Nazioni Unite / ONU

Dall’ONU delle potenze all’ONU delle Nazioni. Dialogo con Antonio Papisca, 14 marzo 1991

Pubblicato in E. Balducci “Le tribù della terra”, San Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1991
Logo Centro di Ateneo per i Diritti Umani "Antonio Papisca", Università di Padova

Giancarlo Zizola

Il tema di questa interlocuzione, «dall’ONU delle Potenze all’ONU delle Nazioni », postula già un dato e una prospettiva. Il dato è la perdita di autorità e di prestigio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ma anche la violazione suicida della loro Carta statutaria nella guerra del Golfo. La prospettiva è una evoluzione possibile dell’ONU verso una struttura politica e giuridica più idonea al rango di soggetto politico mondiale, ormai necessario per governare sistemi di interdipendenza e accumulazioni di potere sovranazionali che tendono a ritagliare un ‘nuovo ordine mondiale’ sulla falsariga di interessi dominanti, e non sugli interessi della famiglia umana presente e futura.

Il dato di partenza sembra riunire l’accordo degli analisti imparziali della scena internazionale: «Le Monde diplomatique» di marzo non esita ad affermare che nel Golfo l’ONU ha tradito la sua missione, poiché la sua Carta dice che essa è quella di «proteggere le generazioni future dal flagello della guerra». In effetti, dall’inizio delle ostilità, l’Organizzazione internazionale è stata deliberatamente tenuta al margine dell’evoluzione diplomatica del conflitto. Questa crisi segna senza dubbio l’agonia delle Nazioni Unite, almeno nella loro struttura attuale.

Nulla è stato fatto per impedire che l’ONU fosse utilizzata dagli USA per ottenere un sostegno al loro approccio militarista e unilaterale della crisi, al punto che alcuni riconoscono che essa è stata ridotta ad utensile della politica estera americana.

Si può comprendere meglio, in questa situazione, l’importanza del ruolo suppletivo assunto dalla Chiesa romana a difesa principalmente dei principi di una morale e di un diritto internazionale quali furono codificati dalla comunità internazionale alla fine della seconda guerra mondiale. Né sarebbe possibile tacere delle preoccupazioni manifestate da tedeschi e giapponesi che reclamano una modificazione del Consiglio di Sicurezza, sostenuti dall’Italia e appoggiati da alcuni giganti demografici del Sud (India, Pakistan, Indonesia, Nigeria, Brasile) che, non meno che l’Unione Sovietica e la Cina, temono sempre più il «nuovo ordine mondiale» perorato da George Bush.

La crisi del Golfo sembrava costituire l’occasione perfetta per ricavare il massimo dei vantaggi dall’evoluzione positiva determinata dall’aperto sostegno di Gorbaciov allo sviluppo dell’autorità delle Nazioni Unite per un approccio globale alle questioni della pace nella giustizia. Tutti ci chiediamo: perché questo fallimento? Da che cosa deriva? C’è un vizio strutturale nelle Nazioni Unite? Quali sono le possibilità per una rifondazione delle Nazioni Unite in modo che divengano credibilmente e autorevolmente quel soggetto politico mondiale di cui andiamo parlando da diverso tempo? La domanda, anzi le domande sono per lei, prof. Papisca.

 

Antonio Papisca

Io ritengo che l’Organizzazione delle Nazioni Unite sia un soggetto ad alto rischio, alla luce delle vicende di questi mesi, che ha però anche delle ricche potenzialità. È opportuno analizzare il rischio e allo stesso tempo andare alla ricerca di queste potenzialità intrinseche per svilupparle nella direzione che riteniamo più idonea a strutturare un ordine di pace giusta nel mondo.

