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Recenti casi in materia di eutanasia e aiuto al suicidio

Autore: Paolo De Stefani

La Corte europea ha considerato la problematica dell’eutanasia e dell’assistenza al suicidio nel celebre caso Pretty c. Regno Unito, ricorso n. 2346/02, deciso con sentenza del 29 aprile 2002[1]. Di recente tuttavia sono stati presentati altri casi, non ancora arrivati a giudizio, che potrebbero portare ad una riconsiderazione della giurisprudenza Pretty.

Diane Pretty era vittima di una malattia degenerativa che, giunta ormai ad uno stadio avanzato, le lasciava pochi mesi di vita. Le condizioni in cui la donna si trovava a sopravvivere, avendo perso completamente ogni autonomia, anche per l’alimentazione, erano avvertite dalla ricorrente, che manteneva pienamente le proprie capacità intellettive, come incompatibili con il proprio senso di dignità ed equivalenti ad un trattamento inumano. Le sue condizioni non le permettevano tuttavia di porre fine da sé alla propria esistenza, e la legge inglese (il Suicide Act 1961[2]) punisce con il carcere fino a 14 anni chi favorisce il suicidio o il tentato suicidio altrui. La ricorrente aveva chiesto all’autorità giudiziaria inglese di garantire l’immunità di suo marito nel caso questi l’avesse aiutata a porre in essere il suicidio, ma ciò era stato respinto dal Director of Public Prosecutions. Tale diniego, impugnato in varie sedi, era stato definitivamente confermato dalla Camera dei Lords con sentenza del 29 novembre 2001[3]. Sia il giudizio dei Lords, sia quello della Corte europea si concentrano sulla compatibilità della proibizione – sorretta dal precetto penale – dell’assistenza al suicidio con l’art. 2, 3 e 8 della Convezione europea dei diritti umani[4].

La Corte europea, dopo aver richiamato il carattere preminente che la sua giurisprudenza riconosce all’art. 2, esclude che questo possa essere costruito come fondamento di un generale diritto individuale ad una certa “qualità” di vita, da cui possa derivare il diritto individuale di “scegliere” se vivere o morire – che sarebbe a fondamento di un riconoscimento dell’eutanasia. Le dimensioni della “qualità” della vita e gli spazi di autodeterminazione individuale nel quadro delle scelte di vita protetti dalla Convenzione sono precisamente descritti dalle altre norme della Convenzione (diritto a non subire trattamenti inumani, libertà di pensiero, diritto ad un processo equo, ecc.) e dalle altre disposizioni di strumenti internazionali sui diritti umani. “L’art. 2 non può, senza una forzatura linguistica, essere interpretato nel senso di attribuire all’individuo un diritto diametricalmente opposto, ossìa il diritto di morire; né esso può dare vita ad un diritto di autodeterminazione nel senso di attribuire ad un individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita”[5].

Argomenti più forti appaiono essere quelli a sostegno della possibile violazione da parte del Regno Unito dell’art. 3. La ricorrente infatti sostiene che impedire al marito di assisterla nel suicidio significa “condannarla” ad una condizione di sofferenza che costituisce trattamento inumano e degradante. La Corte – che anche su questo punto segue sostanzialmente il ragionamento dei Lords – riconosce che il precetto “assoluto” dell’art. 3 comprende anche un versante “positivo”: lo stato ha il dovere di prendere misure per proteggere gli individui da trattamenti inumani posti in essere sia da agenti dello stato, sia da privati[6]; la naturale sofferenza associata alla condizione di malato può dar luogo a responsabilità dello stato ai sensi dell’art. 3 quando essa è esacerbata da trattamenti inadeguati attribuibili a negligenza o carenza dello stato (si pensi a condizioni carcerarie che non consentono la cura adeguata dei detenuti). Nel caso in questione, né lo stato né alcun privato pone in essere trattamenti inumani nei riguardi della ricorrente; trattamenti sanitari o di accudimento finalizzati a mantenere in vita un individuo, e quindi a rendere effettivo il diritto alla vita (art. 2), non possono essere considerati contrari all’art. 3: “[l]’articolo 3 deve essere interpretato in armonia con l’art. 2, il quale a sua volta è associato ad esso  in quanto specchio dei valori fondamentali di una società democratica”[7]. La Corte, infine, pur esprimendo profonda vicinanza alla ricorrente, conclude che “l’obbligo positivo dello stato a cui ci si riferisce nel caso in questione non consisterebbe nel rimuovere o ridurre la sofferenza, attraverso, per esempio, la prevenzione di un maltrattamenti attuati da soggetti pubblici o privati, o il miglioramento delle cure. Qui si pretende che lo stato dia la sua approvazione a comportamenti volti a porre fine ad una vita umana. Si tratta di un dovere che non può essere fatto derivare dall’art. 3 della Convenzione”[8]. La secca previsione come reato dell’assistenza al suicidio contenuta nella normativa inglese rappresenta quindi la manifestazione di un bilanciamento di interessi che, in quanto non fuoriesce dai limiti del margine nazionale di apprezzamento, che in queste materie è necessariamente ampio e non preclude soluzioni diverse che vanno fino alla legalizzazione dell’eutanasia, non contrasta con l’art. 3[9].

