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CEDAW, Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne

40° Anniversario della Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (1979-2019)

Autore: Erika Mazzucato

Nel 2019 ricorre il 40° anniversario dell’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) che rappresenta l’unico strumento giuridico internazionale che sviluppa, rispetto alla condizione femminile, una prospettiva globale in relazione al fenomeno della discriminazione. La Convenzione è spesso descritta anche come una carta internazionale dei diritti per le donne.
In questi quarant’anni la Convenzione ha segnato una svolta storica nel percorso dei diritti umani delle donne superando il mero riconoscimento di un’uguaglianza formale fra donne e uomini attraverso l’introduzione di obblighi internazionali di adozione di misure positive atte alla realizzazione di un’uguaglianza sostanziale in tutti i campi della vita politica, economica, sociale e culturale.


La Convenzione

La Convenzione, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con risoluzione A/RES/34/180 il 18 dicembre 1979, è entrata in vigore il 3 settembre 1981.
Sono ben 189 gli Stati che hanno ratificato la Convenzione, la quasi totalità degli Stati componenti la comunità internazionale ad eccezione degli Stati Uniti d’America e di Palau che hanno firmato la Convenzione rispettivamente nel 1980 e nel 2011 ma non hanno ancora proceduto a ratificarla e di Iran, Niue, Somalia, Sudan, Santa Sede e Tonga che non hanno ancora espresso alcun consenso nei confronti del trattato.
L’Italia ha ratificato la Convenzione con legge del 14 marzo 1985, n. 132, depositata presso le Nazioni Unite il 10 giugno 1985; l’entrata in vigore è stata il 10 luglio 1985.

Il Preambolo della Convenzione riafferma la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona e nell'uguaglianza  del godimento dei diritti da parte di uomini e donne. Si evidenzia, inoltre, che nonostante siano stati adottati strumenti specifici per promuovere il principio dell’uguaglianza tra uomini e donne, queste ultime continuano ad essere oggetto di gravi discriminazione e si ricorda che le pratiche discriminatorie ostacolano la partecipazione delle donne ad ogni aspetto della vita del proprio paese intralciando la crescita e il benessere delle società.

La Convenzione si compone di 30 articoli e introduce, per la prima volta all’interno di un trattato internazionale, una definizione di discriminazione nei confronti della donna non limitata al piano formale o giuridico, bensì comprendente qualsiasi trattamento o condizione che nei fatti impedisca alle donne di godere appieno dei loro diritti su base paritaria rispetto agli uomini. Ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione l’espressione “discriminazione nei confronti della donna” concerne “ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l'uomo e la donna”.

La Convenzione si propone pertanto di superare il mero riconoscimento del diritto delle donne a godere di un trattamento equivalente rispetto agli uomini, già stabilito peraltro dagli altri trattati in materia di diritti umani, prevedendo per gli Stati un preciso obbligo di “fare”, consistente nell’impegno ad adottare in ogni campo, ed in particolare in ambito politico, sociale, economico e culturale, ogni misura adeguata, incluse le disposizioni legislative, atte a garantire il pieno sviluppo ed il progresso delle donne (art. 3).

La Convenzione enuncia:

