Riforma delle Nazioni Unite: l’articolo 51 della Carta, da “eccezione” a “norma generale”? L’incubo della guerra facile
1. Validità della Carta, occasioni perdute?
- - L’Organizzazione delle Nazioni Unite compie sessanta anni. “Riformare l’ONU” suona come uno stanco leitmotiv nel discorso politico degli ultimi decenni. Troppo tempo è stato sprecato.
- Nessuno può oggi, ragionevolmente, negare che occorre rompere gli indugi, una volta per tutte. Ma si deve cominciare col piede giusto, partendo dalla consapevolezza che la realtà delle Nazioni Unite è fatta di ombre ma anche di (tante) luci.
- Non c’è dubbio che la struttura amministrativa è elefantiaca e annaspa e che l’attuale leadership è mediocre, ma per quanto riguarda i principi, gli obiettivi, e l’architettura (benchè incompiuta) di una infrastruttura mondiale per la sicurezza collettiva sotto autorità “sopranazionale”, la Carta delle Nazioni Unite conserva intatta la sua validità dal punto di vista giuridico, politico, morale, storico. Questo è chiaramente ribadito dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale del 13 agosto 2004 (A/RES/58/317) intitolata “Riaffermare il ruolo centrale delle Nazioni Unite” nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e nella promozione della cooperazione internazionale”. In particolare, l’Assemblea urge gli stati perchè si impegnino a “costruire consenso” sul concetto e sulla pratica della “sicurezza umana”.
- La perdurante validità della Carta è alimentata da vari fattori – tra gli altri, la visibilità che il sistema delle Nazioni Unite (NU) ha dato alle formazioni transnazionali di società civile, specialmente alle Organizzazioni non governative (Ong) e alle questioni relative alle donne, e la diffusione della cultura dello “sviluppo umano” -, ma risiede primariamente nell’esistenza di quel “nuovo” Diritto universale dei diritti umani che proprio nella Carta delle NU ha le radici della sua “positività” e risuona nella coscienza di innumerevoli persone, gruppi e organi della società in ogni parte del mondo. Gli ideali delle Nazioni Unite e i diritti umani sono sempre più percepiti quale patrimonio comune di tutti i membri della “famiglia umana”. L’ONU e il nuovo Diritto umanocentrico condividono il medesimo destino, dunque non possono non avere futuro.
- Le circostanze storiche spingono in questa direzione. Il mondo è più interdipendente e globalizzato, al positivo e al negativo, che nel 1945 e rende sempre più forte la necessità di disporre di istituzioni multilaterali che siano capaci, nel rispetto del principio di sussidiarietà (il cui spazio è divenuto anch’esso globale), di “decidere” e realizzare politiche pubbliche internazionali per l’equa distribuzione e la trasparente gestione dei beni pubblici globali, comprendenti la pace, la sicurezza, lo sviluppo umano, la salvaguardia dell’ambiente naturale.
- La caduta del muro di Berlino nel 1989 aveva offerto circostanze che erano obiettivamente idonee a far avviare seriamente la riforma delle NU, ma quanto accaduto è stato soltanto uno sterile blaterare e gli anni ’90 del secolo scorso sono segnati da un crescendo di guerre, genocidi, pulizie etniche, stupri etnici, terrorismi, violenza diffusa. Nonostante la disponibilità di un idoneo paradigma morale e legale per l’agenda della governance globale, esplicitamente e ripetutamente richiamato nei documenti ufficiali – diritti umani, principi dello stato di diritto, sussidiarietà, democrazia partecipativa -, la guerra del Golfo nel ’91, le atrocità nei Balcani e nel Ruanda, la guerra in Kossovo nel 1999, forniscono la tragica evidenza empirica di fallimenti istituzionali sul piano mondiale. Prima che l’ONU, sono gli stati a dimostrarsi sempre meno capaci di gestire gli affari internazionali con la vecchia, vischiosa, controproduttiva agenda della “geopolitica”, cioè dell’interesse nazionale costi quel che costi.
- L’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 e la successiva proliferazione di atti terroristici, invece di rinsaldare la cooperazione dentro le legittime istituzioni multilaterali, hanno alimentato le ambizioni unilateralistiche - di ben più antica data - della sopravvissuta superpotenza: non c’è bisogno di ricordare che il modello di “nuovo ordine mondiale” che il Presidente Bush senior ha reclamizzato perfino all’Assemblea Generale delle NU nel 1991 era quello di un sistema internazionale gerarchico fondato sul principio di sovranità armata ineguale, dove il ruolo delle NU sarebbe stato ancillare rispetto a quello delle potenze maggiori. L’ultimo tentativo di minare le NU è venuto da Bush junior con la “guerra preventiva” contro l’Iraq, apertamente teorizzata e messa in pratica in flagrante violazione del vigente Diritto internazionale e con la pretesa di ottenere l’appoggio formale del Consiglio di sicurezza. L’avallo dell’ONU fu fortunamente negato in quell’occasione.
- La pressione da parte di ambienti governativi e di società civile globale sta ora crescendo perché si dia inizio, seriamente, alla riforma-rilancio delle NU, anche per cogliere subito la nuova opportunità costituita dal fatto che perfino quegli stati più forti che sono capaci di fare la guerra dimostrano di non essere capaci di vincere la guerra, dunque sono privi di quel valore aggiunto di potere che è necessario per imporre “nuovi ordini mondiali” sulla falsariga di quanto avveniva ordinariamente nel sistema interstatuale dei secoli passati al termine delle cosiddette guerre maggiori. Razionalmente e ragionevolmente, nessun altro attore politico tranne le NU può adeguatamente profittare del macroscopico “interstizio” che si è ora aperto - guerra, ma non vittoria -, per portare avanti la costruzione di quell’ordine mondiale il cui DNA, irrinunciabile, sta nella Carta delle NU.
- - 2. Quale credibile “sicurezza collettiva” per la “sicurezza umana”
- - A seguito della citata Risoluzione dell’Assemblea Generale, nel novembre 2003 il Segretario generale delle NU ha dato mandato ad un “Panel di alto livello di eminenti persone” (High-Level Panel of Eminent Persons) di preparare un rapporto su “Minacce, sfide e mutamento”, che contenesse sia la diagnosi della situazione presente sia le proposte su come rafforzare le NU perché forniscano sicurezza collettiva per tutti nel XXI secolo. Il Rapporto, intitolato “Un mondo più sicuro: la nostra responsabilità condivisa” è stato reso pubblico nel dicembre 2004. Ad esso ha fatto seguito il Rapporto del Segretario Generale Kofi Annan intitolato “In una più ampia libertà: verso lo sviluppo, la sicurezza e i diritti umani per tutti”, pubblicato nel marzo 2005. (A proposito di questa titolazione è appena il caso di ricordare che l’ispirazione è palesemente mutuata dal famoso discorso delle “quattro libertà” del Presidente F.D.Roosevelt).
- Disponiamo dunque di due importanti e aggiornati documenti ufficiali, contenenti diagnosi e prescrizioni sul futuro delle NU. Quanto segue è un’analisi critica di quelle parti dei Rapporti che riguardano in particolare gli aspetti militari della sicurezza.
