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Autismo e Lavoro. Un diritto di tutti?

Autismo e Lavoro. Un diritto di tutti?

Sommario

  • Li chiamano “ragazzi speciali”
  • Al grido di “Facciamoli lavorare, questi ragazzi speciali!”

Negli ultimi anni si stanno avviando tante imprese AUT, prevalentemente sociali, ma anche profit, che con coraggio stanno dimostrando quello che ancora oggi sembra impossibile: pensare che tutte le persone possono lavorare secondo i propri desideri e possibilità.

Li chiamano “ragazzi speciali”

Vedendo le immagini di questi ragazzi e ragazze che lavorano, sento spesso dire “ragazzi speciali”. Dovrebbe essere un apprezzamento, ma nel tempo questo aggettivo ha sostituito altre parole che ci sembrano non adeguate o troppo “mortificanti”, per cui quel “speciale” stride, assumendo la stessa funzione del superato “diversamente abile” (e pazienza se è anche scientificamente scorretto).
Ogni volta che diciamo speciali, vogliamo dire qualcos’altro, così da allontanarci da questi ragazzi/e e immaginarli sempre infanti,  fragili, piccoli, da proteggere.
Dicendo speciali, diciamo che hanno bisogno di contesti speciali, di qualcuno che se ne sappia occupare e la distanza tra noi loro aumenta.

L’adozione di un linguaggio inclusivo o rispettoso delle diversità sta diventando tema di dibattito su vari fronti: c’è chi è rigido e bacchetta chiunque si dimentichi di utilizzare frasi come “disabilità con…” o la schwa per riferirsi alle persone senza imporre una prevalenza di genere maschile e/o femminile; c’è chi si concentra sui contenuti delle parole e non sulla forma, asserendo che la funzione delle parole ha la priorità sulla topografia, c'è chi cerca di usare parole e frasi più neutre possibile dando peso alla lingua e a ciò che essa descrive.
Non riesco a prendere una posizione, ma ho imparato a valutare i contesti nei quali si utilizzano le parole e questo mi permette di comprendere quando vale la pena utilizzare un linguaggio inclusivo e quando sia meglio valorizzare il messaggio.
Ad ogni modo, la parola “speciale” associata al mondo della disabilità e delle neuro-atipicità, ha generato, nel tempo, fraintendimenti e messaggi non corretti.

Al grido di “Facciamoli lavorare, questi ragazzi speciali!”

Come se il tema del lavoro dipendesse dalla volontà di altri e ci si dimenticasse che è un diritto di tutti, sancito dall’articolo 14 della Costituzione Italiana:

“la Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro…secondo le proprie possibilità e la propria scelta”.

E’ ancora radicata in noi la convinzione che il lavoro sia un privilegio di pochi o di quelle persone che si dimostrano sufficientemente in grado di sostenere i bisogni delle aziende e quindi dedicarsi completamente al bene aziendale. In questa immagine distorta di “professionisti”, non si considera nemmeno che una persona con disabilità  possa avere le stesse opportunità, considerando la disabilità come un peso da sostenere individualmente e che, in tutto e per tutto, condizionerà la vita di una persona. Quindi la persona e la sua disabilità diventano un tutt’uno nella forma quasi mitologica - metà umano e metà limiti- del disabile: poche opportunità di lavoro, lavori non soddisfacenti o congruenti con i desideri e le competenze.
La dichiarazione dei diritti delle persone con disabilità definisce in modo chiaro che la disabilità in quanto tale non esiste, ma esiste solo in rapporto ai contesti. Sono i contesti che disabilitano ogni volta che escludono una persona e lo fanno in tanti modi, ma ciò che è più grave è l’esclusione dai pensieri e dai progetti, per cui ci si dimentica o si pensa che non sia responsabilità nostra quello di pensare ai diritti di chi è considerato più fragile.
L’iscrizione alla legge 68 e il collocamento mirato hanno creato opportunità in più, in una condizione di chiara discriminazione, ma il rischio di questa forma di tutela, laddove ottemperata la legge, è che vengano selezionate categorie di persone con disabilità nella forma meno ”ingombrante", per cui si cercano “disabili motori, ma non troppo, ciechi per il centralino e non autistico, meglio se down”.