Altro punto sollevato in Pretty è la possibile violazione dell’art. 8. La norma in questione sancirebbe, secondo la ricorrente, una tutela dell’autodeterminazione dell’individuo che non verrebbe meno né di fronte a comportamenti generalmente percepiti come pericolosi o non salutari, né di fronte a scelte che, in talune circostanze, possono riguardare anche il porre fine alla propria vita. La previsione di un reato di assistenza al suicidio pone un limite ingiustificato a tale libertà personale di autodeterminazione (nella misura in cui la persona non è in grado di realizzare da sola il proposito suicida). La Corte richiama alcuni precedenti della propria giurisprudenza in cui ha riconosciuto che talune previsioni di legge che facevano divieto o comunque limitavano la scelta individuale di adottare comportamenti ritenuti moralmente o fisicamente dannosi o pericolosi (pratiche sado-masochistiche[10], oppure il rifiuto di sottoporsi a trattamenti medici[11]) costituiscono una potenziale violazione dell’art. 8 e devono trovare giustificazione ai sensi del secondo paragrafo dell’articolo stesso. In questo caso, la volontà del singolo è di porre termine alla propria esistenza: tuttavia la Corte non esclude che anche una simile scelta possa essere coperta dalla garanzia dell’art. 8: “[l]a vera essenza della Convenzione è rispetto per la dignità e la libertà della persona. Senza in alcun modo negare il principio della sacralità della vita protetto ai sensi della Convenzione, la Corte considera che è alla stregua dell’art. 8 che le nozioni di qualità della vita assumono significato. In un’epoca di sempre più sofisticati ritrovati medici e di crescente aspettativa di vita, molte persone avvertono la preoccupazione di poter essere costrette a trascinare la propria vita in età avanzata o in condizioni di decrepitezza fisica o mentale estreme, in contrasto con la propria forte percezione di sé e della propria identità”. Si tratta quindi di valutare se l’interferenza nella vita e nelle scelte private della ricorrente fossero giustificate secondo i criteri di una società democratica. La Corte conclude positivamente, ritenendo che la previsione contestata della legge penale inglese fosse non solo generalmente idonea a proteggere la vulnerabilità delle persone in stato di grave prostrazione fisica o mentale (pur riconoscendo che nel caso di Diane Pretty tale stato di vulnerabilità non sussiste, stante la sua perdurante estrema lucidità mentale); ma anche sufficientemente flessibile da consentire un’applicazione del precetto graduata alle esigenze dei casi singoli (l’azione penale è decisa dal Director of Public Prosecutions senza alcun automatismo; la pena prevede un massimo ma non un minimo).

Sono pendenti davanti alla Corte due nuovi casi riguardanti l’aiuto al suicidio. Entrambi si riferiscono all’accesso da parte dei ricorrenti o dei loro congiunti ai servizi di aiuto al suicidio di un’associazione svizzera, “Dignitas”, che accompagna i propri associati aiutandoli a procurarsi dosi letali di un farmaco, il pentobarbitale sodico, che garantisce un decesso sicuro e indolore. La legge svizzera non punisce l’aiuto al suicidio attuato per ragioni umanitarie[12]; inoltre, nel 2006, proprio in relazione alla controversia sollevata da Ernst G. Haas, ricorrente davanti alla Corte europea, il Tribunale federale svizzero ha affermato che l’art. 8(1) della Convenzione europea riconosce il diritto della persona capace di autodeterminarsi a decidere della propria morte (diritto individuale al suicidio)[13].