- Ambedue i Rapporti ammettono che “le NU sono state molto più efficaci nell’affrontare le maggiori minacce alla pace e alla sicurezza di quanto si possa pensare, tuttavia mutamenti maggiori sono necessari se le NU devono essere efficaci, efficienti ed eque nel fornire sicurezza collettiva per tutti”. Essi condividono l’assunto secondo cui le minacce alla sicurezza devono essere affrontate secondo l’approccio della “sicurezza umana” (human security), la Carta delle NU conserva intatta la sua validità e gli emendamenti devono essere limitati alle disposizioni riguardanti la composizione del Consiglio di Sicurezza e l’istituzione di organi sussidiari. Kofi Annan è esplicito al riguardo: “Faccio pienamente miei l’ampia visione che il Rapporto del Panel traccia e il suo favore per una più organica concezione della sicurezza collettiva, che si fa carico sia delle minacce vecchie e nuove sia delle preoccupazioni di tutti gli stati”.
- La diagnosi fornita dai Rapporti è realistica, anche se parziale, la prescrizione che ne segue è povera, e io sottolineo, anche pericolosa.
- Nei Rapporti sono indicati sei grappoli di minacce alla sicurezza:
- minacce economiche e sociali quali povertà, malattie infettive e degrado ambientale;
- conflitti interstatuali;
- conflitti interni, compresi guerra civile, genocidio e altre atrocità su vasta scala;
- armi nucleari, radiologiche, chimiche e biologiche;
- terrorismo;
- crimine transnazionale organizzato.
- Un primo commento a caldo è che i Rapporti tacciono su rilevanti minacce quali:
- la persistente violazione di principi e norme del vigente Diritto internazionale anche ad opera di stati “democratici”;
- la dottrina e la prassi della cosiddetta guerra preventiva;
- il riarmo e il commercio di armi che massicciamente coinvolgono tutti i cinque membri permanenti del Consiglio di Sciurezza;
- la teorizzazione “scientifica” e la pianificazione politica dello scontro delle civiltà (clash of civilisations) e delle cosiddette guerre religiose ed etniche;
- la persistente, iniqua “divisione internazionale del lavoro” tra paesi ad economia sviluppata e paesi ad economia povera;
- la deregolamentazione in atto portata sia alle relazioni economiche sia al quadro istituzionale multilaterale della politica internazionale.
- La parte propositiva dei Rapporti parte da una premessa realistica, implicita nel Rapporto del Panel, esplicita in quello di Kofi Annan: “c’è scarsa evidente accettazione internazionale che l’idea di sicurezza possa essere meglio preservata da un equilibrio di potere (balance of power), o da una singola – per quanto benignamente motivata – superpotenza”. E’ chiaro il cenno alle pretese egemoniche degli USA. Il Panel “osa” perfino citare letteralmente una frase del discorso pronunciato dal Presidente Truman alla sessione conclusiva della Conferenza del 1945 da cui è scaturita la Carta delle NU: “Noi tutti dobbiamo riconoscere – a prescindere da quanto grande sia la nostra forza – che dobbiamo negare a noi stessi la licenza di fare qualunque cosa ci piaccia”! - Ma le proposte che seguono non sono coerenti con queste sane (e coraggiose) premesse.
- Poiché le minacce alla sicurezza non hanno confini, dicono i Rapporti, “gli stati devono sforzarsi di costruire consenso per condividere diritti e responsabilità nel contesto multilaterale della sicurezza collettiva” e quindi “essere in prima linea nel combattere le minacce alla sicurezza” mentre le NU “devono essere capaci di meglio assistere gli stessi stati nello sviluppare le loro capacità” (corsivo aggiunto). Ancora, partendo dall’assunto che “c’è crescente convergenza nel ritenere che il problema che si pone per gli stati riguarda non il ‘diritto di intervenire’, ma la ‘responsabilità di proteggere’ quando si tratta della sofferenza della gente (people suffering)”, nei Rapporti ci si dichiara a sostegno della “norma emergente secondo cui esiste una responsabilità collettiva di proteggere” (corsivo aggiunto).
- Le espressioni “costruire consenso” e “responsabilità di proteggere” potrebbero essere quelle di un manifesto nobilmente mobilitante, ma quanto i Rapporti vi costruiscono sopra, organicamente, dà come risultato il quadro di una strategia destabilizzante. “Costruire consenso” tra gli stati non è infatti finalizzato in via primaria a costringerli ad adempiere ai principi e agli obblighi della Carta delle NU – in particolare a quelli contenuti negli articoli 1 e 2 riguardanti il divieto dell’uso della forza, l’obbligo di risolvere pacificamente i conflitti nonché la primaziale competenza dell’ONU in materia di pace e sicurezza – bensì ad accordarsi su una (nuova) “divisione del lavoro militare” tra l’ONU e gli stati che, basandosi sulla distinzione tra “peace-keeping” (mantenimento della pace) e “use of force” (uso della forza), assegna all’ONU il compito ancillare di “assistere” gli stati nell’esercitare le loro capacità “muscolari”.
- L’allarmante verità è che si sta perseguendo l’obiettivo di snaturare la logica pacificatrice contenuta nella Carta delle NU con la costruzione di una trappola i cui elementi sono costituiti dall’arbitraria interpretazione dell’articolo 51 e dalla totale “dimenticanza” di altri, fondamentali articoli della Carta. Nonostante il linguaggio ambiguo e tortuoso dei Rapporti, il gioco è abbastanza scoperto, come cercherò di dimostrare nelle considerazioni che seguono.
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3. Pericolosi bizantinismi sull’articolo 51, porta aperta alla guerra facile
- - L’articolo 51 recita:
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- “Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantochè il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere ed il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” (corsivo aggiunto). -- Il Panel asserisce che “l’articolo 51 non deve essere né riscritto né reinterpretato, nè per estenderne la sua consolidata funzione che è quella di permettere misure preventive in risposta a minacce non-imminenti, nè per restringerne la portata sì da limitarne l’applicazione soltanto agli attacchi in atto” (corsivo aggiunto). E precisa: “uno stato minacciato, in conformità con il consolidato diritto internazionale, può intraprendere un’azione militare nella misura in cui l’attacco minacciato è imminente, non esistono altri mezzi per affrontarlo e l’azione è proporzionata”. Questa interpretazione è palesemente difforme dal non ambiguo testo letterale dell’articolo 51, il quale si riferisce esclusivamente all’uso della forza in presenza di attacco armato di stato contro stato. Dunque, nonostante che la Carta delle NU parli, inequivocabilmente, di legittima difesa “successiva”, non “preventiva”, il Panel non esita a far propria l’accezione “preventiva” della legittima difesa quale avallata dal vecchio Diriritto interstatuale, precedente la Carta delle NU: insomma, un bel salto all’indietro. - Affermando che “i giuristi hanno da lungo tempo riconosciuto che l’articolo 51 riguarda sia l’attacco imminente sia quello già accaduto” (an imminent attack as well as one that has already happened), il Segretario Generale si unisce al Panel nel fornire l’interpretazione arbitrariamente estensiva dell’articolo in questione.
- E’ di tutta evidenza che se si accedesse a questa tesi, l’articolo 51 da rigorosa eccezione passerebbe al rango di norma generale, con la conseguenza che gli stati non avrebbero più remore a farsi gestori oligopolistici della sicurezza mondiale: insomma, le sovranità nazionali armate prevarrebbero definitivamente sull’autorità “sopranazionale” delle NU.
