10 anni di Tavola della Pace: la via Perugia-Assisi alla pace positiva
1. La Tavola della Pace nasce ufficialmente nel gennaio del 1996, nel mezzo del decennio segnato dalle aspettative e dalle delusioni del “dopo’89”, dall’estensione della de-regulation dal campo dell’economia a quello delle istituzioni e dalla collegata riproposizione dell’unilateralismo negli affari internazionali, dal rilancio della guerra quale strumento fisiologico delle relazioni fra stati, dallo stallo della riforma delle Nazioni Unite.
La “Tavola” è la risposta all’esigenza, condivisa da numerose formazioni di società civile ed enti di governo locale, di convergere sull’obiettivo strategico di costruire la pace attraverso l’estensione e lo sviluppo della democrazia dall’ambito nazionale a quello internazionale e la realizzazione di un’economia di giustizia all’insegna di “tutti i diritti umani per tutti”.
Partendo dal duplice, elementare assunto che non c’è democrazia se non ci sono sedi e percorsi istituzionali che consentano di esercitare ruoli di legittimazione quanto più diretta possibile e di partecipazione politica popolare, e che non ci sono diritti umani concretamente “agibili” senza le garanzie che appunto le istituzioni devono fornire quale loro compito primario, la Tavola della Pace denuncia il fortissimo deficit democratico che tuttora grava sul sistema delle relazioni internazionali. Le numerose istituzioni di cui questo è dotato, dalle Nazioni Unite alle organizzazioni regionali, mancano infatti di quel più di legittimazione e di partecipazione che, alla luce delle esigenze di global governance accentuatesi negli ultimi decenni, è indispensabile per il corretto ed efficace esercizio delle loro funzioni.
La ‘sfida’ lanciata dalla Tavola è quella dell’innesco di processi di genuina democrazia internazionale, transnazionale e cosmopolitica, ‘dalla città all’ONU’ quale presupposto per l’attuazione di quanto proclamato dall’articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni essere umano ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale tutti i diritti e le libertà enunciati nella presente Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”. È il concetto di pace positiva – che è allo stesso tempo, indissociabilmente, pace sociale, pace interna e pace internazionale –, da costruire in base al duplice principio dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani (economici, sociali, culturali, civili, politici, di solidarietà) e della sussidiarietà, territoriale e funzionale. La sfida della democrazia internazionale rende evidente l’incoerenza di coloro che, mentre da un lato si stracciano le vesti per il persistente “deficit democratico” dell’Unione Europea, dall’altro, rimangono insensibili di fronte al deficit democratico sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (dove dove il Consiglio di Sicurezza è investito della competenza di decidere l’uso della forza militare!), sia dell’intero sistema di Agenzie specializzate delle Nazioni Unite (si pensi in particolare al Fondo Monetario e alla Banca Mondiale), sia della sopravvenuta Organizzazione Mondiale del Commercio.
2. Con la Tavola della Pace il movimento pacifista in Italia fa un considerevole balzo in avanti nel manifestarsi quale soggetto di società civile capace di attivare sinergismi per la costruzione di una nuova cultura politica, segnata dall’orientamento all’azione, da una forte dimensione internazionale, da una altrettanto forte sensibilità per il destino delle istituzioni, e, soprattutto, dal solido ancoraggio al paradigma etico-giuridico dei diritti umani internazionalmente riconosciuti.
Il movimento pacifista italiano matura e rielabora velocemente le esperienze fatte negli anni ottanta con le mobilitazioni contro i missili e con la partecipazione attiva alle grandi Convenzioni europee per il disarmo nucleare (END). La folta partecipazione al varo ufficiale della “Helsinki Citizens Assembly”, HCA, nel novembre del 1990 a Praga, segna un punto di svolta: il tema dei diritti umani e della legalità internazionale fondata sulla Carta delle Nazioni Unite, sulla Dichiarazione universale dei diritti umani e sull’Atto finale di Helsinki assume piena visibilità e diventa trasversale ai vari filoni di riflessione e ai vari campi d’azione del pacifismo e dell’associazionismo solidarista più in generale.
Il 1991 è segnato dall’estesa mobilitazione del pacifismo italiano ed europeo contro la Guerra del Golfo e contro la violenza divampata nella ex Jugoslavia. Su questo secondo fronte si segnalano in particolare due iniziative realizzate nel quadro della HCA: la riunione di luglio a Belgrado con leaders politici (tra i quali, Milovan Gilas) e di società civile delle varie Repubbliche della (ex) Federazione jugoslava e l’imponente Marcia-carovana della pace Trieste-Lubiana-Zagabria-Belgrado-Sarajevo di settembre. Nel cuore di Belgrado avviene l’incontro con esponenti di società civile, intellettuali e gruppi vari, tra i quali il gruppo delle mamme dei disertori (madri in nero). In una delle tante riunioni, viene presentato il documento della Commissione diritti umani della HCA, preparato dal Centro diritti umani dell’Università di Padova (responsabile della suddetta Commissione), nel quale si sosteneva la piena legittimità del diritto-dovere di disertare le guerre, a cominciare dalle guerre civili: considerate, queste, in analogia alla tortura e ai comportamenti inumani e degradanti per i quali vige l’assoluto divieto di ius cogens, eplicitamente sancito da apposite convenzioni giuridiche internazionali[1].