  • il superamento del concetto di eguaglianza formale con quello di eguaglianza sostanziale tra donne e uomini;
  • la parità di accesso e di opportunità per le donne alla vita politica e pubblica – compresi il diritto di voto e di eleggibilità - così come nei settori dell’istruzione, della salute e dell’occupazione;
  • una serie di specifiche misure programmatiche che gli Stati si impegnano ad adottare al fine della creazione di una società nella quale le donne godano della piena uguaglianza e della effettiva realizzazione dei diritti umani: dai diritti al lavoro ai diritti nel lavoro (art. 11); dai diritti relativi alla salute e alla pianificazione familiare (art. 12) all’uguaglianza di fronte alla legge (art. 15), nella famiglia e nel matrimonio (art. 16), nell’educazione e nell’istruzione (artt. 5 e 10), nella partecipazione alla vita politica (artt. 7 e 8), nello sport, nell’accesso al credito (art. 13), nella concessione o perdita della nazionalità (art. 9);
  • l’obbligo per gli Stati di:
    - condannare ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, di incorporare il principio dell’uguaglianza tra uomo e donna nel proprio sistema giuridico e di adeguare conseguentemente la propria legislazione;
    - adottare misure appropriate contro ogni forma di tratta e sfruttamento delle donne;
    - prendere misure adeguate per eliminare ogni discriminazione praticata da persone, organizzazioni o enti di ogni tipo nonché di attivarsi per modificare gli schemi di comportamento e i modelli culturali in materia di differenza fra i sessi;
    - istituire tribunali e altre istituzioni pubbliche per assicurare l'effettiva protezione delle donne dalla discriminazione;
    - adoperarsi nell’adozione di misure positive non limitandosi ad attuare una tutela di impostazione prettamente negativa. La Convenzione, cioè a dire, prevede in capo agli Stati non solo l’obbligo di non fare, cioè di astenersi dall’adottare misure aventi caratteri discriminatorio nei confronti delle donne, ma anche di fare, cioè di adoperarsi per adottare misure, a carattere legislativo, politico e amministrativo, aventi lo scopo di ridurre da un punto di vista sostanziale, nella realtà, le disuguaglianze tra uomini e donne. Tali misure sono definite “azioni positive”, cioè delle misure caratterizzate dal requisito della temporaneità, che, in deroga al principio della parità formale, prevedono delle forme di discriminazione al contrario, cioè maggiormente favorevoli nei confronti delle donne al fine di superare gli ostacoli che impediscono da un punto di vista sostanziale le disparità tra uomo e donna nonché atte a garantire il pieno ed effettivo progresso delle donne. Tali misure temporanee speciali non devono considerarsi atti discriminatori, in quanto tendenti ad accelerare il processo di instaurazione di fatto dell’uguaglianza tra i generi.

Il Comitato per l'eliminazione della discriminazione nei confronti della donna

L’art. 17 della Convenzione prevede l’istituzione di un Comitato per l’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna con il compito di esaminare i progressi realizzati nell’esecuzione degli obblighi derivanti dalla Convenzione stessa assunti da parte degli Stati contraenti.

Il Comitato, che si compone di 23 esperte indipendenti, presenta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite attraverso il Consiglio Economico e Sociale un rendiconto delle sue attività attraverso dei rapporti annuali (art. 21).

Il Comitato ha il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione e del Protocollo addizionale attraverso l’esame dei rapporti periodici che gli Stati parti sono tenuti a presentare la prima volta l’anno seguente all’entrata in vigore della Convenzione e, in seguito, ogni quattro anni per descrivere i provvedimenti che essi hanno adottato per dare effetto ai diritti riconosciuti nella Convenzione ed i progressi realizzati per il godimento di tali diritti.
Il Comitato, una volta esaminato il rapporto periodico dello Stato, può rivolgere a quest’ultimo le proprie preoccupazioni e raccomandazioni nella forma di Osservazioni conclusive che, pur non avendo carattere giuridicamente vincolante per lo Stato, contengono importanti linee guida che lo Stato è invitato ad attuare al fine di risolvere le criticità nell’ottemperamento delle disposizioni della Convenzione.

In Italia l’organo responsabile della predisposizione dei Rapporti periodici da presentare ai meccanismi di monitoraggio delle Organizzazioni internazionali competenti in materia di diritti umani è il Comitato Interministeriale per i Diritti Umani (CIDU) istituito presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Il Comitato formula anche delle Raccomandazioni generali rivolte a tutti gli Stati parte, riguardanti articoli o temi della Convenzione e volte a facilitare la corretta applicazione delle disposizioni in essa contenute. Se inizialmente le Raccomandazioni generali si limitavano a brevi chiarimenti su aspetti procedurali o interpretativi, a partire dalla Raccomandazione n. 13 del 1989 il Comitato ha progressivamente adottato tale strumento per mantenere sempre attuale e aggiornata la Convenzione adattandone l’interpretazione e l’applicazione rispetto all’emersione di nuove circostanze o problematiche non contemplate o marginali in fase di redazione del testo.