- Non è affatto vero che i giuristi concordano nell’interpretazione estensiva dell’articolo 51 aggiungendo alla “attualità” dell’attacco armato anche la “imminenza” e perfino la “latenza” quali circostanze legittimanti. La verità è che taluni stati, in particolare gli Usa, Israele e l’ex Urss, hanno estensivamente (cioè illegalmente) interpretato e attuato l’articolo. Ci si sarebbe aspettato che, in ossequio alla verità, all’onestà e alla legalità, i Rapporti facessero debito riferimento non alla compiacenza servile di quei giuristi (consiliarii principis) che sono sensibili al richiamo della Realpolitik, ma al ben noto comportamento illegale di certi stati mirante a sovvertire l’intrinseca ratio – pacificatrice e ‘sopranazionale’ - della Carta delle NU e del Diritto internazionale.
- Dopo avere disinvoltamente stravolto il senso dell’articolo 51, il Panel va coerentemente avanti. Premesso che “il problema sorge quando la minaccia non è imminente ma si asserisce essere reale”, esso pone l’interrogativo: “Può uno stato, senza andare al Consiglio di Sicurezza, invocare in queste circostanze il diritto di agire in autotutela preventiva (anticipatory self-defense), non proprio “pre-emptivamente” (pre-emptively) contro un attacco imminente o ravvicinato (imminent or proximate) ma preventivamente (preventively) contro un attacco non-imminente o non-ravvicinato (non-imminent or non-proximate)?”. Quale angoscioso dilemma, verrebbe da dire … In realtà, questo tortuoso problematizzare ha come esito quello di offrire agli stati una più ricca tipologia di “opportunità” per l’uso della forza, unilaterale o in ‘coalizioni’ che sia. E’ lo stesso Panel a dire cosa c’è dietro questa ‘raffinata’ tipologia: “Se ci sono buone ragioni per l’azione militare preventiva, con buona evidenza a suo sostegno, tali ragioni devono essere portate al Consiglio di sicurezza, il quale può autorizzare una tale azione se così sceglie” (corsivo aggiunto). Per i casi di “pre-emptività” e di “protettività” (chiamiamoli pure così) nessun riferimento è fatto al Consiglio di Sicurezza, ciò significa che gli stati sarebbero completamente liberi di agire in via unilaterale. Nel caso della “preventività” il Consiglio di Sicurezza sarebbe chiamato in causa per “autorizzare” le azioni militari intraprese dagli stati (nel Rapporto di Kofi Annan di usa anche il verbo “approvare” tali azioni). Il Consiglio avrebbe la stessa funzione “notarile” anche per i casi di “protettività”.
- Il riferimento a un nascente principio giuridico che si chiamerebbe della “responsabilità collettiva di proteggere” e che in via di principio risponde a insopprimibili istanze di etica universale, può essere foriero di un clima di incertezze e di una generalizzata pratica di abusi circa l’uso della forza. Si estenderebbe infatti il ventaglio di possibilità per gli stati di usare la forza, mentre si assegnerebbe al Consiglio di Sicurezza il potere di “autorizzare altri” – appunto gli Stati, singoli o in coalizioni “multinazionali” - ma non anche quello di “decidere e gestire in proprio”, cioè sotto autorità e comando “sopranazionali”, le operazioni sul terreno. Altrimenti detto, il nobile appeal dell’etica del “proteggere” può rivelarsi funzionale alle più arbitararie ragioni di “geopolitica” se la sua traduzione operativa non è direttamente gestita dalle NU. Abbiamo già sperimentato la mistificazione delle guerre dei (o per i) diritti umani e la confusione tra “diritto umanitario” (ius in bello, diritto di guerra) e “diritti umani” …
- Il Rapporto del Segretario Generale, facendo acriticamente propria l’arbitraria interpretazione della Carta delle NU elaborata dal Panel, ci consegna il seguente quadro di “nuovo sistema di sicurezza collettiva”:
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Nazioni Unite4. Implementare l’articolo 43, abrogare lo scandaloso articolo 106
- (soltanto) Peace-keeping
- and peace-building
- le UN “intraprendono” (take action)
- - Stati
- Uso della forza (Use of force)
- (le UN, in alcuni casi, “autorizzano”,
- “approvano”
- (authorise, endorse)
- - Attacco armato in atto
- (armed attack)
- autotutela individuale o collettiva successiva ad attacco armato, art.51
- (“individual or collective self-defence if an armed attack occurs”)
- non c’è bisogno di “autorizzazione”
- del Consiglio di sicurezza
- - Minaccia imminente
- (imminent threat)
- uso pre-emptivo della forza
- (pre-emptive use of force)
- non ci sarebbe bisogno di “autorizzazione”
- del Consiglio di sicurezza
- - Minaccia non imminente o latente
- (non-imminent or latent threat)
- uso preventivo della forza
- (preventive use of force)
- ci sarebbe bisogno di “autorizzazione”
- o “approvazione” del Consiglio di sicurezza
- - Genocidio o atrocità affini
- (genocide or similar atrocities)
- uso della forza protettivo
- (protective use of force)
- ci sarebbe bisogno di “autorizzazione”
- o “approvazione”del Consiglio di sicurezza
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- - Quanto sopra elucidato spiega perché nei due Rapporti non vengono mai richiamati gli articoli 42 e 43 della Carta i quali, com’è facile arguire dalla lettera dei rispettivi testi, dotano di coerente “azionabilità” i principi generali e gli obiettivi statutari enunciati negli articoli 1 e 2 della Carta.
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- Art.42: “Se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste dall’art.41 (le sanzioni) siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite (corsivo aggiunto). --
- Art.43: “1. Al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i membri delle Nazioni Unite si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua richiesta e in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l’assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessario per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. 2. (…) 3. L’accordo o gli accordi saranno negoziati al più presto possibile su iniziativa del Consiglio di Sicurezza. Essi saranno conclusi tra il Consiglio di Sicurezza ed i singoli Membri, oppure tra il Consiglio e i gruppi di membri, e saranno soggetti a ratifica da parte degli stati firmatari in conformità alle rispettive norme costituzionali” (corsivo aggiunto). -- - A spiegare la connessione esistente tra questi due articoli è l’articolo 106 (Cap.XVV: “Disposizioni transitorie di sicurezza”, tuttora in vigore…):
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- “In attesa che entrino in vigore accordi speciali, previsti dall’articolo 43, tali, secondo il parere del Consiglio di Sicurezza, da rendere ad esso possibile di iniziare l’esercizio delle proprie funzioni a norma dell’articolo 42, gli Stati partecipanti alla Dichiarazione delle Quattro Potenze, firmata a Mosca il 30 ottobre 1943, e la Francia, giusta le disposizioni del paragrafo 5 di quella Dichiarazione, si consulteranno fra loro e, quando lo richiedono le circostanze, con altri Membri delle Nazioni Unite in vista di quell’azione comune necessaria al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. -- - L’articolo 42 prevede dunque che l’ONU possa “intraprendere” e assumere il comando in proprio di un’operazione militare – beninteso, per fini che non potranno mai essere di guerra (proscritta dalla Carta come “flagello”) ma di “polizia”, dunque per fini genuinamente umanitari e di giustizia: sono dunque esclusi i bombardamenti e la distruzione di quanto è necessario alla normale vita delle popolazioni.… -, mentre l’articolo 43 prevede la costituzione di una forza militare a disposizione delle NU in via permanente.
