Riportare il tema del G8 a Genova nel canale del dibattito politico e della pratica democratica: in questa direzione vanno le dichiarazioni del Ministro Ruggiero e gli auspici di buon senso comune di gran parte dell’opinione pubblica. Il cosiddetto popolo di Seattle non è quello degli episodi di violenza che così ampia risonanza stanno trovando nei mass media. Esso è nato molto prima di Seattle, addirittura durante la Conferenza di San Francisco che dall’aprile al giugno del 1945 elaborò la Carta delle Nazioni Unite. Una quarantina di Organizzazioni non governative, ONG, parteciparono allora attivamente ai lavori della Conferenza e contribuirono a far sì che nella Carta fossero inclusi principi di etica universale quali il rispetto del valore assoluto della dignità umana e dei diritti fondamentali che da essa discendono, il ripudio della guerra, l’obbligo di risolvere pacificamente le controversie internazionali, la cooperazione multilaterale. Quelle ONG possono a giusto titolo essere considerate le antesignane della foltissima schiera di movimenti e organizzazioni di società civile che sono oggi attive in quasi tutti i paesi del mondo. Migliaia di esse beneficiano anche di ‘status consultivo’ presso le Nazioni Unite ed altre importanti istituzioni internazionali.
Questa capillare e operosa realtà, pur essendo estremamente differenziata quanto a culture di provenienza, si riconosce nei principi del Diritto internazionale dei diritti umani, partecipa costruttivamente alle Conferenze mondiali delle Nazioni Unite, sostiene l’azione dei Tribunali penali internazionali (a Roma nel 1998, si coalizzò per fare adottare lo statuto della Corte penale internazionale permanente), gestisce innumerevoli programmi di cooperazione allo sviluppo, lotta per la salvaguardia del creato, sperimenta forme nuove di economia (dalla banca etica al commercio equo e solidale). Insomma è il movimento di società civile globale che si fa oggi interprete del diffuso malessere che è andato acuendosi, sia al Nord sia al Sud del pianeta, una volta scoperto che la fine dei blocchi, le rivoluzioni di velluto, la caduta delle ideologie totalitarie non hanno indotto le classi governanti, in particolare quelle dei paesi più ricchi, potenti e democratici della terra, a trarre la logica e ragionevole conclusione di impegnare risorse materiali e volontà politica nel costruire un ordine mondiale più giusto e pacifico.
Ci si aspettava la messa in opera di una strategia orientata a dare effettività al Diritto internazionale dei diritti umani, a quel ‘nuovo’ diritto universale che, insieme con il sistema delle Nazioni Unite, è da annoverare tra le più grandi e benefiche ‘scoperte’ del XX secolo. Il 1989 era il momento giusto per far valere in parole ed opere il primato di questo diritto, per ridefinire gli insostenibili termini di scambio nei rapporti fra i paesi ad economia forte e quelli ad economia debole, per dare finalmente inizio al disarmo reale e far decollare, con gli opportuni adeguamenti, il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite, più in generale per far funzionare le istituzioni internazionali fornendole delle risorse necessarie e democratizzandole.
Tutte queste aspettative, tanto legittime quanto tristemente deluse, costituiscono, in sintesi, la piattaforma rivendicativa del movimento di società civile globale che opera a fini di promozione umana al di là e al di sopra dei confini degli stati. Per avere un’idea aggiornata degli intenti costruttivi di questo movimento è utile consultare gli atti del “Millennium Forum: Noi popoli delle Nazioni Unite”, che ha riunito al Palazzo di Vetro dal 22 al 26 maggio 2000 i rappresentanti di oltre mille ONG, in particolare la Dichiarazione e il programma d’Azione. Sono strumenti molto seri e competenti che alla elucidazione dei principi accompagnano un puntuale “ruolino di marcia” indirizzato a tre categorie di soggetti: i governi, le Nazioni Unite, le organizzazioni non governative.