Le imprese AUT, citate in precedenza, non sono progetti di inclusione lavorativa, bensì tentativi di inserimento lavorativo che hanno due scopi precisi: creare opportunità di lavoro per chi non ha opportunità e dichiarare che anche le persone autistiche possono lavorare.
Il primo scopo nasce dalla condizione di discriminazione che colpisce le persone autistiche. Un’interrogazione parlamentare del 2021 dichiara che il tasso di occupazione delle persone con questa diagnosi è inferiore al 10 %, ben al di sotto del 47% delle persone con disabilità in generale e infinitamente inferiore  al 72% per le persone senza disabilità. Questo significa che le persone autistiche sono discriminate in quanto tali e che le difficoltà di relazione, tipiche del funzionamento, impediscono la possibilità di vedere quali siano le capacità al di là delle difficoltà. Tale situazione si esplicita a prescindere dal funzionamento cognitivo.
L’autismo non è una malattia, è un funzionamento mentale diverso; quindi le difficoltà o peculiarità di relazione permangono, ma ciò non significa che persone con questa diagnosi non possano imparare un mestiere!
Alcune caratteristiche tipiche dell’autismo sono compatibili con caratteristiche professionali, se si colgono gli aspetti di efficacia ed efficienza delle specificità. Ad esempio, quella che viene considerata rigidità può trasformarsi in precisione e accuratezza, così come la paura del cambiamento può diventare capacità di tenuta e concentrazione su lavori ripetitivi. Infine la capacità di rispettare le regole, l’attenzione per i dettagli si possono applicare a mansioni lavorative specifiche. Eppure molte di queste persone non superano i colloqui lavorativi, perché “hanno troppi problemi relazionali”, valutati su stereotipi e comportamenti letti con ottiche abiliste (tenere il corpo immobile, guardare negli occhi, stringere le mani…)
Si arriva a livelli di esclusione tali che per tanti ragazzi e ragazze non è nemmeno contemplata la possibilità di lavorare: concludono la scuola e come unica traiettoria possibile ci sono i centri per la disabilità.
Allora nascono imprese “speciali”- che speciali non vogliono essere- che ambiscono ad essere come tutte le altre imprese: un luogo di lavoro.
“Quanti miglioramenti hanno fatto da quando lavorano! Il lavoro fa miracoli! Meglio della terapia fatta per tanti anni”, sentiamo raccontare.
Di nuovo il peso della comunicazione errata.
Il lavoro non è terapia, il lavoro non fa miracoli!
Il lavoro fa stare bene tutte le persone, sia quelle con disabilità che quelle senza, perché tra le tante definizioni che ognuno di noi cerca in se stesso, c’è anche la visione di sé come persona che realizza risultati, che si sente utile, magari come professionista.
Questa prospettiva è valida per tutti, anche per chi non eccelle in qualche mansione o socializza in modo atipico.
Capita spesso di sentir parlare delle super abilità delle persone con disabilità, che diventano interessanti all’opinione pubblica quando emergono per capacità ginniche, artistiche o intellettuali: “nonostante tutto, guarda che bravo” e così si rinforza il sensazionalismo, l’abilismo, la notizia eclatante.

Alla luce di tutto questo viene da chiedersi: “Ma il lavoro, allora, non è per tutti?” 
Con il rischio di passare per utopica, sono certa che il lavoro  sia per tutti, per chi eccelle e per chi se la cava, per chi lavora otto ore e per chi si stanca dopo poco, per chi lavora senza aiuto e per chi ha bisogno di ausili o supporti.
La nostra società ha bisogno del lavoro di tutti, anche se ancora non è chiaro a tutti e chi ancora non lo sa rischia di “disabilitare” le persone, chiudendo porte e credendo che ci siano luoghi dedicati, preparati ad accoglierli tali diversità.
E’ per questa ragione che, anche se non sono progetti inclusivi, le imprese Aut sono importanti: per poter parlare di lavoro, per poter dimostrare che si può fare, per insinuare anche solo il dubbio che siamo ancora impreparati a comprendere che la diversità non è una forma di debolezza, ma parte delle tante caratteristiche delle nostre società.

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Parole chiave

persone con disabilità lavoro linguaggio responsabilità sociale d'impresa