- Dalla messa in relazione fra loro degli articoli sopra citati, risulta chiaro che l’implementazione dell’articolo 43 rende possibile quella dell’articolo 42, il quale a sua volta mette l’ONU nella condizione di esercitare, senza deleghe, autorità e poteri autenticamente “sopranazionali”.
- Ma i Rapporti, invece di chiamare in gioco appunto questi due articoli, preferiscono stravolgere – ripeto, stravolgere – il non ambiguo contenuto dell’articolo 51. Coerentemente, prevedono per il Consiglio di Sicurezza il solo compito di “autorizzare” o “approvare” azioni militari intraprese e comandate da stati, i più potenti dei quali avanzeranno sempre ”buoni argomenti”, muniti di congrua pressione, per guadagnarsi “autorizzazioni” o “approvazioni” delle NU, magari strappando Risoluzioni quanto più possibile generiche e ambigue: insomma il timbro NU sul fait accompli.
- Ignorare intenzionalmente gli articoli 42 e 43, come fanno i due Rapporti in esame, non può essere frutto di una svista. La voluta dimenticanza lascia trasparire il disegno mirante a fare di uno stravolto articolo 51 la pietra angolare di un multilateralismo armato à la Carte, come dire la geopardizzazione della sicurezza con esiti di permanente destabilizzazione in ogni parte del mondo.
- Questo disegno è ulteriormente reso esplicito dallo sbrigativo paragrafo che i Rapporti dedicano agli emendamenti da apportare alla Carta delle NU. La prima proposta è di abrogare gli articoli 53 e 107 (che si riferiscono agli “stati nemici” all’epoca della seconda guerra mondiale, dunque Italia compresa). E’ appena il caso di fare presente che questo è tanto corretto quanto tardivo dal punto di vista storico, legale e politico. Ma gli autori dei Rapporti propongono anche di cancellare l’intero articolo 47, che dispone per l’istituzione di un Comitato di Stato Maggiore col compito di
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- “1 … consigliare e coadiuvare il Consiglio di Sicurezza in tutte le questioni riguardanti le esigenze militari del Consiglio per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, l’impiego e il comando delle forze poste a sua disposizione, la disciplina degli armamenti e l’eventuale disarmo. (…) 3. Il Comitato di Stato Maggiore ha, alle dipendenze del Consiglio di Sicurezza, la responsabilità della direzione strategica di tutte le forze armate messe a disposizione del Consiglio …”(corsivo aggiunto). -- E’ fin troppo evidente che la proposta di abrogare questo articolo è intesa a castrare l’ONU dei suoi attributi di autorità e comando “sopranazionali”, essa è quindi perfettamente strumentale all’intento di demolire il sistema di sicurezza collettiva quale concepito dalla Carta delle NU.
- E’ ben vero che, in sintonia con il Rapporto del Panel, Kofi Annan propone che l’ONU venga dotata di “riserve strategiche per il “peacekeeping” e di una “struttura di rapido impiego di polizia civile”, ma egli lo fa sfuggendo alla ratio sopranazionalistica degli articoli 42 e 43. Le “riserve” dovrebbero far parte di un “interlocking system of peacekeeping capacities” (sistema di collegamento di capacità di peacekeeping), il quale includerebbe, in via permanente, anche le strutture militari di rapido impiego rese disponibili da Organizzazioni regionali quali l’Unione Europea e l’Unione Africana, espressamente menzionate nel Rapporto.
- Fortunatamente questa proposta, se adeguatamente colta, si ritorce contro la logica demolitrice dei due Rapporti. Essa è infatti utile a farci tranquillamente sostenere che le preconizzate intese tra l’ONU e queste Organizzazioni regionali per la messa a disposizione delle Nazioni Unite di forze militari di rapido impiego (stand-by), darebbero esecuzione proprio a quell’articolo 43 che i Rapporti hanno inteso eludere ma che, giova sottolineare, si riferisce ad accordi non soltanto con singoli stati ma anche con “gruppi di membri” delle NU. Ciò che intendo dire è che l’ONU risulterebbe essere fornita di quella base ‘materiale’ e legale che le consente di “decidere” e di “intraprendere” (take action) secondo quanto disposto dall’articolo 42, quindi di gestire direttamente operazioni di polizia militare: non soltanto per il più o meno classico (e leggero) peacekeeping come propongono i Rapporti, ma anche per quelle altre operazioni che sono ricomprese nella tipologia eplicitamente indicata dallo stesso articolo 42.
- Gli accordi con le Organizzazioni regionali consentono di riempire di contenuti e perfezionare organicamente l’architettura di sicurezza collettiva mondiale disegnata dalle disposizioni dei Capitoli VI, VII e VIII della Carta: Capitoli che sono, è bene sottolinearlo, fra loro interconnessi in punto di logica e di diritto. Si ricorda in particolare che, ai sensi dell’articolo 53 del Cap.VIII, le organizzazioni regionali possono intraprendere azioni militari soltanto previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza:
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- “1. Il Consiglio di Sicurezza utilizza, se del caso, gli accordi o le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione. Tuttavia, nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza (…)” (corsivo aggiunto). -- Dunque, per via di di accordi stand-by, il sistema di sicurezza delle NU si avvarrebbe anche di robusti apporti regionali e il Capitolo VIII della Carta troverebbe corretta attuazione nel suo porsi in diretto collegamento con il Capitolo VII. Insomma si compirebbe un passo avanti che è di altissimo rilievo politico per le seguenti ragioni: primo, a fare gli accordi col Consiglio di Sicurezza previsti dall’articolo 43 sarebbero non i singoli stati, ma gruppi di stati, come dire che l’impegno pattizio sarebbe già in partenza segnato da una chiara impronta multilateralistica; secondo, il potere del Consiglio di Sicurezza di “autorizzare” le organizzazioni regionali a eventualmente impiegare la forza militare secondo i principi e gli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, risulterebbe sostanzialmente incrementato dal fatto che le strutture militari regionali, quanto meno per le loro parti stand-by, sarebbero non più autonome come prima, ma inserite nel preconizzato “interlocking system” sotto autorità appunto delle NU; terzo, il collegamento organico tra l’Unione Europea e le Nazioni Unite specificamente in materia di sicurezza offre argomento inconfutabile per l’ammissione dell’UE al Consiglio di Sicurezza; quarto, per un’organizzazione regionale come la NATO, non menzionata dai Rapporti che stiamo analizzando ma il cui Statuto prevede espressamente l’incardinamento nella Carta delle NU e dunque il collegamento gerarchico con il Consiglio di Sicurezza, diventerrebbe difficile proseguire sulla via dello sganciamento dalla Carta come clamorosamente annunciato nel 1999 con la guerra in Kossovo.