Sempre nel 1991, la (prima) guerra del Golfo viene lucidamente percepita negli ambienti pacifisti quale sinistro segnale di una linea di tendenza degli stati a riappropriarsi di quello ius ad bellum (diritto di fare la guerra) che la Carta delle Nazioni Unite ha loro giuridicamente sottratto. Si reagisce diffusamente in Italia alla arbitraria, mistificatoria giustificazione di quella guerra, presentata dal Governo italiano in Parlamento quale “operazione di polizia delle Nazioni Unite”. Come mai prima, circola diffusamente in sede locale (associazioni, parrocchie, consigli comunali) la Carta delle Nazioni Unite (si pensi ai non pochi Comuni dichiaratisi allora ‘non belligeranti’: per esempio, i Comuni di Ponte San Niccolò, Vigonza e Arre, in provincia di Padova), la si “scopre” in perfetta consonanza con l’articolo 11 della Costituzione repubblicana, si affina la sensibilità per il “nuovo” Diritto internazionale che si radica appunto nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti umani[2]. Ancora nel 1991, nel mese di marzo a Perugia, durante l’Assemblea del “Coordinamento degli enti locali per la pace” (l’aggiunta “e i diritti umani” nella denominazione del Coordinamento avverrà per decisione dell’Assemblea di Napoli nell’ottobre 2002), viene lanciata la proposta di inserire nei nuovi Statuti di Comuni e Province quella che è oggi comunemente chiamata la “norma pace diritti umani” e il cui testo standard recita: “Il Comune x (la Provincia x), in conformità ai principi costituzionali e alle norme internazionali che riconoscono i diritti innati delle persone umane, sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli – Carta delle Nazioni Unite, Dichiarazione universale dei diritti umani, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia –, riconosce nella pace un diritto fondamentale delle persone e dei popoli. A tal fine il Comune (la Provincia) promuove la cultura della pace e dei diritti umani mediante iniziative culturali e di ricerca, di educazione, di cooperazione e di informazione che tendono a fare del Comune una terra di pace. Il Comune (la Provincia) assumerà iniziative dirette e favorirà quelle di istituzioni culturali e scolastiche, associazioni, gruppi di volontariato e di cooperazione internazionale”.
Significativo e caloroso fu l’appoggio dato all’iniziativa, in quella e in altre occasioni, dall’indimenticabile Ernesto Balducci. Negli anni a seguire la proposta viene fatta propria da migliaia di enti di governo locale, dando luogo ad un evento giuridico-politico-istituzionale che, oltre che essere innovativo per la prassi statutaria degli ordinamenti sub-nazionali, rimane tuttora unico al mondo[3]. Il suo significato può essere così riassunto: in Italia, gli enti di governo lovale, in virtù del fatto di collegarsi esplicitamente sia con la Costituzione nazionale sia con le fonti del diritto internazionale dei diritti umani e della pace, si fanno assertori dell’effettività di questo nuovo diritto umanocentrico e così rafforzano la loro legittimazione ad agire per la pace, i diritti umani, la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà al di là e al di sopra dei confini nazionali, cioè nello spazio trans-territoriale che è proprio dei diritti umani e la cui agibilità si ispira al principio secondo cui “il riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” (incipit della Dichiarazione universale). È la scelta forte e irrevocabile della “via istituzionale democratica alla pace” – via nonviolenta per definizione – che contribuisce, tra l’altro, a sviluppare i rapporti di collaborazione tra le istituzioni locali e il mondo dell’associazionismo e del volontariato e favorisce la convergenza delle forze pacifiste al di là delle differenti ascendenze ideologiche.
Nel 1992 viene lanciato, attraverso l’Associazione per la Pace, un ”Appello per la democratizzazione delle Nazioni Unite”, prontamente sottoscritto da numerosi esponenti del mondo della cultura, della solidarietà e della politica, fra i quali Norberto Bobbio e don Tonino Bello, Vescovo di Barletta e Presidente di Pax Christi Italia[4].
Significativamente, la Rivista “Nigrizia” contribuisce a dare visibilità organica a questo percorso di nuova cultura politica con la rubrica “Diritti umani e…” nei dodici fascicoli del 1992, con la rubrica “L’ONU dei Popoli” nei dodici fascicoli del 1993, con la rubrica “Osservatorio internazionale” nei ventiquattro fascicoli del 1994 e del 1995.