Le Nazioni Unite nascono con un vizio: quello del verticismo. Il massimo di capacità deliberativa dell’ONU risiede infatti nell’organo meno rappresentativo e meno egualitario. La capacità di deliberare, anche l’uso del militare, per fini che – giova subito precisarlo –non possono mai essere di guerra, è del Consiglio di Sicurezza. L’ONU è stata concepita durante lo svolgimento della seconda guerra mondiale, quando le cinque grandi potenze coalizzate contro l’Asse pensavano ad un nuovo ordine mondiale più giusto. Queste cinque potenze (sarebbe più corretto dire quattro più una, la quinta essendo la Francia) si sono preoccupate per tempo di ritagliarsi, all’interno dell’organismo che avrebbe pilotato il nuovo ordine mondiale, un posto privilegiato. Ecco allora, all’interno del Consiglio di Sicurezza, i cinque seggi permanenti e dotati, per di più, del potere di veto, del potere cioè di arrestare, anzi paralizzare, il processo decisionale dell’intera organizzazione se per caso un certo progetto di risoluzione contrastasse con gli interessi di uno dei cinque. In campo economico l’ordine internazionale così concepito dalle cinque grandi potenze si ispirava a due principi essenziali: il principio della libertà degli scambi (e quindi del rispetto delle leggi dell’economia di mercato) ed il principio dell’interventismo internazionale moderato.

Quindi, ampi processi di liberalizzazione per scambi commerciali e transazioni finanziarie nel mondo, ma organismi internazionali dotati di una autorità flebile e di risorse limitate per la programmazione e la gestione di politiche mondiali nel campo dell’economia e nel campo del sociale. Però, ecco l’eccezione macroscopica, all’interno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è previsto un potere di intervento massimo per quanto concerne le questioni della sicurezza. Questo potere, che può fare uso anche del militare, è riservato al Consiglio di Sicurezza. Le Nazioni Unite nascono con questo peccato originale di verticismo, però fin dall’origine si trovano a dover far fronte a circostanze esterne che impediscono loro di funzionare avvalendosi di questo vizio-privilegio d’origine. La più importante, tra le circostanze impedienti, è stata la contrapposizione Est-Ovest e quindi la strutturazione di un sistema bipolare nel mondo. Questa circostanza ha paralizzato il direttorio dei cinque dentro l’ONU. Un’altra circostanza esterna è stata il processo di decolonizzazione politica, con l’ingresso all’ONU di tanti nuovi Stati che ne hanno triplicato la «membership»: dai 50 Stati membri originari ai 160 di oggi, creando all’interno dell’organizzazione una maggioranza automatica terzomondista, alla quale gli Stati Uniti e i paesi occidentali si sono subito contrapposti.

Il ribaltamento della maggioranza – da occidentalista a terzomondista – ha fatto invalere la procedura di voto cosiddetta del ‘consensus’, cioè della presa di decisioni in base alla semplice constatazione dell’assenza di voti contrari, ciò che significa, di fatto, disimpegno da qualsiasi obbligo.

Il bilancio del funzionamento dell’ONU non è tuttavia fallimentare al cento per cento. Nonostante le difficoltà interne ed esterne, l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha reso possibile lo sviluppo della cultura della cooperazione multilaterale su scala planetaria. Certamente, l’ONU ha legittimato l’associazionismo internazionale. 832 associazioni internazionali che operano a fini non di profitto, le cosiddette organizzazioni internazionali nongovernative (OING), beneficiano dello status consultivo presso il Consiglio economico e sociale dell’ONU: da Amnesty International a Soroptimist, da Pax Christi International alla Internazionale Socialista. Queste OING hanno una specie di lasciapassare per assistere alle riunioni di taluni organi delle Nazioni Unite e per poter anche fare interventi, scritti e orali, sempre a titolo consultivo.

L’ONU, dunque, levatrice di nuova soggettualità internazionale. La parte obiettivamente più rilevante di attività delle Nazioni Unite è la codificazione dei diritti umani. L’ONU ha generato il diritto internazionale dei diritti umani. La Dichiarazione universale del 1948 – raccomandazione solenne dell’Assemblea Generale – è la capofila di tutta una serie di fonti giuridiche di diritto internazionale che riconoscono i diritti innati delle persone. Siamo di fronte a un processo storico di eccezionale importanza.

Nel 1976 sono entrate in vigore, su scala planetaria, le due grandi convenzioni internazionali, rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali. Qual è il significato del riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani? È che anche nei rapporti fra Stati, e non soltanto all’interno dei singoli Stati, è posto il principio del rispetto della dignità d’ogni persona umana. Significa che anche nei rapporti fra Stati ciascun essere umano ha diritti che, per il fatto di essere innati, preesistono sia alla legge interna sia alla stessa legge internazionale. Significa quindi che le persone umane vengono prima del singolo Stato e del sistema degli Stati. Questo nuovo diritto internazionale dei diritti umani è lo ‘jus cogens’ all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale vigente, una sorta di «supercostituzione» mondiale. Le vecchie norme consuetudinarie di diritto internazionale, quelle che declinano il principio di sovranità degli Stati, hanno, in punto di diritto, rango subordinato rispetto alle nuove norme che riconoscono i diritti innati delle persone.