Il Protocollo addizionale

Alla Convenzione si affianca un Protocollo facoltativo approvato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999 ed entrato in vigore il 22 dicembre 2000, che introduce la procedura della comunicazione, cioè la possibilità individuale o di gruppo, di presentare un ricorso scritto al Comitato, previo esaurimento di tutti gli strumenti di tutela disponibili nell’ordinamento interno, in caso di asserita violazione dei propri diritti sanciti nella Convenzione. Tale meccanismo consente pertanto alle donne e alle associazioni di donne di essere parte attiva nel rispetto delle norme della Convenzione. Il Comitato, una volta ricevuta la comunicazione, la porta confidenzialmente all’attenzione dello Stato interessato, il quale avrà sei mesi a disposizione per presentare al Comitato delle spiegazioni scritte o un rapporto che chiarisca la questione e i rimedi, laddove esistenti, che potranno essere attuati dallo Stato.
Dopo aver esaminato la comunicazione, il Comitato trasmette alle parti in causa la propria constatazione nel merito, unitamente a eventuali raccomandazioni.
Il Protocollo consente altresì al Comitato di avviare motu proprio delle procedure di inchiesta a seguito della ricezione di informazioni affidabili riguardanti presunte situazioni di gravi o sistematiche violazioni di diritti delle donne (artt. 8 e 9). Tali procedure, che possono prevedere anche la visita sul territorio dello Stato interessato, previa autorizzazione da parte di quest’ultimo, sono facoltative in quanto ciascuno Stato contraente, in sede di firma o ratifica del Protocollo può dichiarare di non riconoscere la competenza del Comitato relativamente alle procedure d’inchiesta.

I rapporti periodici presentati dall’Italia

L’Italia ha presentato il suo primo Rapporto periodico nel 1989 (CEDAW/C/5/Add.62). Le Osservazioni conclusive rivolte dal Comitato per l’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna posero l’attenzione prevalentemente sul divario esistente tra la condizione delle donne del sud Italia rispetto a quelle del nord e sulla scarsa partecipazione delle donne alla vita politica del Paese. Il Comitato richiese all’Italia di fornire dati statistici e di elaborare ricerche riguardanti il tempo speso rispettivamente da uomini e donne nello svolgimento di faccende domestiche nonché il fenomeno della prostituzione femminile e delle minori.
Dall’attività del Comitato e, soprattutto, dall’adesione italiana alla Piattaforma di Pechino del 1995, che ha contribuito a promuovere a livello mondiale l’impegno e l’azione per la tutela dei diritti delle donne, scaturì un maggiore impegno dell’Italia in tutti i processi politici internazionali incentrati sul ruolo delle donne nella società con l’obiettivo di riaffermare la loro dignità e proteggerle da tutte le possibili forme di discriminazione, abuso e violenza, che nel 1996 portò all’istituzione del Ministero per le Pari Opportunità (oggi Dipartimento per le Pari Opportunità), il cui mandato successivamente fu esteso a materie come la protezione del fanciullo contro la pedofilia, lo sfruttamento sessuale e la schiavitù sessuale.

Il secondo e terzo Rapporto periodico dell’Italia (CEDAW/C/ITA/2 and 3) sono stati esaminati dal Comitato il 15 luglio 1997 nel corso della 346^ e 347^ riunione (CEDAW/C/SR.346 and 347). Il Comitato in tale occasione raccomandava, inter alia, di prendere ulteriori misure per rafforzare l’attuazione del mainstreaming di genere e dell’empowerment delle donne, due concetti la cui importanza è stata affermata durante la quarta Conferenza mondiale sulle donne di Pechino (1995).