In questo contesto di feconda “aratura”, di cui abbiamo segnalato soltanto alcuni dati significativi, prende origine, nel 1995, la “Assemblea dell’ONU dei Popoli”, a cadenza biennale, iniziativa che manifesta subito la vocazione ad assumere caratteri di vera e propria infrastrutturalità. A partire da quell’anno, la storica Marcia della Pace Perugia-Assisi, oltre che rinfoltirsi numericamente, accentua il suo impatto simbolico: essa diventa sigillo di legittimazione popolare nei riguardi di quanto elaborato in termini di analisi critica e di progettualità politico-istituzionale dall’Assemblea dell’ONU dei Popoli che immediatamente la precede.
La prima edizione dell’Assemblea dell’ONU dei Popoli è da inscrivere nella storia del pacifismo come l’evento più rilevante, quanto a specificità di contenuti e a capacità di mobilitazione popolare, non soltanto tra quelli realizzati in Italia nel quadro delle ‘celebrazioni’ del 50° anniversario delle Nazioni Unite, ma anche tra quelli attuati nel mondo intero. Significativamente, nel gennaio del 1996, durante la sua visita in Italia, l’allora Segretario Generale Boutros-Boutros Ghali (puntualmente informato dalla indimenticabile Nadia Iunes, Direttrice dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Roma, uccisa nell’agosto 2004 nell’attentato di Bagdad contro la sede della delegazione delle Nazioni Unite in cui perse la vita anche Sergio Vieiro de Mello, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani) riconobbe pubblicamente il rilievo di quell’evento e manifestò la sua gratitudine per le formazioni di società civile che l’avevano reso possibile (in Campidoglio, auspici sempre Nadia Iunes e l’allora sindaco Rutelli, ci fu l’incontro caloroso tra i promotori dell’ONU dei Popoli e B.B.Ghali).
La piattaforma di denunce e proposte, messa a punto in occasione della prima Assemblea dell’ONU dei Popoli, segna i successivi sviluppi del pacifismo italiano. In particolare, in occasione della terza edizione dell’Assemblea, nell’ottobre del 1999, viene messo in circolazione il documento “Per un nuovo ordine internazionale democratico e pacifico”, contenente l’identikit dell’ordine mondiale basato sullo zoccolo duro del diritto internazionale dei diritti umani, in contrapposizione al modello “gerarchico” e bellicoso portato avanti dalla superpotenza in maniera esplicita a partire dal 1991[5].
3. La Tavola della Pace nasce sull’onda del successo di idee, partecipazione, rappresentatività, visibilità internazionale della prima edizione dell’Assemblea dell’ONU dei Popoli. L’originale approccio “Rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite”, adottato in quella occasione, si impone all’attenzione internazionale e contribuisce a collocare la Tavola della Pace tra le punte più avanzate, quanto a capacità di elaborazione culturale e progettualità politica, delle formazioni organizzate e dei movimenti transnazionali di global civil society. Nelle cinque edizioni di Assemblea dell’ONU dei Popoli che seguono, l’agenda della Tavola assume caratteri di sempre più marcata strategicità: il destino delle Nazioni Unite viene sempre più organicamente collegato a quello dell’ordine mondiale, i fenomeni politici a quelli economici e ambientali, il futuro dell’Unione Europea a quello delle Nazioni Unite, del Mediterraneo e dell’Africa, la costruzione della pace positiva al Diritto internazionale dei diritti umani, di “tutti i diritti umani per tutti” (all human rights for all). I vari documenti dell’Assemblea dell’ONU dei Popoli, insieme con quelli relativi al Seminario internazionale organizzato a Padova nel novembre del 2004 all’insegna di “Reclaim our United Nations” (in preparazione del World Social Forum di Porto Alegre) sono espressioni di un laboratorio ricco di idee e di ‘anticipazioni’, ancor più che di denunce e di provocazioni[6]. Unitamente alla spettacolarità della Marcia della Pace e alla miriade di eventi locali che la precedono e la seguono – organizzati in stretta collaborazione con gli enti di governo locale e regionale –, tali documenti contribuiscono a fare acquisire alla Tavola il definitivo riconoscimento internazionale e la sua legittimazione a giocare, in seno al più vasto movimento pacifista transnazionale, a cominciare dal World Social Forum, un ruolo di traino per quanto riguarda le articolazioni progettuali e le mobilitazioni operative della “via istituzionale democratica alla pace”.
4. Di fronte ad un originale percorso in costante sviluppo e di così ampio rilievo internazionale e considerando che la Tavola della Pace non ha la forma istituzionale di una ONG o comunque di un’entità giuridicamente costituita, viene spontaneo domandarsi: ma com’è stato possibile?