Il primo caso, Haas c. Svizzera, ricorso n. 31332/07 depositato il 18 luglio 2007, riguarda un cittadino svizzero affetto da una grave psicopatia bipolare. Nel 2004 si rivolge a Dignitas per essere aiutato al suicidio attraverso l’assunzione di Pentobarbitale Sodico. Per l’acquisto della sostanza è tuttavia necessaria un’autorizzazione medica, ed è questa che il ricorrente non è riuscito in alcun modo ad ottenere. Hass ricorre in più occasione in sede giudiziaria per ottenere la rimozione del requisito della ricetta medica. Da ultimo, il tribunale federale, nella sentenza sopra citata, dichiara che “[n]é la legislazione sugli stupefacenti né quella sugli agenti terapeutici permettono di consegnare senza ricetta medica pentobarbitale sodico a una persona che desidera porre fine alla sua esistenza (consid. 4). L'art. 8 CEDU, rispettivamente gli art. 10 cpv. 2 e 13 cpv. 1 Cost. non impongono allo Stato di adoperarsi affinché organizzazioni di aiuto al suicidio oppure persone che vogliono suicidarsi possano ottenere pentobarbitale sodico senza ricetta (consid. 5-6.3.6.)”[14].

Nel caso Koch c. Germania, ricorso n. 497/09, il ricorrente è il marito di una donna che si è dovuta recare in Svizzera, sempre presso “Dignitas”, per poter essere assistita al suicidio, poiché in Germania non era stato possibile ottenere la dose di pentobarbitale sodico utile allo scopo. I giudici tedeschi, investito della problematica, hanno concluso che l’art. 8 della Convezione europea, letto insieme all’art. 6(1) della Legge Fondamentale tedesca (protezione del matrimonio), non attribuisce al coniuge alcun diritto di porre fine al matrimonio con il suicidio di uno dei coniugi e che comunque il diritto al suicidio non potrebbe essere riconosciuto in capo a soggetti diversi dalla persona che intende suicidarsi. La Corte costituzionale tedesca ha ritenuto inammissibile l’ulteriore ricorso presentato sul tema, in quanto fondato sul presunto diritto ad un trattamento dignitoso di una persona defunta.

In controtendenza rispetto ai casi fin qui considerati si muove Widmer c. Svizzera (1993)[15]. In questo caso il ricorrente, sospettando che l’anziano padre fosse stato oggetto di cure inadeguate nella clinica in cui era poi deceduto, ma avendo l’inchiesta penale escluso ogni ipotesi di omicidio colposo a carico del personale medico e infermieristico, contestava la mancanza in Svizzera di una norma che punisse l’eutanasia passiva che, a suo dire, sarebbe stata praticata ai danni del genitore. La Corte europea dichiara irricevibile il ricorso in quanto esclude che l’art. 2 della Convezione, così come l’art. 8, possa essere inteso come implicante l’obbligo per lo stato di sanzionare penalmente la cd eutanasia passiva.

Infine, è stato ricondotto surrettiziamente al tema dell’eutanasia il ricorso presentato da otto tra individui e associazioni non lucrative di utilità sociale italiane contro l’Italia in relazione alla decisione della Corte d’Appello di Milano e della Cassazione sul caso di Eluana Englaro[16]. I ricorrenti (persone che vivono in stato vegetativo paragonabile a quello in cui si trovava Eluana Englaro – rappresentati dai loro tutori legali; rappresentanti di associazioni di aiuto a pazienti in condizioni analoghe e una Organizzazione nongovernativa) lamentavano il fatto che l’esito del caso Englaro – con l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione della donna in stato vegetativo come richiesto dal padre, suo tutore legale, in attuazione di una volontà conforme della figlia che i giudici hanno riscontrato era stata espressa quando in possesso delle proprie facoltà – danneggiava direttamente loro e altri individui in condizione analoghe in quanto li esponeva a misure analoghe che avrebbero potuto essere adottate nei loro confronti ritenute contrarie al loro diritto alla vita (sia pure in condizioni gravemente limitate) e non subire trattamenti inumani. Il ricorso è stato considerato irricevibile dalla Corte per mancanza in capo ai ricorrenti della qualità di vittime o di vittime potenziali, né in quanto persone fisiche (nessuna infrazione agli artt. 2 o 3 era stata commessa nei loro riguardi e i loro rappresentanti potevano solo avanzare sospetti e congetture circa possibili misure lesive), né in quanto entità associative (non direttamente investite da alcuna misura lesiva dei loro diritti o dei diritti dei loro soci secondo la Convenzione europea).