Purtroppo questo «diritto dell’umanità» manca di effettività, non ha ancora impregnato di sé le relazioni internazionali. Durante la vicenda del Golfo non è stato evocato da nessun grande leader politico mondiale, ad eccezione del Papa che vi ha fatto martellante riferimento. Il fatto che i grandi della terra si comportino come se questo nuovo diritto non esistesse non significa tuttavia che oggi sia come ieri, che cioè ancora possa valere impunemente la legge del più forte.

Zizola

A questo punto vorrei chiedere – è una domanda che ci poniamo tutti – come mai è stato possibile usare, in questa situazione giuridica già fondata e già riconosciuta, lo Statuto delle Nazioni Unite per giustificare questa guerra.

Papisca

È stato possibile, dal mio punto di vista, perché questa cultura dei diritti umani internazionalmente riconosciuti non è ancora diventata patrimonio della società civile internazionale, non è ancora calata dentro i templi della scienza e del «docere», dentro le università. Si tratta, chiaramente, di una codificazione giuridica piuttosto recente – ho fatto prima riferimento all’anno 1976 per l’entrata in vigore dei due grandi Patti internazionali – e i Governi possono tuttora agire – peraltro illecitamente –speculando sulla non conoscenza di queste fonti giuridiche da parte della gente. Va ricordato opportune et inopportune che l’attuale diritto internazionale non è più quello della legge del più forte, quello del richiamo della foresta per entità superiorem non recognoscentes ... Tutta la vicenda relativa alla guerra del Golfo, dal punto di vista giuridico, è una enorme mistificazione. La Carta dell’ONU, che è una delle fonti giuridiche del nuovo diritto internazionale, non legittima la guerra, anzi espressamente la proscrive.

La Carta dell’ONU stabilisce che in presenza di comportamenti che significhino rottura della pace o minaccia alla pace si possa arrivare fino alla adozione di misure di polizia internazionale, cioè di misure coercitive con l’uso del militare esemplificate dall’art. 42 della Carta come blocchi e dimostrazioni. Le misure di polizia non possono evidentemente essere bombardamenti e distruzioni.

Per queste misure la Carta fa obbligo al Consiglio di Sicurezza di deciderle e di gestirle in prima persona, sotto sua diretta responsabilità, sotto suo diretto comando. Il Consiglio di Sicurezza non può delegare l’uso del militare per azioni di polizia, le sole misure coercitive consentite dalla Carta, agli Stati.

Zizola

Ci sono dunque delle sfide a cui le Nazioni Unite sono riuscite a rispondere; le sfide, in particolare, dei diritti umani. Ma quali sono le nuove o antiche sfide a cui non è riuscita ancora a rispondere e a cui dovrà rispondere se vuole essere all’altezza dell’età planetaria?

Papisca

Ne indicherò le principali. C’è innanzitutto la sfida dello sviluppo. L’ONU ha scoperchiato la pentola del sottosviluppo e ha fatto emergere l’attenzione sul problema. Ricordo che l’ONU ha adottato, nel 1974, la Dichiarazione per l’allestimento di un Nuovo ordine economico internazionale (NOEI), a cui si sono però vivacemente opposti i paesi occidentali. Il NOEI è un ordine tutto da costruire. C’è la sfida del disarmo. Dopo la guerra del Golfo, ci sarà la corsa forsennata al riarmo. C’è la sfida della dissipazione delle risorse del creato. C’è la sfida dei nazionalismi che nel mondo, un po’ dovunque, stanno insorgendo. E ci sono le sfide dei grandi processi di trasformazione planetaria in atto – processi positivi – che stanno andando avanti malgrado tutto. Sono la sfida dell’interdipendenza planetaria e quella della transnazionalizzazione delle relazioni internazionali (per cui le comunità umane dentro gli Stati comunicano e cooperano direttamente al di là delle frontiere, creando anche organizzazioni di tipo nongovernativo). E c’è la sfida dell’internazionalizzazione dei diritti umani, su cui mi sono prima soffermato e che innesca a sua volta tutta una serie di processi di trasformazione che spingono verso l’unificazione del mondo.