Una prima risposta è che, nel nostro caso, più che la magnitudine organizzativa o i caratteri formali, contano le idee, la capacità di anticipare, di sempre collegare alla denuncia la proposta, di far convergere e aggregare forze anche molto diverse fra loro, il saldo ancoraggio al paradigma dei diritti umani e della legalità internazionale. Come dire: la qualità dell’albero si giudica dalla qualità dei frutti e questi, nel nostro caso, sono complessivamente buoni, molto buoni.
La Tavola è un “coordinamento” vitale, nel senso più genuino del termine, capace di restare ‘movimento’ nonostante i ragguardevoli sviluppi infrastrutturali costituiti, giova sottolinearlo ancora una volta, dall’Assemblea dell’ONU dei Popoli, dalla collegata Marcia della Pace Perugia-Assisi e dagli organici programmi di educazione a pace e diritti umani in ambito scolastico ed extrascolastico.
Ci si può anche azzardare a dire che la Tavola gode già di una propria “rendita di posizione”, da sviluppare, beninteso, cooperativamente, anzi cooperativisticamente, e le cui risorse sono così riassumibili, indicativamente:
- La Tavola è simbolo di identificazione culturale-politica per vasti strati di società civile;
- ha favorito e alimenta la convergenza di forze di società civile di diversa ascendenza ideale e politica, laiche e religiose;
- ha diffuso e alimenta la cultura “pace diritti umani economia di giustizia democrazia internazionale”;
- contribuisce ad “equipaggiare” di strutture e programmi gli enti di governo locale (assessorati alla pace e ai diritti umani, iniziative di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale, mobilitazioni per la pace, per le Nazioni Unite, per il ripudio della guerra nella Costituzione europea, ecc.);
- contribuisce ad arricchire la dimensione politica delle iniziative di economia di giustizia, commercio equo e solidale, microcredito, banca etica, norma etica, ecc.;
- contribuisce a rendere sempre più visibile la dimensione internazionale della cultura delle formazioni di società civile e degli enti di governo locale e regionale;
- contribuisce a diffondere l’insegnamento e l’educazione alla pace e ai diritti umani negli ambienti scolastici ed extra-scolastici;
- ha certamente influenzato l’iniziativa di numerose università intesa ad attivare Corsi di laurea e Masters nello specifico campo della pace, dei diritti umani, della cooperazione allo sviluppo;
- gode dell’appoggio costante dei grandi sindacati;
- è riuscita, più di recente, ad innescare il coinvolgimento del mondo della stampa;
- sul piano mondiale, ha “anticipato” movimenti, organizzazioni non governative e altre forze politiche nel mettere a punto, sistematicamente, organicamente, la strategia “rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite”;
- ha trovato risonanza in almeno una prestigiosa “Internazionale” partitica;
- ha diffuso la puntuale conoscenza di essenziali elementi di legalità internazionale;
- ha contribuito a demistificare le “guerre dei diritti umani” e le “guerre umanitarie”.
L’elenco potrebbe anche essere più lungo.
In conclusione, nell’arco di dieci anni l’impatto della cultura politica della Tavola sul mondo di società civile, compresi gli enti locali, la scuola e l’università – una cultura a tutto tondo, costantemente aggiornata, sistematica, progettuale, innovativa, … – è stato considerevole: possiamo senz’altro dire che la Tavola ha già meritato una “certificazione di qualità” di alta caratura.
Non altrettanto può dirsi per quanto riguarda la ricaduta della Tavola nei riguardi degli ambienti governativi e partitici. La spiegazione va ricercata, principalmente, nella non ricettività, se non addirittura nella aprioristica diffidenza e chiusura dei loro vertici, fatta naturalmente ogni debita, seppure rarissima, eccezione.
Il sospetto è che, al di là di un diffuso, supponente disinteresse e di un altrettanto diffuso, vischioso auto-referenzialismo di tali ambienti, ci sia in essi il timore di un sorpasso o di un surclassamento nei processi di elaborazione e aggiornamento culturale, o comunque il fastidio per un’indebita intrusione, insomma: “lasciateci fare, noi politici siamo autosufficienti quanto a capacità di elaborazione culturale, progettualità, visione strategica, capacità di indurre consenso…”.
5. Quanto al futuro prossimo della Tavola, io lo vedo declinato nell’impegno teso a sviluppare l’originale percorso politico-culturale che possiamo senz’altro chiamare la “Via Perugia-Assisi alla pace positiva”, The Perugia-Assisi Way to Positive Peace.
