Bambini figli di immigrati: perché cittadini ‘europei’
1. L’immigrazione e la cittadinanza per gli immigrati costituiscono un problema europeo, che sfida l’intelligenza politica e le capacità di governance delle istituzioni dell’Unione Europea. In questa materia, che pertiene, onticamente, al campo dei diritti che ineriscono alla dignità della persona, alla eguale “dignità di tutti i membri della famiglia umana” (Dichiarazione universale dei diritti umani), si prospetta l’opportunità di far compiere un salto di qualità al modo di concepire la cittadinanza dell’UE e l’istituto della cittadinanza più in generale, facendo prevalere lo ius humanae dignitatis (diritto della dignità umana) su altri parametri, in particolare sul discriminatorio ius sanguinis (diritto del sangue).
La cittadinanza, oltre che uno specifico diritto fondamentale, è la certificazione formale dei diritti innati di ciascun essere umano, è l’attestazione anagrafica che la persona è ‘diritto umano sussistente’ (Antonio Rosmini). Paradigmatico è quanto proclama l’articolo 1 della Dichiarazione universale: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Quando un ordinamento giuridico riconosce i diritti umani, fa ingresso nella fase avanzata della civiltà del diritto che definiamo di pienezza del diritto (plenitudo iuris). A partire dalla Carta delle Nazioni Unite (1945) e dalla Dichiarazione universale (1948), anche l’ordinamento internazionale è entrato in questo stadio di maturazione umanocentrica dove la civiltà del diritto è spinta ad incontrarsi con la civiltà dell’amore.
La pienezza del diritto comporta, in punto di logica e in punto di diritto, la pienezza della cittadinanza (plenitudo civitatis). Con l’avvento del diritto internazionale dei diritti umani, l’istituto della cittadinanza è sollecitato ad articolarsi, e ad arricchirsi, per così dire al plurale: prende infatti visibilità primaziale la cittadinanza universale, che coincide con lo statuto giuridico di persona umana internazionalmente riconosciuto e si apre all’innesto in essa delle cittadinanze nazionali e sub-nazionali (regionali, comunali). Perché l’innesto sia vitale occorre che le tradizionali cittadinanze, concepite nell’ottica dell’esclusione, si trasformino per condividere la ratio egualitaria e inclusiva della cittadinanza universale.
Le travagliate vicende delle leggi sull’immigrazione attestano della resistenza che gli stati nazionali, detentori monopolistici dell’istituto della cittadinanza, oppongono alla sfida della cittadinanza universale.
La presente condizione umana segnata dall’interdipendenza planetaria e dai connessi processi di globalizzazione e multiculturalizzazione, ma anche dall’internazionalizzazione dei diritti umani e dalla diffusione della relativa cultura, esige che si proceda velocemente sulla via della cittadinanza plurale.
2. L’Unione Europea è un sistema di governance sopranazionale che si qualifica non soltanto come spazio giuridico - avuto riguardo all’estensione e alla portata delle sue norme, che in molte materie di vitale importanza obbligano direttamente i cittadini -, ma anche come territorio fruibile per l’esercizio dei diritti e libertà fondamentali, tra cui la libera circolazione delle persone, oltre che delle merci, dei servizi e dei capitali. Si fa notare che questo spazio è delimitato da una doppia cintura-confine: dell’unione doganale e delle regole di Schenghen.
La ‘cittadinanza dell’UE’, istituita col Trattato di Maastricht nel 1992, è cittadinanza derivata, nel senso che ne è prerequisito essenziale il possesso della cittadinanza nazionale di questo o quello stato membro. Cittadinanza primaria rimane pertanto quella nazionale, generalmente concepita con prevalente riferimento allo ius sanguinis.
La cittadinanza UE non si innesta dunque, direttamente, nella persona umana in quanto persona, condividendo con le cittadinanze nazionali la ratio dell’esclusione. Nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’UE, il cui soggetto naturale non può che essere la persona umana per così dire allo stato puro, senza discriminazioni né distinzioni di sorta, si notano contraddizioni: il riferimento è ora al soggetto ‘persona’ ora, quando si tratta appunto di cittadinanza in senso anagrafico-amministrativistico, al soggetto ‘cittadino’ degli stati membri.
Gli immigrati, che sbarchino a Lampedusa o in Spagna o in Grecia, entrano nello spazio europeo.
Lo status dei bambini figli di genitori immigrati non-cittadini di questo o quello stato membro UE, che pur nascono e crescono nello spazio territoriale europeo, costituisce una sorta di limbo della cittadinanza.
In questa situazione, che è insostenibile de iure e de facto, occorre fare evolvere rapidamente la cittadinanza UE secondo coerenza logica e giuridica, cioè nel rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, internazionalmente riconosciuti, promuovendola, dal rango subalterno di cittadinanza derivata, a quello di cittadinanza primaria - piena e inclusiva -, come dire da una condizione patologica alla corretta fisiologia democratica della cittadinanza, segnata, giova ribadire, dalla ratio dell’inclusione: ad omnes includendos.