- Un’altra importante implicazione è che il vergognoso articolo 106, che consente a quei cinque stati che sono anche membri del Consiglio di Sicurezza di essere “transitoriamente” al di sopra della Carta, dunque legibus soluti, non ha più alcuna ragion d’essere e deve essere abrogato. E’ semplicemente scandaloso che nei Rapporti del Panel e del Segretario Generale non si faccia denuncia del permanere di una situazione (transitoria…dal 24 ottobre del 1945) che è manifestamente paradossale dal duplice punto di vista storico, politico, giuridico e morale. Anche questa “dimenticanza” trova la sua ragion d’essere, tutta di Realpolitik, nel tortuoso argomentare che ambedue i Rapporti fanno attorno all’articolo 51 e svela l’arcano della “dimenticanza” degli articoli 42 e 43. Ma poiché, come ho prima cercato di dimostrare, la costituzione di un sistema permanente di collegamento di forze militari conferite dalle organizzazioni regionali darebbe implementazione all’articolo 43, non sussiste più, oggi, alcun alibi per non abrogare lo scandaloso articolo 106.
- Tuttavia, c’è il punto delicato riguardante le “standby capacities” che Kofi Annan propone siano direttamente istituite dalle NU ma che il loro impiego sia soltanto per fini di (più o meno tradizionale) peace-keeping, e non anche per altri fini (sempre, beninteso, compatibili con quanto disposto dagli articoli 1 e 2), per esempio di peace-making o di peace-enforcing. Se passasse questa proposta, l’uso della forza da parte delle NU avverrebbe a titolo per così dire leggero, ovvero residuale – Caschi Blu come Angeli Blu…-, lasciando che gli stati più forti, singolarmente o per coalizioni, facciano tutto il resto, inclusa la guerra preventiva. Una siffatta divisione del lavoro militare fra stati e ONU andrebbe a tutto detrimento di quest‘ultima, cioè a detrimento della legalità, della sicurezza e della pace.
- Ancora una volta, tutto si tiene nei Rapporti: nessun richiamo agli articoli 42 e 43, dunque possibilità soltanto di peace-keeping per le Nazioni Unite, … briglia sciolta agli stati. E’ una vecchia storia quella della tesi, sostenuta soprattutto dalle Amministrazioni USA vecchie e nuove, secondo cui “l’ONU faccia ciò che può fare” e la cui traduzione è “l’ONU faccia quel poco che gli stati le permettono di fare”. Questa tesi di comodo, sostenuta in prima fila dagli USA, è in stridente contrasto con la tesi del primato della legalità, che coincide con la tesi della verità: “gli stati adempiano all’obbligo giuridico di mettere l’ONU nella condizione di fare ciò che la Carta stabilisce di fare”.
- - - 5. Quale “nuovo” Consiglio di Sicurezza se resiste il “vecchio” potere di veto?
- - Con questa allarmante prospettiva, ci chiediamo: quale “nuovo” Consiglio di Sicurezza mentre rimarrebbe intatto, come sostengono i Rapporti, il “vecchio” potere di veto in capo ai cinque membri permanenti?
- E’ ampiamente noto, anche per le amplificazioni scandalistiche fornite dai mass-media, che per quanto riguarda la composizione del Consiglio, il Rapporto del Segretario Generale recepisce alla lettera i due modelli proposti, in alternativa fra loro, dal Panel. Il primo modello prevede l’estensione del seggio permanente a sei nuovi membri, ma senza potere di veto: 2 per Asia e Pacifico, 2 per l’Africa, 1 per l’Europa, 1 per le Americhe. I seggi non permanenti, per un periodo di due anni, non rinnovabili, salirebbero a 13: 4 per l’Africa, 3 per l’Asia e il Pacifico, 2 per l’Europa, 4 per le Americhe. Il numero totale quindi passerebbe dagli attuali 15 a 24.
- Il secondo modello prevede l’ingresso di 8 nuovi membri, che rimarrebbero in Consiglio per 4 anni rinnovabili, senza potere di veto (sarebbero questi i cosiddetti semi-permanenti): 2 per l’Asia e il Pacifico, 2 per l’Africa, 2 per l’Europa, 2 per le Americhe. I non permanenti, per una durata di due anni, non rinnovabili, salirebbero a 11, per una totale complessivo, anche in questa ipotesi, di 24.
- E’ palese che i due modelli non sono affatto alternativi nella sostanza, poiché sia i sei nuovi ‘permanenti’ sia gli otto ‘semi-permanenti mancherebbero, comunque, del potere di veto, che rimarrebbe invece privilegio esclusivo degli attuali cinque membri permanenti.
- Mi chiedo che cosa cambierebbe realmente, al di là del pur necessario aumento di rappresentatività geografica. Di certo, si produrrebbe un incremento del tasso di discriminazione fra stati membri delle Nazioni Unite: tra vecchi permanenti con potere di veto, nuovi permanenti o semi-permanenti (quadriennali) senza tale potere, membri per così dire stagionali. I nuovi permanenti o semi-permanenti si qualificherebbero, sotto il profilo della capacità di sicurezza, come “paesi in sviluppo” (security developing countries) rispetto ai cinque vecchi permanenti che sarebbero “paesi sviluppati” (security developed countries). Una foto d’insieme piuttosto ridicola, dove il mero maquillage è la nota più evidente.
- Manca nei Rapporti una presa di posizione sull’anacronistico potere di veto riservato ai cinque. Ma anche in questo caso, è impossibile pensare realisticamente alla sua abolizione se non si mette in piedi un efficace sistema di sicurezza collettiva ai sensi degli articoli della Carta più volte citati.
- Ancora una volta, tutto si tiene nei due Rapporti: niente articoli 42 e 43, quindi persistenza dell’articolo 106, dunque intoccabilità del potere di veto per chi è al di sopra della legge ai sensi dell’articolo da ultimo citato.
- Si può però pretendere che, in attesa di tempi migliori, venga pubblicamente messa in campo l’idea di una moratoria per quanto attiene all’esercizio del potere di veto.
- Ancora, non si può fare a meno di rilevare che nulla dicono i Rapporti sulla necessità che, nel deliberare, il Consiglio di Sicurezza proceda nel rispetto dei principi dello stato di diritto (rule of law) - che pure sono continuamente evocati negli ambienti delle Nazioni Unite - e che quindi venga riconosciuta alla Corte Internazionale di Giustizia la competenza a esercitare il controllo di legittimità sugli atti del Consiglio.
- Una nota positiva, almeno una, è costituita dall’idea, condivisa dai due Rapporti, di innovare sulla procedura di voto del Consiglio, nel senso di far precedere la votazione formale da un “voto pubblico indicativo” (public indicative voting), che si realizzerebbe senza veto e senza vincoli formali per le successive decisioni giuridicamente vincolanti, dove invece il veto potrebbe esercitarsi. Questa procedura, che presenta analogie con le tecniche di simulazione, avrebbe comunque il merito di rendere, oltre che più trasparente, anche più cauto e ponderato il comportamento degli stati: come dire, panni sporchi in pubblico Insomma, ci si avvicinerebbe a rispettare qualche parametro indicato come essenziale per le good practices specie se al “voto preliminare” potesse partecipare una rappresentanza delle Ong con status consultivo alle Nazioni Unite.
- Ma appunto di Ong non c’è traccia neppure per la composizione di una Commissione sul Peace-building, la cui istituzione è proposta da ambedue Rapporti: la composizione sarebbe rigorosamente intergovernativa. Anche questo è scandaloso, se si pensa che proprio nelle operazioni di peace-building le Ong sono indispensabili come il sale.
- - - 6. Ma allora, quale futuro per la democrazia internazionale?