Nelle osservazioni conclusive del quarto e quinto rapporto congiunto(CEDAW/C/ITA/4-5), esaminato durante le riunioni 681 e 682 del 25 gennaio 2005, il Comitato plaudeva, inter alia, l’approvazione del progetto di legge modificativo dell’articolo 51 della Costituzione italiana con il quale è stato introdotto il principio dell’uguaglianza e non discriminazione sessuale nell’accesso alle cariche pubbliche e che costituisce il mezzo attraverso il quale la Convenzione è divenuta parte della legge del Paese, e rappresenta la base costituzionale per l’uso di misure speciali temporanee, compreso l’uso delle quote per velocizzare l’aumento della rappresentanza femminile nella vita politica e pubblica.
Il Comitato plaudeva l’Italia altresì per le riforme legislative intraprese per il progresso delle donne, compresa la legge 15 febbraio 1996, n. 66 contro la violenza sessuale, la legge 8 marzo 2000, n. 53 sul congedo parentale e la legge 4 aprile 2001, n. 154 contro la violenza nelle relazioni familiari.
Il Comitato tuttavia esprimeva preoccupazione in quanto l’Italia aveva adottato misure inadeguate per attuare le raccomandazioni sollevate nelle osservazioni conclusive precedenti, in particolare per quanto riguarda la bassa partecipazione delle donne nella vita pubblica e politica. Il Comitato si rincresceva inoltre del limitato coinvolgimento delle organizzazioni non governative durante la preparazione del rapporto.

Nel dicembre 2009 l’Italia ha presentato il sesto Rapporto periodico (CEDAW/C/ITA/6). Dalle Osservazioni conclusive del Comitato, formulate in occasione delle riunioni 982 e 983 del 14 luglio 2011, emerse come alcune precedenti Osservazioni fossero rimaste disattese. Il Comitato si dichiarava preoccupato, inter alia, per la situazione delle donne nel mercato del lavoro, per l’assenza di programmi di assistenza e sostegno alle donne che desiderano lasciare la prostituzione e che sono state vittime dello sfruttamento, per le difficoltà incontrate dalle donne immigrate e dalle donne con disabilità relativamente alla loro integrazione e partecipazione nel mercato del lavoro.

Il 27 ottobre 2015 l’Italia ha presentato il settimo Rapporto periodico (CEDAW/C/ITA/7) relativo ai progressi realizzati nell’attuazione delle disposizioni della Convenzione nel periodo 2011–2015. Il Comitato ha esaminato il rapporto nel corso dei lavori delle sessioni 1502 e 1503 ed ha rivolto all’Italia delle Osservazioni conclusive (CEDAW/C/ITA/CO/7).

Il Comitato raccomanda, inter alia, di:

  • istituire un meccanismo efficace, volto ad assicurare l’accountability e l’attuazione trasparente, coerente ed uniforme della Convenzione su tutto il territorio nazionale.
  • Rafforzare la cornice legislativa concernente l’uguaglianza di genere e l’eliminazione della discriminazione in ragione del sesso o del genere.
  • Emendare l’articolo 3 della Costituzione e la legge 25 giugno 1993, n. 205, per proteggere le donne LBTI dalle forme intersezionali di discriminazione o dai crimini d’odio.
  • Creare un’Istituzione nazionale per i diritti umani, fornita di dotazioni adeguate ed osservante dei Principi relativi allo Status delle istituzioni nazionali (Principi di Parigi, Risoluzione A/RES/48/134 del 20 dicembre 1993) e che sia incaricata di proteggere e promuovere tutti i diritti umani, compresi i diritti delle donne.
  • Accelerare l'adozione di una legge omnibus per prevenire, combattere e punire tutte le forme di violenza contro le donne, così come di un nuovo Piano d'Azione Nazionale contro la violenza di genere; ed assicurare che siano allocate risorse umane, tecniche e finanziarie adeguate per la relativa attuazione sistematica ed efficace, il monitoraggio e la valutazione.
  • Accrescere l'accesso delle donne all'occupazione a tempo pieno, compreso attraverso la promozione della pari condivisione dei compiti domestici e familiari tra uomini e donne, fornendo più strutture e di migliore qualità per la cura dell'infanzia ed aumentando gli incentivi per gli uomini per avvalersi del loro diritto al congedo parentale.
  • Assicurare che tutti gli stereotipi di genere vengano eliminati dai libri di testo e che i curricula scolastici, i programmi accademici e la formazione professionale degli insegnanti si occupino dei diritti delle donne e dell'uguaglianza di genere.
  • Adottare misure speciali temporanee, per accelerare la pari partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, in particolare delle donne migranti, rifugiate, richiedenti asilo, Rom, Sinte, e Caminanti e delle donne anziane, così come delle madri single e delle donne con disabilità; e condurre studi omnibus sul lavoro e le condizioni di lavoro per dette donne.
  • Rivedere le leggi di austerity, che hanno colpito in modo sproporzionato le donne, in particolare quelle relative ai benefici economici per i figli, i benefici sociali e gli schemi pensionistici.
  • Fornire accesso ai servizi di base a tutte le donne lavoratrici migranti, indipendentemente dal loro status migratorio.
  • Aumentare il bilancio allocato per il settore sanitario al fine di assicurare la piena realizzazione del diritto alla salute, compresi i diritti sessuali e la salute riproduttiva, per tutte le donne e le bambine.
  • Perseguire i propri sforzi per raggiungere l’uguaglianza di genere sostanziale negli sports e nelle attività culturali, compreso attraverso l'uso di misure speciali temporanee.
  • Rafforzare ed assicurare l'efficace attuazione delle politiche e dei programmi esistenti, volti all'empowerment economico delle donne in aree rurali, incluso attraverso la promozione della proprietà della terra da parte loro.
  • Adottare misure mirate per promuovere l'accesso delle donne con disabilità all'istruzione inclusiva, al mercato del lavoro aperto, alla salute, compresi i diritti e la salute riproduttiva e sessuale, alla vita pubblica e sociale e ai processi decisionali.
  • Attuare campagne di informazione e fornire capacitiy-building per i funzionari dello Stato in materia di diritti e bisogni speciali delle donne e delle bambine disabili.