A tal fine, occorre:
- preservare e alimentare la preziosa risorsa costituita dalle varie identità dei partecipanti: dunque “differenze in dialogo per convergere” su una comune piattaforma operativa di alto rilievo politico e di altrettanto elevata qualità morale;
- rendere sempre più visibile la sana laicità dell’operare, all’insegna dei grandi valori umani universali riconosciuti dal vigente Diritto internazionale col nome di “diritti della persona e dei popoli”;
- arricchire di ulteriori contenuti l’originale identità della Tavola quale laboratorio permanente di cultura politica e di serbatoio di risorse umane cui attingere per ruoli politici attivi e innovativi ai vari livelli;
- alimentare il dialogo e la collaborazione solidaristica all’interno della sua ampia e variegata rete di membri, per l’ulteriore sviluppo della cultura “pace diritti umani dalla Città all’ONU” lungo, appunto, la Via Perugia-Assisi alla pace positiva;
- preservare e alimentare lo “spirito di movimento” di società civile globale;
- rendere sempre più puntuale l’attenzione per i problemi della legalità internazionale, per la salute democratica delle istituzioni dai micro livelli locali al macro livello europeo e mondiale, per lo sviluppo delle iniziative di economia di giustizia, in particolare per il rafforzamento e la democratizzazione delle Nazioni Unite e dei processi d’integrazione regionale a cominciare da quello gestito dall’Unione Europea;
- sviluppare la consapevolezza dell’altissimo valore, non soltanto simbolico, di aprire orizzonti all’azione dei due poli originari della sussidiarità: il polo territoriale (comuni, regioni) e il polo funzionale solidaristico (associazioni, movimenti, gruppi di volontariato), dunque consolidare l’alleanza e sviluppare sinergismi tra il mondo dell’associazionismo e quello delle istituzioni di governo locale e regionale;
- collaborare con gli enti di governo locale e regionale per il dialogo interculturale finalizzato alla realizzazione della “città inclusiva” e per l’installazione e il funzionamento di strutture organizzative permanenti (assessorati, dipartimenti, uffici, consulte per pace, diritti umani, cooperazione allo sviluppo, solidarietà internazionale, difensori civici, ecc.);
- sviluppare la collaborazione con le organizzazioni e i movimenti per i diritti delle donne, dei bambini, dei rifugiati, dei lavoratori migranti, delle persone con disabilità;
- rafforzare l’alleanza con le grandi forze sindacali;
- sviluppare rapporti di collaborazione col mondo della scuola e dell’università;
- sviluppare i rapporti con le legittime Istituzioni internazionali, in particolare con le Nazioni Unite, l’Unesco, lo Undp, in particolare con le istituzioni parlamentari internazionali-regionali – dal Parlamento Europeo alle Assemblee Parlamentari del Consiglo d’Europa e della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), dal Parlamento Panafricano (di recente istituzione) al Parlamento Latinoamericano (cosiddetto Parlatino) il Comitato delle Regioni dell’UE;
- sviluppare i rapporti con le associazioni internazionali degli enti locali, in particolare con “United Cities and Local Government”;
- sviluppare i rapporti con le “Internazionali” partitiche;
- sviluppare i rapporti con quelle formazioni religiose, nazionali e internazionali, che sono più sensibili ai problemi della pace, dei diritti umani e della giustizia sociale.
A livello nazionale, tra le priorità per l’azione della Tavola in Italia si segnalano:
- la rapida creazione delle “Istituzioni nazionali dei diritti umani”, quali organismi ‘indipendenti’: Commissione nazionale dei diritti umani, Difensore civico nazionale, Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, secondo lo schema raccomandato dall’ONU e dal Consiglio d’Europa a partire dal 1993;
- l’avvio della prassi di una seduta annuale del Parlamento nella forma di “Forum sui diritti umani”, in particolare per la discussione sia dei Rapporti periodicamente presentati dal Governo alle apposite istanze internazionali sia dei Rapporti di critica e proposta provenienti da queste ultime;
- l’avvio di una sistematica prassi parlamentare di periodiche “udienze conoscitive pace diritti umani sviluppo” con il coinvolgimento di associazioni, enti locali, università, gruppi religiosi;
- la costituzione, presso il Ministero degli Affari Esteri, di un tavolo permanente “pace diritti umani democrazia internazionale” con la partecipazione delle formazioni di società civile e degli enti di governo locale: l’agenda di questo tavolo avrebbe carattere generale e non annullerebbe più specifici tavoli tematici, in particolare quello dedicato alla cooperazione allo sviluppo.