- - La ormai lunga, annosa strada per la riforma delle Nazioni Unite è costellata di innumerevoli “rapporti” - tutti, naturalmente, preparati da persone illustri, distinte, sagge, eminenti…-, ma senza alcun significativo potere politico dietro di essi: la metafora appropriata è quella di un cimitero le cui lapidi funerarie sono costituite appunto dai “rapporti”.
- I due Rapporti che sono sotto la nostra analisi critica si distinguono e sono più importanti dei molti che li hanno preceduti innanzitutto per le circostanze, anzi le urgenze storiche in cui sono stati elaborati - guerre preventive, guerre senza vittorie, diffusa de-regulation, neoconservatorismo e neoliberismo allo sbaraglio, terrorismo dilagante, riarmo…-, ma anche per essere particolarmente sistematici e chiari nell’esposizione delle tematiche.
- Il loro assunto di fondo, cioè che la Carta delle Nazioni Unite mantiene piena validità e che la sicurezza è la “sicurezza umana”, non può non essere condiviso. Non altrettanto può dirsi del modo e della sostanza con cui i Rapporti declinano questo nobile assunto.
- La filosofia dei Rapporti è pesantemente intergovernativa, anzi statocentrica con buona pace della perdurante, irreversibile erosione di capacità di governance degli stati “nazionali, sovrani, armati, confinari”. Come ho cercato di dimostrare, l’analisi dei Rapporti ci consegna la trappola che possiamo chiamare del recul, cioè del consentire agli stati di recuperare, per quanto attiene alla materia della sicurezza armata, proprio quella sovranità che l’articolo 2, par.7 della Carta ha trasferito alle NU. Consentire agli stati di usare la forza a scopi di ‘pre-emption’, ‘prevention’ e ‘protection’, non più soltanto per autotutela successiva ad attacco armato, comporta che gli stessi stati si riapproprino in pieno l’antico, nefasto ius ad bellum che proprio la Carta delle Nazioni Unite aveva loro sottratto: un bel passo indietro per quella civiltà del diritto che si propone di definitivamente far uscire i rapporti internazionali dallo stadio della “guerra di tutti contro tutti”, bellum omnium contra omnes. Gli estensori dei Rapporti, con l’appello “costruire consenso” dicono agli stati “trovate pure le regole del gioco che, più o meno elegantemente, la disattendano”.
- Ancora, nei Rapporti non c’è traccia alcuna di sensibilità per il valore della democrazia internazionale, non c’è attenzione per la necessità di democratizzare le istituzioni internazionali a cominciare dall’ONU proprio nel momento in cui il discorso sulla democrazia viene enfatizzato per esportare forzosamente la medesima e addirittura per fare la guerra. C’è del paradossale anche su questo versante: i Rapporti non soltanto ignorano la democrazia internazionale genuinamente intesa nella duplice, contestuale articolazione di più diretta legittimazione popolare degli organi che decidono sul piano internazionale e di partecipazione ai processi di presa delle decisioni, ma addirittura infieriscono sulla stessa idea di “democrazia” (impropriamente) intesa dalle diplomazie quale attuazione del principio di cosiddetta sovrana eguaglianza degli stati “one country, one vote”. Come abbiamo prima messo in evidenza, essi propongono infatti di discriminare gli stessi membri del Consiglio di Sicurezza tra quelli di prima, seconda e terza fila.
- Il fatto di eludere la sfida della democratizzazione internazionale spiega perché i Rapporti glissino sulla fertile realtà delle tante strutture di società civile globale, una realtà che è assolutamente indispensabile per il perseguimento degli obiettivi insiti nell’idea di “sicurezza umana”. Le Ong vengono escluse oltre che, come prima accennato, dalla Commissione sul Peace-building, anche dalla dall’altra preconizzata Commissione “sugli aspetti economici e sociali della minacce alla sicurezza”, quale organo sussidiario del Consiglio Economico e Sociale. E naturalmente nulla si dice per estendere il regime di status consultivo delle Ong al funzionamento del Consiglio di Sicurezza.
- A costo di apparire fin troppo ingenuo, non posso astenermi dal denunciare lo scandalo che solleva una così scarsa attenzione per le innumerevoli organizzazioni e movimenti di società civile che quotidianamente si sforzano di perseguire gli interessi comuni dei “membri della famiglia umana”. Nel Rapporto del Segretario Generale di Ong si parla in relazione all’attuale, riformanda Commissione diritti umani delle NU, la cui composizione, in veste più o meno allargata, più o meno ristretta, è preconizzata rimanere rigorosamente intergovernativa: le Ong parteciperebbero ai lavori col vecchio status meramente consultivo.
- Alla luce di questa prospettiva, che peso dare ai rapidi cenni di rinvio che ambedue i Rapporti fanno al Rapporto del “Panel di eminenti persone” sulle “relazioni delle NU con la società civile” intitolato “Noi, i Popoli: Società civile, Nazioni Unite, governance globale” (il cosiddetto Rapporto Cardoso, dal nome del presidente del Panel), un Rapporto senz’altro interessante, ma del quale i nostri Rapporti evitano accuratamente di riprendere qualsiasi proposta puntuale? Ong sempre e soltanto portatrici d’acqua nell’arena della politica mondiale?
- Nel frattempo, gli stati si stanno aggregando in gruppi e sotto-gruppi informali con l’obiettivo di portare avanti i rispettivi interessi nel proceso di riforma delle NU: per esempio, il Gruppo dei Quattro-G4 (Brasile, India, Germania, Giappone) favorevole ad aumentare il numero di membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, e il Gruppo cosiddetto dei “Like-Minded Countries: Uniting for Consensus” (comprendente tra gli altri l’Italia, il Messico, il Pakistan), favorevole, tra l’altro, all’ingresso nel Consiglio di Sicurezza delle organizzazioni regionali. Anche il Movimento dei Non-Allineati sta dimostrando rinnovata vitalità in funzione, anch’esso, di lobbying per una ONU più rappresentativa delle diverse realtà nel mondo. Siamo in presenza di veri e propri “gruppi di pressione” di natura intergovernativa che condividono, nella sostanza, la medesima filosofia statocentrica: allargare la composizione del Consiglio di Sicurezza, aumentarne il numero di membri permanenti, riappropriarsi di un diritto di usare la forza all’interno di un sempre più ampio ventaglio di possibilità, ignorare la sfida della genuina democrazia internazionale.
