American patriots) ci aiuta a tenere fede ai nostri ideali basilari e ai nostri obblighi internazionali”.