6. Per quanto riguarda l’azione politica sul piano internazionale, occorre:
- continuare a monitorare l’attività di riforma delle Nazioni Unite insistendo sulla necessità della loro democratizzazione, dunque ribadendo e aggiornando il dossier di proposte elaborato fin dalla prima edizione dell’Assemblea dell’ONU dei Popoli;
- subito condurre una capillare campagna d’informazione e denuncia nei confronti di quanto si sta preparando per stravolgere la logica della Carta delle Nazioni Unite in materia di pace e sicurezza. Nei recenti Rapporti ufficiali sulla riforma, compreso quello del Segretario Generale intitolato “In larger freedom” (marzo 2005), si fa un’arbitraria distinzione tra “uso della forza” e “peacekeeping” e si assume che del primo siano titolari (soltanto) gli stati e del secondo le Nazioni Unite. Mentre all’ONU rimarrebbero i “Caschi Blu” (angelicati…), per gli stati si allargherebbero le possibilità di “usare la forza” (pesante): in via “successiva” ad attacco armato, in via “preemptiva” se la minaccia è imminente, in via “preventiva” se la minaccia è non-imminente o latente, in via “protettiva” se si è in presenza di genocidi ed efferatezze simili (questa tipologia è nel Rapporto del Segretario Generale). Nella sostanza, la “guerra preventiva” che non è potuta entrare all’ONU per la porta principale, vi entrerebbe dalla finestra. La prospettiva che si va delineando è quella della “guerra facile” (the easy war), cioè della paura generalizzata e della destabilizzazione permanente del pianeta;
- in presenza appunto di questa terrificante prospettiva, avvalorata dal riarmo in atto, che occorre alzare il livello della denuncia: in particolare contro la menzogna e le mistificazioni;
- insistere nel denunciare con forza, opportune et inopportune, il tentativo in atto da parte del governo della superpotenza (e di altri governi che opportunisticamente le si accodano) di riprendersi lo ius ad bellum cancellato dalla Carta delle Nazioni Unite (il vigente Diritto internazionale sta dalla nostra parte!);
- denunciare che è in atto il tentativo di trasformare l’ONU da “istituzione inclusiva” (ad omnes includendos: tutti i popoli e tutte le nazioni, grandi e piccole) a “istituzione che esclude” (ad alios excludendos). Il segnale della discriminazione viene anche dall’avvenuta sostituzione della Commissione diritti umani, formata dai rappresentanti di 53 stati membri dell’ONU, con un Consiglio permanente dei diritti umani, formato dai rappresentanti governativi di 47 stati membri. All’origine di questa iniziativa sta l’idea di un gruppo di governi, soprattutto occidentali, che di questo Consiglio avrebbero dovuto far parte soltanto “Paesi buoni”, e tra questi i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, grandi campioni dei diritti umani … Il disegno non è riuscito fino in fondo, si sta traducendo in un boomerang per i promotori, gli Stati Uniti sono rimasti fuori dal nuovo Consiglio, vi sono stati eletti Paesi il cui regime non è certamente democratico. La situazione si presenta complessa e problematica e merita più approfondite considerazioni, soprattutto vigilanza;
- in via generale, denunciare il tentativo in atto di piazzare i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza nei nuovi organi che si vanno costituendo, com’è già avvenuto per la “Commissione sul Peace-building”;
- denunciare il tentativo in atto di far prevalere la valenza intergovernativa sulla valenza sopranazionale dell’ONU e di ridurre la consistenza del ruolo delle ONG nel sistema delle Nazioni Unite;
- intensificare l’azione (informazione, pressione, networking) per il disarmo reale, la distruzione delle armi nucleari e di distruzione di massa, la messa sotto controllo ONU sia del commercio internazionale sia della produzione di qualsiasi altro tipo di armi;
- operare per la salvaguardia della biodiversità e della salute dell’ambiente naturale;
- operare perché la recente Convenzione giuridica dell’Unesco sulla diversità culturale trovi effettiva applicazione;
- guardare all’Unesco con maggiore attenzione ed esercitare pressioni perché finalmente le sia consentito di varare un documento per il riconoscimento giuridico formale della pace quale “diritto umano”, traguardo finora impedito soprattutto dai paesi occidentali;
- operare per la messa in applicazione dell’articolo 43 della Carta delle Nazioni Unite (costituzione di una forza di polizia militare e civile permanente dell’ONU), quale presupposto per l’applicazione dell’articolo 42 che stabilisce che l’ONU può decidere di “agire in proprio”, senza dover delegare agli stati la delicatissima materia dell’uso della forza.
A questo riguardo, potrebbe aprirsi un interessante percorso di alta politica se si riuscisse a far sì che l’Italia decida (auspicabilmente di concerto con altri paesi dell’Unione Europa) di mettere a disposizione dell’ONU, in via permanente, parte delle proprie forze armate debitamente riconvertite in forze di polizia militare internazionale. In sede UE ci sono già gruppi militari integrati di rapido impiego (stand-by units), con cosistente partecipazione italiana. La loro messa a disposizione permanente dell’ONU ai sensi dell’articolo 43 farebbe scattare, come prima segnalato, l’applicazione dell’articolo 42 e riscatterebbe l’ONU (e gli altri stati membri) dalla condizione di umiliante, sempre più pericolosa sudditanza nei riguardi dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza come previsto dal tuttora vigente articolo 106 (XVII “disposizione transitoria”!) della Carta, che recita: “In attesa che entrino in vigore accordi speciali, previsti dall’articolo 43, tali, secondo il parere del Consiglio di Sicurezza, da rendere ad esso possibile di iniziare l’esercizio delle proprie funzioni a norma dell’articolo 42, gli Stati partecipanti alla Dichiarazione delle Quattro Potenze, firmata a Mosca il 30 ottobre 1943 (cioè Usa, Urss, Francia, Regno Unito: ndr) e la Francia si consulteranno tra loro e, quando lo richiedono le circostanze, con altri Membri delle Nazioni Unite in vista di quell’azione comune necessaria al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.