Il Comitato si compiace degli sforzi intrapresi per migliorare la propria cornice istituzionale e politica, volti ad accelerare l’eliminazione della discriminazione contro le donne e la promozione dell’uguaglianza di genere, quali: il Piano d’Azione Nazionale su Donne, Pace e Sicurezza (2016-2019) del dicembre 2016 ed il Piano d’Azione Nazionale contro la Tratta ed il Grave Sfruttamento degli Esseri Umani (2016-2018) del febbraio 2016.
Il Comitato accoglie favorevolmente la ratifica o l'adesione a strumenti internazionali, in particolare la ratifica del Protocollo facoltativo alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sulle procedure di comunicazione, nel 2016; la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata, nel 2015; il Protocollo opzionale al Patto sui diritti economici, sociali e culturali, nel 2015; il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, nel 2013; e la Convenzione del Consiglio d'Europa del 2013 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica.

Il prossimo rapporto periodico dovrà essere presentato dall’Italia nel 2021.

I rapporti ombra della società civile

Le organizzazioni della società civile possono presentare dei c.d. "rapporti ombra" (“shadow reports”). Si tratta di contro-rapporti redatti da ONG operanti nel settore della Convenzione nei quali vengono riportate informazioni raccolte “sul campo”, frutto soprattutto dell’esperienza diretta, al fine di fornire al Comitato informazioni utili alla determinazione di un quadro più completo ed obiettivo della situazione di un particolare Stato.

In Italia si è costituita nel 2011 la piattaforma "Lavori in corsa: 30 anni CEDAW", una rete di organizzazioni e persone che si occupa, inter alia, di redigere periodicamente un rapporto ombra, supportato da dati statistici, che evidenzia le mancanze nella promozione dei diritti delle donne in Italia e indica le aree in cui continua ad essere necessario un maggiore impegno da parte delle istituzioni. Un primo rapporto è stato presentato alle Nazioni Unite nel luglio 2011 e al Parlamento Italiano nel gennaio 2012; un secondo rapporto è stato, successivamente, presentato alle Nazioni Unite nel giugno del 2017.