Zizola

C’è una situazione che apparentemente è squilibrata nel senso di un sistema mondiale di dominio che fa capo ad un’unica potenza: si chiama equilibrio – io lo chiamerei squilibrio – unipolare. Come una nuova organizzazione delle Nazioni Unite potrebbe arrivare a controllare, effettivamente, questo strapotere strutturale della potenza egemone?

Papisca

È questa la sfida della democrazia per l’ONU. Bisogna cominciare a cancellare il peccato d’origine, cioè il verticismo degli Stati, che non è più un verticismo pentapolare ma un verticismo dichiaratamente unipolare. Cosa fare? Come fare? lo non credo che sia possibile cancellare questo vizio d’origine affidandosi alla buona volontà degli Stati, dei 160 Stati membri dell’ONU. Io credo che l’unica possibilità di cancellare tale vizio e far funzionare l’ONU secondo gli obiettivi della Carta risieda nella democratizzazione dei suoi organi e dei suoi processi decisionali, cioè nell’iniezione di democrazia al suo interno. Ma cosa significa democrazia internazionale? Gli Stati intendono per democrazia internazionale la parità di voto: ogni paese un voto. Questa è sovrana uguaglianza degli Stati applicata alle votazioni. La democrazia internazionale in senso proprio è un’altra cosa. Significa partecipazione politica popolare, nelle forme appropriate, ai processi decisionali che avvengono dentro l’ONU. Come iniettare questa partecipazione politica popolare dentro l’ONU? I miei soggetti di riferimento sono le centinaia di organizzazioni internazionali nongovernative che hanno il lasciapassare dello status consultivo dentro l’ONU. Bisogna che queste organizzazioni – che stanno diventando sempre più consapevoli del loro ruolo politico – passino da uno status di mera consultazione ad un più impegnativo status di co-decisionalità. Perché questo salto di qualità avvenga occorre che le OING abbiano il supporto convinto dell’associazionismo che opera a fini di promozione umana nella maggior parte dei paesi del mondo.

Accenno molto velocemente a due o tre proposte concrete per democratizzare l’ONU. Innanzitutto, la creazione di una seconda Assemblea Generale accanto all’attuale Assemblea, che è formata dagli Stati. La seconda Assemblea Generale dovrebbe essere formata dai rappresentanti delle 832 organizzazioni nongovernative in quanto espressione genuina di società civile internazionale.

Nell’attuale Assemblea Generale sono rappresentati e si confrontano gli interessi nazionali, nella seconda Assemblea Generale (che costituirebbe una vera e propria «camera bassa») gli interessi popolari internazionali. Altra proposta: per tutti gli organi delle Nazioni Unite che sono composti da rappresentanti di Stati dare una composizione tripartita alle delegazioni nazionali. Questo significa che all’attuale Assemblea Generale – tanto per prendere l’organo più rappresentativo delle Nazioni Unite – l’ltalia deve essere rappresentata per una parte dal governo, per una parte dal parlamento e per una parte dall’associazionismo nongovernativo. Segnalo che le delegazioni nazionali alla Conferenza generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) hanno già questo tipo di composizione. Molto importante è la valorizzazione degli organismi che all’interno dell’ONU sono preposti all’attuazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani. Sono organi piuttosto eccentrici o devianti rispetto alla dominante logica intergovernativa, interstatuale dell’ONU. Si tratta di comitati formati da individui che sono designati dagli Stati intuitu personae e che quindi sono tenuti ad agire imparzialmente nel controllare il comportamento degli Stati in materia di diritti umani. Segnalo in particolare i due Comitati rispettivamente per i diritti civili e politici e per i diritti economici, sociali e culturali. Sono organismi sconosciuti ai più che però esistono, sono organi ufficiali e operano per sviluppare, in ottica planetaria e con autorità veramente legittima, il codice internazionale dei diritti umani. La società civile, i movimenti pacifisti, le associazioni devono ‘adottare’ questi organismi delle Nazioni Unite che più sono vicini alla gente e ne capiscono i valori e i bisogni essenziali.