Siamo in presenza di una macro-vergogna!! A sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale si continua ad essere, tutti, a sovranità limitata rispetto ai “5” che, appunto ai sensi dell’articolo 106, sono formalmente ‘legittimati’ a collocarsi addirittura al di fuori e al di sopra della Carta delle Nazioni Unite!Occorre sviluppare una campagna mondiale per l’abrogazione di questo articolo e per sbloccare, una volta per tutte, il cammino di human security e di human development che è di fronte alla massima Organizzazione mondiale.
Più in generale, per quanto riguarda la riforma delle Nazioni Unite occorre insistere nel tenere legati insieme il destino del Consiglio di Sicurezza e quello del Consiglio Economico e Sociale, ECOSOC, affinchè gli obiettivi dello sviluppo umano siano sullo stesso piano di quelli della sicurezza, in ossequio al principio dell’interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani: in altri termini, occorre che l’Ecosoc abbia i poteri necessari per obbligare Fondo Monetario e Banca Mondiale a operare nel solco dei principi e dei fini della Carta delle Nazioni Unite.
Occorre infine insistere per la convocazione di una “Convenzione universale sul futuro delle Nazioni Unite” sulla base dello schema messo a punto in occasione del già ricordato Seminario internazionale “Reclaim our United Nations” del novembre 2004 a Padova.
Quanto sopra indicativamente suggerito dovrebbe consentire di ulteriormente sviluppare l’identità propria della Tavola della Pace che, giova ribadirlo, è quella di un grande laboratorio il quale, lungi dal sovrapporsi all’identità e ai mandati specifici delle associazioni e degli enti locali che ne fanno parte, si dimostra capace di far tutti convergere su un’agenda politica di alto profilo innovativo e mobilitante e di farne a tutti percepire il considerevole valore aggiunto per il comune cammino sulla via istituzionale democratica alla pace.
7. Riflessione finale
Nei dibattiti pubblici, dove si cimentano politici e intellettuali di vetrina, si manifestano spesso supponenza, derisione, astio nei confronti dei pacifisti. I soliti benpensanti prendono distanze, distinguendo tra pacifisti e (veri) costruttori di pace. È una distinzione ridicola e farisaica: come dire ai socialisti, se volete essere genuini dovete chiamarvi socialcostruttori, e agli archivisti, se volete essere genuini, dovete chiamarvi archiviatori, e ai violinisti, violinatori…Ridicolo! Più elegantemente, per molti “distinguisti” (“distinguitori”?…) vale la metafora dei sepolcri imbiancati.
C’è sempre qualche benpensante che “concede”, bontà sua: mi sta bene l’impegno per la pace, neppure io voglio la guerra, ma voi pacifisti cosa rispondete di fronte a casi come quelli del Rwanda, del Kosovo, della Bosnia, della Cecenia….)? Quali alternative alla guerra?
Mi pare che quanto finora puntualmente elaborato e testimoniato dalla Tavola della Pace sia la risposta: esistono alternative reali alla guerra, esse consistono primariamente nel rispetto della legalità internazionale, a cominciare dall’obbligo giuridico di far funzionare le legittime istituzioni internazionali, soprattutto l’ONU, dunque senza fare di questa il capro espiatorio di inadempienze e illegalità altrui. Non a caso Giovanni Paolo II, il grande Papa pacifista – del quale, col tempo, sempre più rifulgerà la radicalità evangelica –, ha insistito nel dire che la pace è doverosa perché è possibile: è possibile appunto perché esistono vie che sono alternative alla guerra, perché il pianeta è attrezzato di strumenti che, se adeguatamente messi in funzione, consentono di evitare la trappola dei determinismi bellicistici, perché disponiamo di un ‘nuovo’ Diritto internazionale incomparabilmente più buono e giusto del ‘vecchio’ Diritto delle sovranità statuali-nazionali-armate-confinarie, ecc. ecc. La risposta ai benpensanti che “concedono” è: ma voi cosa fate perché non si producano i conflitti violenti, per infrastrutturare la cooperazione e il dialogo, per sostenere iniziative di economia di giustizia, per uscire dalla logica dei giochi a somma zero, per evitare che per l’ennesima volta ci si trovi di fronte a quello che voi, troppo spesso, considerate l’inevitabile, per non sprecare risorse umane e finanziarie nell’ennesima avventura senza ritorno, per evitare che le coscienze siano lacerate in presenza dell’ennesimo fait accompli….? Insomma, quali sono i contenuti concreti del vostro dire che bisogna “prevenire”? Quali, gli impegni concreti del vostro dire “sviluppo”, “ambiente”, “sicurezza”, “legalità”? Senza mettere in dubbio la vostra integrità morale, dove sta la vostra intelligenza politica?
Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini: come noto, a Roma, soprattutto in epoca rinascimentale e barocca, molto materiale edile fu ricavato facendo scempio di monumenti antichi, compreso il Colosseo. La metafora può valere anche oggi: nuovi barbari sono quei governanti, singoli o consorziati in “vertici” e “coalizioni a la carte, che tentano di smantellare le basi stesse di quell’ordine mondiale di pace positiva la cui costruzione è stata avviata dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione universale dei Diritti umani e dalle successive Conventioni giuridiche internazionali. È il caso di sottolineare che fanno parte di questo Diritto universale dei diritti umani e della pace – ius novum universale – principi forti quali il ripudio della guerra enunciato nel Preambolo della Carta e il perentorio divieto contenuto nell’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, entrato in vigore nel 1976 e ratificato dall’Italia nel 1977: “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge”. Non si vieta ciò che è lecito …È qui opportuno sottolineare, ancora una volta che, appunto in virtù della Carta delle Nazioni Unite e della produzione normativa che ne è discesa, ha assunto contorni sempre più chiari nell’ordinamento internazionale il principio di “autorità sopranazionale” deputata a far sì che gli stati e i popoli non si facciano giustizia da sé. Ne populi ad arma veniant è, nel dilatato spazio ordinamentale del pianeta, la riformulazione del principio ne cives ad arma veniant, cioè di un principio che è parte essenziale della stessa ragion d’essere della moderna “forma Stato”. In altre parole, a partire dalla “premessa” fondativa del 1945 sono venute prendendo corpo le condizioni reali per fare uscire, una volta per tutte, la vita delle persone e dei popoli nel pianeta dallo stadio primitivo del bellum omnium contra omnes: un formidabile balzo in avanti della condizione di “tutti i membri della famiglia umana” attraverso la civiltà del diritto.
Il destino del Diritto internazionale umanocentrico e quello delle legittime istituzioni internazionali multilaterali, in primis delle Nazioni Unite, sono inscindibili: se si ostacola l’avanzamento del primo si pregiudica la funzionalità delle seconde, e viceversa. Questa consapevolezza sta appunto alla base dell’originale percorso di elaborazione culturale e di azione politica, portato tenacemente avanti dalla Tavola della Pace con la biennale “Assemblea dell’Onu dei Popoli” cui si è aggiunta la “Assemblea dell’Onu dei Giovani”. Questo percorso costituisce una coerente e aggiornata coniugazione di diritto e di politica sulla via istituzionale democratica alla pace, coniugazione resa agevole dal fatto che il nuovo diritto internazionale pace-diritti umani ha recepito principi di etica universale e se ne fa autorevole traghettatore nel campo appunto della politica.
[1] Vedi il testo nella rivista “Pace diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, V, 2, 1991.
[2] Per una puntuale e dettagliata rassegna della mobilitazione delle formazioni di società civile in Italia all’epoca della prima guerra del Golfo vedi il numero monografico della Rivista “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, IV, 3, 1990 (1991).
[3] È dedicato alla prima fase di diffusione della “norma pace diritti umani” il volume di G.Lombardi, P.Merlo, M.Mascia, Pace e diritti umani negli Statuti comunali. Il caso della Regione Veneto, Padova, Cedam, 1997.
[4] Per il testo di questo appello vedi “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, VI, 2, 1992, pp.83-87.
[5] Il testo è stato pubblicato e distribuito in migliaia di copie a cura della Tavola della Pace in occasione della 3° edizione dell’Assemblea dell’ONU dei Popoli.
[6] Documenti e saggi riguardanti la prima edizione dell’Assemblea dell’ONU dei Popoli sono contenuti nel volume a cura di F. Lotti e N. Giandomenico, L’ONU dei Popoli. Prospettive, idee e movimenti per riformare e democratizzare le Nazioni Unite, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1992. Testi significativi sono anche nella rivista “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, VII, 2, 1993 (1995), pp. 137-149. Più di recente, vedi il documento Reclaim Our United Nations. Appeal of the International Seminar on the Future of the United Nations and the International Organisations in Preparation of the 5th World Social Forum 2005, in “Pace diritti umani/Peace human rights”, nuova serie, II, 1, gennaio-aprile 2005, pp. 171-176.