Speculare rispetto al caso Alda Rossi e Altri appena considerato è il caso Sanles Sanles c. Spagna (decisione del 26 ottobre 2000)[17], ultimo atto di una lunga serie di iniziative giudiziarie atti che hanno accompagnato la vicenda umana di Ramón Sampedro, tetraplegico spagnolo, attivista per il diritto di accedere a forme legali di suicidio assistito, la cui vicenda è stata fatta universalmente conoscere attraverso il film di Alejandro Amenabar “Il mare dentro” (2004) . La ricorrente, cognata di Sampedro, aveva tentato di subentrargli, in qualità di erede, nel procedimento di amparo (habeas corpus) da lui intentato davanti alla Corte costituzionale spagnola ma ancora in corso al momento della sua morte (suicidio, probabilmente assistito) nel gennaio 1998. Con tale ricorso, presentato da Sampedro nel 1996, si lamentava l’incompatibilità con una serie di norme costituzionali della persistente criminalizzazione in Spagna dell’aiuto al suicidio, anche quando attuato da medici su esplicita richiesta di pazienti nel pieno possesso delle loro facoltà[18]. La Corte costituzionale spagnola, l’11 novembre 1998 dichiara che per quel particolare tipo di procedura, che riguarda il personalissimo diritto di ricorrere lecitamente al suicidio assistito, non era ammissibile che una terza persona continuasse il procedimento intentato dal defunto.

Manuela Sanles Sanles impugna davanti ai giudici di Strasburgo quest’ultima decisione, che in pratica le impedisce di continuare la battaglia politico-giudiziaria di Sampedro, ripresentando nel ricorso gli argomenti già sviluppati davanti alle corti spagnole e lamentando la violazione da parte dello stato di una serie di articoli della Convenzione (artt. 2, 3, 5, 8, 9 e 14) motivata dalla persistente carenza in Spagna di una legge che rendesse lecita l’eutanasia, esimendo dalla responsabilità penale il sanitario che somministrasse al proprio paziente sostanze idonee a ridurne la sofferenza e lo stress, fino ad aiutarlo nel realizzare l’intento suicida.

Anche la Corte europea tuttavia dichiara inammissibile il ricorso della Sanles Sanles. I diritti rivendicati sono di tipo personalissimo e la loro violazione non può essere accertata dalla Corte europea se non su domanda della vittima diretta o indiretta, non essendo ammessa nel sistema della Convenzione europea alcuna forma di actio popularis. La ricorrente, cognata di Sampedro, non poteva rivestire il ruolo di vittima e ciò ha comportato l’inammissibilità della sua domanda.



[1] Pretty v. the United Kingdom, no. 2346/02, ECHR 2002-III.

[2]Suicide Act 1961 - disponibile on-line.

[3] The Queen on the Application of Mrs Dianne Pretty (Appellant) v Director of Public Prosecutions (Respondent) and Secretary of State for the Home Department (Interested Party), [2001]UKHL 61 - disponibile on-line.

[4] La ricorrente invoca anche l’art. 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione), ma con argomenti che riportano a quanto rileva per l’art. 8: la Corte ne tratta in stretta connessione. Allo stesso modo, la Corte non ritiene violato l’art. 14 (discriminazione nel godimento di un diritto sancito dalla Convenzione) per il fatto che la legge inglese con contempla espressamente il caso del suicidio assistito di un individuo che, per la sua disabilità, è incapace di commettere direttamente suicidio: le ragioni che giustificano la previsione penale, infatti, dono di portata generale e si applicano indipendentemente dallo stato di disabilità o meno dell’individuo in questione.

[5] Pretty c. Regno Unito, cit, paragrafo 39. Non è quindi possibile costruire il diritto alla vita sancito dall’art. 2 in modo analogo a come si interpreta un diritto come quello di associazione (art. 11), che per sua natura include sia il diritto di aderire ad un’associazione per la quale si abbiano i requisiti richiesti, sia il diritto a non essere forzato ad aderirvi (cfr. Ibidem).