Zizola

Grazie prof. Papisca. La parola a padre Balducci.

Balducci

lo non mi vestirò dei panni da giurista perché mi starebbero troppo larghi o troppo stretti; tuttavia credo di aver qualche titolo, recentemente acquisito, per poter entrare nell’argomento di questa sera, perché ho vissuto questi sette mesi di conflitto con coinvolgimento morale acuto come poche altre volte nella mia vita. Mi è anche avvenuto, forse per eccesso di partecipazione pubblica (ma in certi casi alla passione non si può resistere, e questa è, lo ammetterete, una nobile passione) di salutare, forse con un eccesso di ingenuità, della quale non mi pento, l’efficienza dell’ONU, che si è rivelata nella prima Risoluzione, presa all’unanimità, che aveva stabilito i provvedimenti da prendere contro il crimine internazionale commesso dall’Iraq. Avevo scritto un articolo su «L’Unità» (28 agosto 1990) con il titolo, che ebbe fortuna, Il primo vagito della comunità mondiale. lo non mi intendo di culle, ma quella volta mi sembrò

di intendere un vagito. Siccome uno dei miei sogni – credo anche vostro – è quello di un governo mondiale che sostituisca l’anarchia degli Stati, il fatto che finalmente l’umanità, attraverso un organo supremo come le Nazioni Unite, avesse pronunciato un suo giudizio e preso un suo impegno mi sembrò un vagito. Poi, dopo qualche mese, ho parlato di rantolo, perché, di fatto, il vagito si è trasformato in rantolo. Aver visto, nell’arco di quei pochi mesi, il trapasso dal fremito aurorale della nascita al crepuscolo malinconico del declino non è cosa da poco. Ripeto: non si tratta di un evento da poter guardare dal di fuori come può fare uno scienziato che segue un esperimento. In realtà in questo declino erano travolte molte speranze maturate, in questo dopoguerra, in me e in tutti noi.

Ho visto crollare l’affermazione – che per me è un punto forte della nuova storia che abbiamo cominciato a vivere – del ripudio della guerra come strumento non più legittimabile della ragione umana. Su questo c’era, lo ritenevo, un universale consenso. Pensavo che in nessun ambito di responsabilità politica suprema nemmeno la parola guerra sarebbe stata pronunciata. Invece ne abbiamo avuto una inflazione! Pensavo che ci sarebbe stata una reazione della cultura, che ritenevo, al di là delle appartenenze ideologiche, al livello delle conquiste giuridiche realizzate dall’umanità a partire dalla Carta Atlantica in poi. Anche qui sono rimasto deluso. Anzi ho notato uno scarto gravissimo, che ha superato ogni previsione, tra la voce della cultura e i livelli delle conquiste giuridiche su cui batte l’utopia finalmente entrata negli spessori concreti della vita effettuale. Un tema che mi è sempre stato caro era questo: con le Nazioni Unite abbiamo avuto il trapasso dall’utopia al realismo. Calcando la parola a segno provocatorio, amavo dire che l’unico realismo è l’utopia, un’affermazione che si ritrova anche nei documenti più solenni, non molto inclini a queste indulgenze stilistiche. Penso alla Populorum progressio in cui si parla, del realismo dell’utopia, alla Pacem in terris che dichiara che la guerra ormai è fuori dalla ragione umana. Mi muovevo su questo altopiano della storia, convinto di posare i piedi in terra.

Ma ecco che in questi mesi è venuto a galla uno smarrimento che o ha sollevato, negli uomini più attenti e più credibili, perplessità e angosce che ritenevo fuori luogo (sul ripudio della guerra angosce non ne ammetto) oppure addirittura un ritorno al linguaggio di stampo nazionalistico, militaristico, molto datato, prebellico, anzi preatlantico come mi piace dire, cioè anteriore alla Carta Atlantica nella quale, per la prima volta, è apparsa l’affermazione che l’uso della forza per risolvere le controversie deve essere bandito per ragioni non solo spirituali ma pratiche, cioè realistiche.

Il divario fra le acquisizioni della coscienza giuridica mondiale e il linguaggio degli uomini di cultura riguardo al conflitto è lo scandalo che non sono riuscito a superare. Inutilmente molti di noi hanno cercato di contrapporsi ad una cultura che recuperava le vecchie argomentazioni, l’esaltazione dei vecchi metodi, che riproponeva all’immaginario collettivo i simboli che hanno entusiasmato la nostra infanzia.