Questo movimento è portatore di un progetto di nuovo ordine mondiale umanocentrico, che ha come punti essenziali di riferimento la legge dei diritti umani e l’istituzione delle Nazioni Unite, come dire due parametri che, più obiettivamente di altri, si propongono alla universale partecipazione e condivisione. La particolare insistenza sulle Nazioni Unite discende dalla consapevolezza che è questo l’unico sito istituzionale del pianeta in cui tutti i paesi del mondo, grandi e piccoli, ricchi e poveri, possono confrontarsi, dialogare e cooperare alla luce del sole, nel rispetto di principi e di regole comuni. Il movimento transnazionale di società civile reagisce al fatto che alla via istituzionale e multilaterale al nuovo ordine mondiale si tenti di sostituire la via degli incontri di vertice per pochi, in altre parole esso vuole porre un argine alla de-regulation applicata anche al campo delle istituzioni.
A nessuno è dato di impedire che capi di stato e di governo si incontrino quando e dove vogliono, ma non è accettabile che, in nome dell’efficienza e della decisionalità per il tornaconto di pochi, essi trasformino gli incontri informali in “istituzioni” che di fatto prenderebbero il posto delle Nazioni Unite e delle altre Organizzazioni internazionali multilaterali, le uniche istituzioni legittime. Certamente, stare dentro queste è difficile e scomodo, data la varietà e l’eterogeneità degli stati che ne fanno parte. Ma allora perché non diciamo che è scomodo stare dentro i parlamenti nazionali, dove le maggioranze devono confrontarsi con le minoranze, anzi ne devono essere controllate? Non ci sogneremmo certamente di buttare a mare i nostri parlamenti per questa ragione. Se il pianeta si mondializza, se l’economia è mondializzata, non si vede perché non debba mondializzarsi anche la pratica della democrazia, per iniziativa e con l’esempio dato dai paesi che sono già democratici in casa propria. Questo è il nocciolo del problema: costretta dentro lo spazio dei singoli stati (democratici), la pratica democratica può anche entrare in crisi agonica se è vero che le grandi decisioni si prendono altrove, al di là e al di sopra dei confini nazionali. E allora urge portare la democrazia anche dentro questo “altrove”, cioè dentro l’ONU, l’Unione Europea, la Banca Mondiale, l’Organizzazione dell’Unità Africana e le altre istituzioni internazionali. Ad appoggiare questa operazione si dichiarano pronte, ormai da lungo tempo, le ONG e tante altre espressioni, organizzate e non, di società civile. Ricordo, per l’Italia, l’Appello per un Nuovo Ordine Internazionale Democratico lanciato da Mani Tese nel 1985 a Palazzo Vecchio, a Firenze, al termine di un Convegno internazionale cui partecipò, tra gli altri, l’indimenticabile Dom Helder Camara.
I governi non possono non tener conto del grado di maturazione politica e di pressione nonviolenta raggiunto dalla famiglia delle ONG e di altri movimenti solidaristici. Da cosa discendono l’attualità e la forza di questa realtà? Da una ragione molto semplice, ma anche molto toccante e convincente: ONG e gruppi di volontariato, operando a contatto di persone, famiglie, gruppi vulnerabili del proprio e di altri paesi, sperimentano quotidianamente cosa significano le sofferenze e i disagi, la lotta per la sopravvivenza e per la libertà dal bisogno e dai soprusi, sanno attivarsi anche nelle emergenze più difficili. Dispongono dei dati reali per comparare e misurare le condizioni di vita sul metro della comune dignità umana, avvertono l’attualità e l’urgenza della giustizia, dell’eguaglianza e la solidarietà, li sentono come valori umani universali, non come miti.
In presenza di questa nuova ‘forza profonda della storia’, che sta dalla parte del diritto, dell’etica e della ragionevolezza, che opera come movimento ‘costituzionalista’ dell’ordine mondiale, che i governi aprano non un solo tavolo, ma tanti tavoli di dialogo e collaborazione.