Questa operazione comporta evidentemente che si capovolga la ratio che attualmente informa la cittadinanza UE. Il radicamento nei diritti fondamentali della persona comporta che il parametro di riferimento sia quello dello ius soli ‘europeo’. Questo impianto fondativo dà come risultato che gli immigrati sono primariamente cittadini europei e, in quanto tali, automaticamente cittadini dello stato membro di residenza.
3. Il primo passo per questa rivoluzione copernicana (o mutazione genetica) dell’istituto della cittadinanza, che comporta il ripudio di parametri discriminatori come lo ius sanguinis e lo stesso ius soli nazionalisticamente inteso dovrebbe compiersi - opportunamente, doverosamente - pensando innanzitutto ai bambini figli degli immigrati nel rispetto del migliore e superiore interesse di tutti i bambini: è il caso di sottolineare che appunto ‘the best interest of children’ è un principio sancito nell’articolo 3 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
I bambini degli immigrati dunque quali apri-pista e pionieri di cittadinanza primaria UE in uno schema di cittadinanza plurale.
Chiaramente, questa è un’operazione di cruciale rilievo politico, che comporta che l’Unione Europea si doti non soltanto di una normativa straordinaria specificamente portante sulla cittadinanza dei figli degli immigrati, ma anche di una normativa generale organica in materia, che renda omogeneo il regime di cittadinanza in tutti gli stati membri. Cominciando dalla prima, si potrebbe puntare sull’effetto di spill-over che l’iniziativa sprigionerebbe per successivi più ampi e organici sviluppi.
Gli stati che, quale più quale meno, si dibattono in una palude di normative che, oltre che differire fra loro, sono in gran parte discriminatorie e offensive della dignità umana, dovrebbero gioire della prospettiva ‘europea’ sopra indicata: da un lato verrebbero sollevati da compiti politico-amministrativi che alimentano la conflittualità sociale e la insicurezza al loro interno, dall’altro contribuirebbero ad accelerare l’unificazione politica dell’Europa a beneficio della coesione sociale e territoriale nell’intero spazio europeo.
La gratitudine degli immigrati si tradurrebbe in termini di lealtà e identificazione diretta nei confronti dei simboli e delle istituzioni dell’Unione, rafforzandone la legittimità sostanziale. Il mito dell’esistenza di un ‘popolo europeo’ cesserebbe di essere tale in virtù dell’avverarsi di un nucleo di popolo autenticamente europeo, costituito in primis dai bambini figli di immigrati- uniti nella diversità -, il quale agirebbe da catalizzatore di aggiornata identità europea a beneficio di tutti.
La forte lezione di umanità e solidarietà che ne discenderebbe per tutti, è di chiara evidenza.
Evangelicamente parlando, in virtù di questa operazione di promozione umana frutto, come prima accennato, dell’incontro della civiltà del diritto con la civiltà dell’amore, i più vulnerabili e gli ultimi diventano i primi sulla via del bene comune europeo: nel nome dei bambini, come nel nome della legge, si avvierebbe la purificazione della cittadinanza dalle scorie dello ius sanguinis e si incentiverebbe la messa in pratica dell’eguaglianza e della solidarietà.
4. Concretamente, si può ipotizzare che nel corrente Anno dell’Europa dei Cittadini siano i Comuni a farsi promotori dell’operazione di riscatto della cittadinanza dalla palude delle discriminazioni. Essi potrebbero deliberare, richiamando formalmente il ‘superiore e migliore interesse dei bambini’ ai sensi del citato articolo 3 della Convenzione internazionale del 1989 e il principio di sussidiarietà, di consegnare ai bambini figli di immigrati e, attorno a loro, a tutti gli altri bambini dei rispettivi territori, un attestato di cittadinanza plurale (europea, nazionale, comunale), insieme con la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, la Costituzione nazionale, lo Statuto comunale. Penso in particolare ai Comuni di Regioni che sono parte di ‘Gruppi europei di cooperazione territoriale’, Gect, per esempio della “Euregio senza confini” (Veneto, Carinzia, Friuli Venezia Giulia).
Quali entità territoriali transnazionali, formate principalmente da enti di governo locale di due o più stati e dotate di personalità giuridica secondo quanto dispone il pertinente Regolamento UE del 2006, i Gect si configurano come ‘nuclei territoriali europei’ nello spazio dell’UE, legittimati in quanto tali a dare visibilità ad uno specifico ius soli ‘europeo’: i Gect che, come i Comuni, sono autenticamente ‘territorio’ ma non ‘confine’.
Antonio Papisca, Cattedra Unesco Diritti umani, democrazia e pace, Università di Padova