- A questo punto è necessario far presente che la Carta delle Nazioni Unite si articola in due sezioni tematiche fondamentali, una dedicata alla sicurezza, l’altra allo sviluppo. Se si assume, come pur fanno i nostri Rapporti, che la sicurezza è “sicurezza umana” e lo sviluppo è “sviluppo umano”, le due sezioni devono necessariamente essere considerate come interdipendenti e indivisibili, analogamente ai diritti umani. Ne discende che il Consiglio Economico e Sociale, Ecosoc, non è meno importante del Consiglio di Sicurezza. Una coerente riforma delle NU deve porsi l’obiettivo di equilibrare il peso dei due Consigli. In termini politici, questo significa rafforzare l’Ecosoc in modo da renderlo capace di affrontare le minacce economiche, sociali e ambientali alla sicurezza col potere reale di “decidere” politiche pubbliche internazionali e di controllare il comportamento del Fondo Monetario, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nonché di coordinare le organizzazioni regionali con finalità economiche e sociali. A questo riguardo, il Rapporto di Kofi Annan appare più sensibile del Rapporto del Panel: nel quinto capitolo del suo documento, il riferimento è infatti al plurale, cioè ai “Consigli”, con la opportuna sottolineatura che “mentre il Consiglio di Sicurezza ha affermato la propria autorità, il Consiglio Economico e Sociale è stato troppo spesso relegato al margine della governance sociale e globale”. Però il Segretario Generale, mentre da un lato fa presente che “gli autori della Carta non hanno dato all’Ecosoc potere reale” (enforcement power), dall’altro propone di “rendere più importante il potenziale ruolo (dell’Ecosoc) quale coordinatore, aggregatore (convener), forum per il dialogo politico nonché forgiatore (forger) di consenso” (corsivo aggiunto). E’ evidente che si tratta di ruoli deboli, assolutamente non paragonabili a quelli del Consiglio di Sicurezza. Il mito dell’economia di mercato e del free trade tuttora pesa. Potremmo anche dire che finchè esisterà il G8 non ci potrà essere spazio per un Ecosoc con effettivi poteri di governance sociale ed economica.
- Eppure, non dovrebbe risultare difficile al Segretario Generale argomentare sul nesso esistente tra la filosofia dello “sviluppo umano”, il “diritto allo sviluppo” e l’imperativo di “tutti i diritti umani per tutti”, quest’ultimo da realizzarsi secondo il principio della loro interdipendenza e indivisibilità. Mi pare superfluo ricordare che proprio la materia dei diritti umani ricade sotto la specifica competenza dell’Ecosoc e che pertanto il futuro di questo organo dipende in buona misura dallo sviluppo che si vorrà dare alla machinery dei diritti umani.
- A questo proposito oculata attenzione merita la proposta, prima accennata, di trasformare l’attuale Commissione dei diritti umani, che si riunisce per due mesi l’anno, in un organo funzionante in permanenza. Nel Rapporto del Panel si ipotizza che la sua composizione si estenda, dagli attuali 54, a tutti i membri delle NU. Dal canto suo, il Segretario Generale è favorevole all’idea di trasformare la Commissione in un più ristretto Consiglio dei diritti umani, direttamente collegato all’Assemblea Generale. Le ragioni addotte sono quelle dell’efficienza e della efficacia, ma sullo sfondo sta l’idea di distinguere tra paesi virtuosi e paesi che non lo sono. Verrebbe spontaneo chiedersi perché non si porti a galla la distinzione tra paesi peace-loving e paesi war-loving…Si vedrebbe subito in quale categoria si collocherebbero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, massimi produttori ed esportatori di armi nonché facitori di operazioni belliche vietate dalla Carta …
- E’ di tutta evidenza che la posta in gioco è di altissimo rilievo politico.
- Per l’effettività dei diritti umani universalmente riconosciuti e per la credibilità delle Nazioni Unite occorre evitare che, proprio su un terreno così delicato sotto il profilo dell’etica e del diritto, da un lato, si creino ulteriori discriminazioni tra i membri delle NU, dall’altro, si ermarginino sempre più le formazioni di società civile. La materia dei diritti umani è intrisa di “valori” di etica universale, recepiti dal Diritto positivo, è una conquista irrinunciabile della civiltà del diritto. Per la diffusione-interiorizzazione dei valori valgono l’informazione, la comunicazione, il dialogo, l’educazione, l’apprendimento reciproco, cioè “contaminazione” virtuosa e dialogo interculturale, da perseguirsi quali obiettivi strategici nel rissoso mondo globalizzato. Per queste ragioni, ritengo utile non soltanto mantenere in vita l’attuale Commissione diritti umani ma anche allargarne la composizione a tutti i membri delle NU. Così allargata, la Commissione potrebbe svilupparsi in un “foro politico” che, con accresciuta autorevolezza, eserciterebbe funzioni di controllo generale della materia, darebbe in particolare impulsi credibili all’ulteriore sviluppo del Diritto e della machinery internazionale dei diritti umani. Insieme con la Commissione così potenziata, vedrei con favore la creazione di un più ristretto Consiglio permanente dei diritti umani, il quale dovrebbe farsi carico sia delle funzioni relative alle cosiddette procedure speciali, finora espletate dalla stessa Commissione e dalla Sotto-commissione per la promozione e la protezione dei diritti umani (indagini specifiche, mediante Rapporteurs speciali, relative a certi tipi di violazioni dei diritti umani, a situazioni di determinati paesi e anche a casi individuali), nonché di altre funzioni miranti a dare un più concreto e continuativo sostegno all’intera machinery diritti umani. I pilastri di questa, giova ricordarlo, sono costituiti dall’Alto Commissario delle NU per i diritti umani e dal “nucleo duro” degli attuali sette Comitati preposti ad altrettante Convenzioni giuridiche internazionali (i cosiddetti Treaty-Bodies), nonché dalla Corte Penale Internazionale e dai Tribunali internazionali ad hoc. Questo Consiglio permanente, che secondo i Rapporti avrebbe anch’esso una composizione strettamente intergovernativa, dovrebbe invece riflettere la composizione trans- e sopra-nazionale dei citati “Comitati”, quindi essere formato da persone indipendenti. Il veramente “nuovo” in materia starebbe in questo passo avanti sul piano dell’indipendenza e imparzialità nelle procedure di garanzia internazionale dei diritti umani.
- - - 7. Agenda per l’azione: opporsi al neo-fondamentalismo del bellum justum, ‘più democrazia’ per il rafforzamento delle Nazioni Unite
- - Alla luce di quanto dicono, e non dicono, i Rapporti ufficiali, soprattutto del loro proposito di ri-sovranizzare gli stati proprio sul terreno della sicurezza armata, io credo che, prima e più che di “riformare” l’ONU, ci si debba preoccupare di “farla funzionare” nel rispetto dei principi e degli obiettivi della Carta: beninteso, con gli opportuni adeguamenti pratici. Il consenso va costruito in questa ragionevole direzione, non per trovare vie di fuga dalla Carta.