[6] Su quest’ultimo versante, v., tra gli altri, Opüz v. Turkey, no. 33401/02, ECHR 2009- (violenza in famiglia).

[7] Pretty c. Regno Unito, cit,. paragrafo 54.

[8] Id., paragrafo 55.

[9] Vale la pena di notare, a proposito del reciprocità che deve sussistere tra l’art. 2 l’art. 3, che uno dei maggiori ostacoli a tale lettura integrata delle due disposizioni, ovvero la previsione esplicita della pena capitale tra le limitazioni legali alla salvaguardia del diritto alla vita, sembra essere recentemente caduto. In Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito (Al-Saadoon and Mufdhi v. the United Kingdom, no. 61498/08, § 120, 2 March 2010) la Corte ha infatti dichiarato: “[120]. Si può notare […] che la Grand Chamber già in Öcalan non escludeva che l’art. 2 fosse stato emendato al fine di rimuovere l’eccezione che ammetteva la pena di morte. Inoltre […] la situazione è nel frattempo evoluta. Tutti gli Stati membri salvo due hanno oggi firmato il Protocollo n. 13 [che abolisce la pena di morte in ogni circostanza] e tutti salvo tre tra gli stati firmatari lo hanno ratificato. Questi numeri, insieme con la pratica consolidata degli stati nel rispettare la moratoria sulla pena di morte, sono forti elementi che fanno concludere che l’art. 2 sia stato emendato nel senso di proibire la pena di morte in tute le circostanze. In questa prospettiva, la Corte non ritiene che le espressioni contenute nella seconda frase del comma 1 dell’art 2 [dove si parla della pena capitale] suano ancora un ostacolo ad interpretare l’espressione ‘trattamento o punizione inumano o degradante’ contenuta nell’art. 3 come comprensivo anche della pena di morte”.

[10] Laskey, Jaggard and Brown v. the United Kingdom, 19 February 1997, Reports of Judgments and Decisions 1997-I.

[11] Acmanne and Others v. Belgium, no. 10435/83, Commission decision of 10 December 1984, Decisions and Reports 40, p. 251.

[12]Art. 155- Istigazione e aiuto al suicidio. Chiunque per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.

[13] “Zum Selbstbestimmungsrecht im Sinne von Art. 8 Ziff. 1 EMRK gehört auch das Recht, über Art und Zeitpunkt der Beendigung des eigenen Lebens zu entscheiden; dies zumindest, soweit der Betroffene in der Lage ist, seinen entsprechenden Willen frei zu bilden und danach zu handeln” (ATF 133 I 58, consid. 6.1. La decisione è del 3 novembre 2006).

[14] Id, Regesto.

[15] Widmer c. Switzerland, no. 20527/92, Commission decision of 10 February 1993, unreported.

[16] Ada Rossi and Others v. Italy (dec.), nos. 55185/08, 55483/08, 55516/08, 55519/08, 56010/08, 56278/08, 58420/08 and 58424/08, ECHR 2008-.

[17] Sanles Sanles v. Spain (dec.), no. 48335/99, ECHR 2000-XI.

[18] Art. 143 del codice penale spagnolo (1995):1. Chiunque istighi altra persona al suicidio sarà punito on pena detentiva da quattro a otto anni. 2. Sarà punito con la detenzione da 2 a cinque anni chiunque favorisca con atti necessari allo scopo il suicidio di una persona. 3. Sarà punito con detenzione da sei a dieci anni se il suoi aiuto si spinge fino al punto di cagionare la morte. 4. Chiunque cagiona la - o coopera attivamente con atti necessari e diretti alla - morte di altri, su richiesta esplicita, seria e non equivoca di quest’ultimo, nel caso in cui la vittima soffra di una infermità grave e tale da condurla inevitabilmente alla morte, o tale da procurarle sofferenze permanenti gravi e difficili da sopportare, è punito con una pena inferiore di uno o due gradi rispetto a quelle indicate nei commi 2 e 3 del presente articolo.

Risorse

Immagini

Foto di una ricercatrice che lavora in un laboratorio di un centro per la ricerca genetica.

Aggiornato il

3/6/2010