A A+ A++

Matrimonio, vita familiare e coppie omosessuali: una sentenza della Corte europea dei diritti umani orienta il dibattito (Schalk e Kopf c. Austria, giugno 2010)

Autore: Paolo De Stefani

Con frequenza crescente, la Corte europea è chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con la CEDU di situazioni create dalla legislazione nazionale degli stati europei che impediscono i qualificare come “matrimonio” la convivenza di coppie dello stesso sesso. In Schalk e Kopf c. Austria[1] (decisione del 24 giugno 2010) i ricorrenti chiedevano alla Corte di riconoscere che il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, sancito all’art. 12 della CEDU, deve essere esteso anche alle coppie omosessuali, nonostante il chiaro disposto dell’articolo stesso, che riferisce tale diritto a “uomini e donne, in età matrimoniale”. Ciò, sostengono i ricorrenti, in forza di un’interpretazione evolutiva che s’impone ormai anche con riguardo a tale disposizione della CEDU e che la stessa Corte, nella giurisprudenza I. c. Regno Unito e Christine Goodwin c. Regno Unite (sentenze della Grand Chamber dell’11 luglio 2002) avrebbe avallato, stabilendo che l’art. 12 si applica anche alle coppie formate da soggetti transessuali. La Corte costituzionale austriaca, investita della questione nell’ambito dei procedimenti legali istituiti dalla coppia contro le successive decisioni giudiziali che respingevano la loro domanda di celebrare il matrimonio, aveva escluso che l’ordinamento austriaco potesse giustificare un’estensione della nozione di matrimonio tale da poterlo estendere anche alle coppie omosessuali (sentenza del 12 dicembre 2003).

In Schalk e Kopf, Anche la I sezione della Corte di Strasburgo rigetta l’idea che il riferimento testuale a “uomini e donne” contenuto nell’art. 12 CEDU possa essere superato con un’interpretazione evolutiva della norma, pur riconoscendo che in sei paesi del Consiglio d’Europa[2] l’istituto del matrimonio è attualmente esteso anche alle coppie omosessuali; che in altri 13[3] la convivenza di coppie omosessuali è espressamente regolamentata con l’attribuzione ad esse di diritti analoghi a quelli delle coppie eterosessuali; e che l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, entrata in vigore il 1° dicembre 2009, non cita la differenza sessuale tra i coniugi come condizione per contrarre matrimonio. La Corte tuttavia non chiude le porte ad una simile evoluzione e ammette che la questione dell’applicabilità dell’art. 12 alla situazione dei ricorrenti non è manifestamente infondata. I giudici affermano tuttavia che spetta alla legislazione nazionale disporre nel senso dell’introduzione del matrimonio omosessuale e che dalla CEDU non può derivare, allo stato attuale, alcuna censura nei riguardi dello stato che decidesse di non procedere in questo senso.

Sviluppando l’orientamento già emerso in Karner c. Austria (24 luglio 2003), la Corte di Strasburgo riconosce inoltre che la nozione di “vita familiare” (e non solo quella di “vita privata”) ben può estendersi anche al menage di una coppia omosessuale: “la Corte considera artificioso mantenere l’opinione secondo cui, a differenza della coppia eterosessuale, una coppia di partner dello stesso sesso non potrebbe godere di un diritto alla ‘vita familiare’ ai sensi dell’art. 8. Di conseguenza, il rapporto tra i ricorrenti, due conviventi omosessuali, uniti stabilmente alla stregua di una coppia di fatto, rientra nella nozione di ‘vita familiare’, così come sarebbe se si trattasse di una coppia di persone di sesso opposto che si trovassero nella stessa situazione”[4].

Ciò non impone la conclusione che l’Austria, non introducendo fino al 2010 alcuna legislazione atta a disciplinare diritti e doveri dei soggetti di tale convivenza, sia incorsa in una violazione dell’art. 8 CEDU (tutela della vita familiare) in combinato disposto con l’art. 14 (divieto di discriminazione). In primo luogo infatti, osservano i giudici, proprio dal 2010 l’Austria si è dotata di una legislazione in tal senso, così che la coppia di ricorrenti ha al momento attuale la possibilità di far riconoscere la propria unione a fini legali; in secondo luogo, gli articoli in questione non possono fondare un obbligo per gli stati di provvedere nel senso di “riconoscere” le coppie omosessuali: tale riconoscimento è infatti lasciato al margine nazionale di discrezionalità, investendo una materia su cui manca un consenso tra gli stati europei[5]. (Da notare che su questo punto due giudici sui sette della Camera hanno espresso una posizione contraria, ritenendo che l’Austria avrebbe dovuto motivare in modo positivo, e non rinviando semplicemente al margine nazionale di discrezionalità, la mancata introduzione, prima del 2010, di una normativa che consentisse un riconoscimento alle coppie omosessuali di diritti analoghi a quelli delle coppie unite da matrimonio).

Per il pubblico italiano, la decisione della Corte europea appare in linea con la posizione espressa recentemente dalla Corte costituzionale nella sentenza 15 aprile 2010 n. 138.

[1] Schalk and Kopf v. Austria, no. 30141/04, ECHR 2010-…

[2] Si tratta di Belgio, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia.

[3] Andorra, Austria (dal 1° gennaio 2010), Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Lussemburgo, Slovenia, Svizzera, Regno Unito e Ungheria.

[4] Schalk and Kopf v. Austria, cit., paragrafo 94.

[5] Considerazioni analoghe circa la mera facoltà degli stati di disporre o meno forme di riconoscimento delle unioni civili anche tra omosessuali in M.W. v. the United Kingdom (dec.), no. 11313/02, 23 June 2009; Courten v. the United Kingdom (dec.), no. 4479/06, 4 November 2008.

Risorse

Aggiornato il

8/12/2010