Background storico

I primi accordi internazionali a tutela dei diritti delle donne furono formulati dopo la creazione delle Nazioni Unite. Nel 1953 l’Assemblea generale, su raccomandazione della Commissione sulla condizione delle donne, adottò con la risoluzione A/RES/640(VII) del 31 marzo la Convenzione sui diritti politici delle donne, entrata in vigore il 7 luglio 1954. La Convenzione era designata come ulteriore mezzo per promuovere la parità di condizione tra uomini e donne nel godimento e nell’esercizio dei diritti politici in accordo alle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite ed alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Essa stabiliva che le donne, a parità di condizioni con gli uomini e senza discriminazione alcuna, hanno diritto a votare in tutte le elezioni (Art. 1); ad essere elette a tutti gli enti pubblicamente eletti, stabiliti dalla legislazione nazionale (Art. 2); a ricoprire una carica pubblica e ad esercitare tutte le funzioni pubbliche, stabilite dalla legislazione nazionale (Art. 3).
La Convenzione, pur trattando la discriminazione contro le donne nel solo ambito dell’attuazione dei diritti politici, rappresenta il primo strumento universalmente vincolante che abbia prodotto degli obblighi giuridici per gli Stati Parte, aprendo pertanto la strada all’adozione da parte delle Nazioni Unite di una serie di strumenti tesi all’eliminazione della discriminazione contro le donne in tutta la vita pubblica e privata.
Il 29 gennaio 1957 l’Assemblea generale adottava, con la risoluzione A/RES/1040(XI), la Convenzione sulla nazionalità delle donne coniugate, entrata in vigore l’11 agosto 1958. La Convenzione proclama la parità di diritti spettanti a donne e uomini nell'acquisizione, cambiamento o conservazione della propria nazionalità. Gli Stati contraenti concordano che né la celebrazione o lo scioglimento del matrimonio fra uno dei loro cittadini e una straniera, né il cambiamento di nazionalità da parte del marito durante il matrimonio, modificano automaticamente la nazionalità della moglie (art. 1). La Convenzione precisa inoltre che né l’acquisizione volontaria della nazionalità di un altro Stato, né la rinuncia alla propria nazionalità da parte del marito impediscono alla moglie di conservare tale nazionalità (art. 2). In altri termini, non è possibile modificare la nazionalità della moglie senza un espresso desiderio in merito da parte della stessa. La Convenzione prevede inoltre che la moglie straniera di un cittadino di uno Stato contraente, facendone richiesta, potrà acquisire la nazionalità del coniuge tramite procedure di naturalizzazione privilegiate (art. 3). La Convenzione peraltro non contiene misure specifiche riguardanti i meccanismi internazionali di attuazione.
Suddetta tipologia di trattati, tuttavia, perse rapidamente rilevanza politica in concomitanza del prevalere dell’approccio secondo il quale il miglior modo di tutelare i diritti umani era l’introduzione nei trattati internazionali di norme generali di non discriminazione, come quelle contenute nell’articolo 2 della Dichiarazione universale dei diritti umani, nei due Patti del 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, e in tutti i principali trattati in materia di diritti umani. Queste norme sono state poi ulteriormente rafforzate da una serie di convenzioni ad hoc, come ad esempio quelle dell’ILO e dell’UNESCO, e da altri strumenti internazionali di particolare rilevanza per le donne.
Nel corso degli anni ‘60 il dibattito internazionale sui diritti delle donne evidenziò i limiti degli strumenti esistenti a tutela dei diritti delle donne e l’esigenza di elaborarne di più efficaci. Nel 1967 fu elaborata dalla Commissione diritti umani dell’ONU, ed in seguito adottata dall’Assemblea generale, la “Dichiarazione sull’eliminazione della discriminazione contro le donne”. La Dichiarazione affrontava i problemi in modo ampio e integrato, ma la sua natura di atto di soft law, non giuridicamente vincolante, ne limitava la portata richiamando l’attenzione sull’esigenza politica di garantire alle donne una difesa dalle discriminazioni.
Ci vollero ancora sei anni prima che la Commissione sulla condizione delle donne dell’ONU (CSW) affrontasse, chiedendo agli Stati di pronunciarsi in merito, la proposta di elaborare una convenzione giuridicamente vincolante, che vietasse le discriminazioni contro le donne in tutto il mondo. Il dibattito ed il negoziato sui singoli articoli, prima all’interno della CSW e poi nell’Assemblea generale subirono un’accelerazione solo alla fine degli anni ‘70, alla vigilia della Conferenza mondiale sul decennio delle donne, nel luglio 1980.




Aggiornato il

3/7/2019