- Coerente con lo spirito e la lettera della Carta delle NU e del vigente Diritto internazionale quale da essa innovato, è l’agenda delle formazioni di società civile globale intesa a “rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite”. Una significativa presentazione di questa agenda è avvenuta in Italia nel 1995, per iniziativa della “Tavola della Pace”, formata da una rete di circa ottocento associazioni e dal “Coordinamento degli Enti locali per la pace e i diritti umani”, a sua volta composto di oltre settecento fra Comuni, Province e Regioni. Appunto nel 1995, cinquantesimo anniversario delle Nazioni Unite, fu organizzata a Perugia la prima edizione della “Assemblea dell’Onu dei Popoli”, cui ne sono seguite altre quattro. Nel corso di queste conferenze biennali, alle quali partecipano rappresentanze di “società civile” di numerosi paesi di ogni parte del mondo, è stata costantemente aggiornata la lista delle proposte riguardanti il futuro dell’ONU e dell’intero sistema delle Nazioni Unite, con particolare attenzione al tema della loro democratizzazione. Fin dall’inizio di questa mobilitazione transnazionale, figura la proposta intesa a creare una seconda Assemblea Generale formata da rappresentanti dei “popoli delle NU”, che potrebbe inizialmente assumere la forma di “Assemblea Parlamentare”, cioè di un corpo elettivo di secondo grado. Sul piano mondiale, un importante documento è costituito dalla “Dichiarazione e Agenda per l’Azione” del “We the Peoples Millennium Forum” svoltosi a New York, al Palazzo di Vetro, nel maggio dell’anno duemila, con la partecipazione di rappresentanti di oltre mille organizzazioni di società civile. Il contenuto di questo documento intitolato “Strengthening the United Nations for the 21st Century” (il suo ultimo paragrafo porta su “Strengthening and democratising the United Nations and international organisations”), recepisce la strategia che si era venuta precisando, in maniera puntuale, in seno al pacifismo italiano negli anni novanta. La mobilitazione di società civile globale si è intensificata nel 2004. Si segnala in particolare la Conferenza internazionale svoltasi a Padova nel novembre 2004 all’insegna di “Reclaim our United Nations”. L’evento è stato organizzato dalla Tavola della Pace su decisione del Consiglio internazionale del “World Social Forum” e con la collaborazione del Comune di Padova e del Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova. Vi hanno partecipato rappresentanti di oltre cento associazioni internazionali dei vari continenti. A questa Conferenza ha fatto seguito il World Social Forum di Porto Alegre, nel corso del quale ha avuto luogo un Workshop gestito dalla Tavola della Pace ed è stato adottato un documento riguardante appunto la riforma delle Nazioni Unite. In questo stesso contesto è da segnalare anche il “Manifesto di Porto Alegre: dodici proposte per un altro mondo”, 30 gennaio 2005: tra le proposte figura quella intesa a “riformare e democratizzare profondamente le organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU, e far prevalere i diritti umani” nonché “in caso di persistenza di violazione della legalità internazionale da parte degli Usa, trasferire la sede delle Nazioni Unite da New York in un altro paese, preferibilmente del Sud”.
- L’impegno così generosamente profuso dalla rete planetaria di formazioni di società civile globale per la legalità internazionale e la centralità delle Nazioni Unite, all’interno di un articolato disegno di ordine mondiale più giusto, pacifico e democratico, sta a segnalare che l’obiettivo della democratizzazione della massima Organizzazione mondiale non è utopistico, ma appartiene all’agenda della politica e della good global governance. Democratizzare l’ONU è variabile indipendente, cioè fattore determinante per quanto riguarda il suo rilancio e il suo efficace funzionamento. Senza una massiccia iniezione di più diretta legittimazione e di più sostanziosa partecipazione democratica, il dibattito sulla riforma delle NU continuerà a rassomigliare ad un processo di accanimento terapeutico privo di sbocchi significativi, anzi col rischio di fare il gioco di chi persegue l’obiettivo più volte denunciato nel presente saggio, di ri-sovranizzazione armata degli stati. Al punto cui siamo arrivati, con la prospettiva - veramente da incubo - della geopardizzazione armata della sicurezza globale, e sottolineato ancora una volta che il futuro delle NU è tema centrale al dibattito sulla struttura dell’ordine mondiale e che nessuno stato, compresa la superpotenza, è in grado di imporre il suo “nuovo ordine mondiale”, verrebbe spontaneo dire che sarebbe prudente non prendere decisioni nell’immediato, tranne una. Quella di dar vita ad una Global Convention sul futuro delle Nazioni Unite “per rafforzarle e democratizzarle”. La proposta è stata da tempo lanciata negli ambienti di società civile. Ne riassumiamo velocemente i termini essenziali. Su proposta di un gruppo di stati, preferibilmente dell’Unione Europa, possibilmente insieme con altre organizzazioni regionali, l’Assemblea Generale delle NU (dove non c’è potere di veto…) dovrebbe istituire un organo temporaneo ad hoc, appunto nella forma di “Convenzione Globale”, col mandato di esaminare i Rapporti ufficiali ed altri contributi significativi, compresi naturalmente quelli delle strutture di società civile globale, ed elaborare un documento organico sul futuro delle NU. La “Convenzione Globale” dovrebbe avere carattere “plurale”, essere dunque costituita da un ventaglio di rappresentanze: degli stati (per raggruppamenti regionali), delle organizzazioni internazionali, dei parlamenti (sempre per aree regionali), degli enti di governo locale (per es., attraverso l’associazione “United Cities and Local Governments”), della realtà delle formazioni di società civile (per es., attraverso Ong con status consultivo), degli Osservatori permanenti alle Nazioni Unite. La “Convenzione” dovrebbe comunque essere aperta alle proposte provenienti dal mondo intero. Al termine dei suoi lavori, la Convenzione rimetterebbe quanto da essa elaborato, sotto forma di Rapporto, all’organo che l’ha istituita, cioè all’Assemblea Generale, per ogni opportuno seguito statutario.
- Se questa proposta non dovesse essere accolta, rimarrebbe comunque la libertà delle migliaia di associazioni e movimenti, mobilitati per rafforzare e democratizzare le NU, di convocare autonomamente la “Global Convention”, magari anche invitando leaders politici e membri di parlamenti, in particolare dei “Parlamenti regionali” (Parlamento Europeo, Parlamento Panafricano, Parlamento Latinoamericano, Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, e altri).
- Come prima sottolineato, una mole di evidenza empirica attesta che nessuno stato, compresa la superpotenza, è in grado di imporre il proprio “nuovo ordine mondiale”: fortunatamente, io dico. La storia passata non è ripetibile: l’ordine internazionale, a meno che per tale non si intenda la destablizzazione permanente (perpetual destabilisation), non può più essere il risultato della vittoria di stati “sovrani” conseguita sul campo di battaglia. La superpotenza e altri stati che stanno opportunisticamente attorno e dietro di essa, vogliono essere liberi di far la guerra e di giustificarla con il neo-fondamentalismo del bellum justum. E’ paradossale, anzi scandaloso che questo dissennato proposito trovi accoglienza nel Rapporto del Segretario Generale. Oltre che denunciare la mistificante operazione in atto, possiamo dire, con numerosissimi elementi a sostegno - quindi con determinazione -, che per fronteggiare, reprimere e prevenire il terrorismo e altre minacce alla sicurezza, la via legittima, razionale e ragionevole è innanzitutto quella di considerare come un fertile patrimonio comune, dunque come un “acquis” irrinunciabile, l’originaria identità pacificatrice delle Nazioni Unite insieme con il Diritto internazionale che ha radice nella Carta e nella Dichiarazione Universale dei diritti umani. E partendo da questo “acquis”, di rafforzare e democratizzare il multilateralismo istituzionale, infrastruttura indispensabile alla stabilità all’ordine mondiale. Questa è la via sicura alla pace positiva, secondo quanto proclamato dall’articolo 28 della Dichiarazione Universale: “Ciascuno ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale tutti i diritti e libertà enunciate nella presente Dichiarazione possono essere pienamente realizzate”.
- Mentre numerose élites governative si oppongono o sono riluttanti a imboccare questa strada, le organizzazioni e i movimenti di società civile globale, e tra di essi un numero crescente di Centri universitari per i diritti umani in ogni parte del mondo, lo hanno già fatto e stanno offrendo al mondo quella nuova cultura politica – pace, diritti umani, sviluppo umano, dialogo interculturale - di cui la global governance ha urgente bisogno. C’è consapevolezza diffusa in questi ambienti che ONU e ordine mondiale sono le due facce di una stessa medaglia.
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