Siamo arrivati – lo dico con rispetto per le persone – in mancanza di eroi in questa «grandiosa» partecipazione all’impresa del Golfo, a celebrare due prigionieri ritornati – CoccioIone e Bellini con un linguaggio veramente arcaico, da libro Cuore. Tutto questo, lo ripeto, non in qualche televisione o qualche radio periferica di qualche sottogruppo sociale ma ai livelli alti degli apparati informativi del nostro paese. Ecco perché mi avviene di insistere su quello che ritengo essere il concetto importante per definire il travaglio morale di cui vi ho parlato fino ad ora. Qual è questo concetto?

Esiste un pacifismo nella tradizione umana che si prolunga nel passato fino alle origini della storia letteraria. Esiste poi un pacifismo d’alto livello nel tempo moderno. Faccio i nomi di alcuni maestri: Tolstoj, Gandhi, Einstein. Maestri che non possono essere sospettati di appartenenza a qualche setta cristiana fondamentalista. Si tratta di uomini che hanno avuto sempre grande accoglienza nella cultura laica. Questo pacifismo è un pacifismo che porta su di sé un sospetto legittimo. Si tratta di un ripudio dello strumento della guerra dovuto ad un sentimento di ripugnanza per la violenza come tale che si pone come categorico, si pone senza nemmeno la fatica della dimostrazione. Fra la violenza dell’uomo contro l’uomo e l’obbedienza alla coscienza c’è una contraddizione strutturale. lo sento molto questo pacifismo non solo perché lo attingo continuamente dalle parole del ‘Discorso della Montagna’ ma perché una riflessione antropologica alimentata dai riferimenti più diversi nella mappa della storia culturale del mondo umano mi fa convinto che il rispondere alla violenza con la violenza, nonostante che in certi casi soddisfi l’esigenza della giustizia, urta profondamente con gli imperativi profetici della coscienza morale umana. Questa però è una posizione che non è politicamente spendibile, non può inserirsi nel dibattito politico dove vale il realismo.

Dobbiamo allora sottolineare l’importanza di questo fatto: il pacifismo è diventato con la Carta delle Nazioni Unite un principio giuridico oggettivo, pienamente legittimo, che delegittima tutti gli altri. Se si dichiara che gli Stati che entrano a far parte dell’ONU devono risolvere – questo è detto all’art.2 – le loro controversie con mezzi pacifici vuol dire che non devono risolverle con mezzi bellici. Mi pare chiaro. Non è il pacifismo discutibile, viziato da soggettivismo, è una norma pacifista stabilita dagli ordinamenti giuridici e recepita dalla Costituzione Italiana e dagli altri atti internazionali che sono nati, con ricca proliferazione, sull’onda della Dichiarazione universale dei diritti umani. Esiste dunque un pacifismo istituzionale. Il comportamento che invece si è verificato nell’ambito del mondo occidentale – ma la deviazione non è stata solo nell’Occidente – è in diretta contraddizione con questa norma e l’ONU, nei suoi massimi organi, ha tollerato questa scoperta, conclamata violazione della Carta delle Nazioni Unite. Questo è il dato di fatto sgomentante. Nella replica tenterò di dire come a mio giudizio dovremo agire per restituire all’ONU l’efficacia che è contenuta nella sua norma costitutiva. Rimanendo nell’ottica antropologica e storica, che è più specificatamente mia, volevo sottolineare che esistono, e anche – come ha spiegato Papisca – per merito della fecondazione che nonostante tutto le Nazioni Unite hanno realizzato nella coscienza planetaria, le condizioni storiche per un salto di qualità che potrei – utilizzando il linguaggio specifico della filosofia delle istituzioni – definire come un patto sociale planetario. Secondo la filosofia delle istituzioni lo Stato è nato proprio per liberare gli uomini dalla tendenza insopprimibile a realizzare la vendetta privata, la difesa violenta di sé nella minaccia che viene dagli altri, delegando l’uso della violenza all’autorità pubblica. Lo Stato è nato come monopolio pubblico della violenza. Da quel momento si considera delinquente ogni privato che si fa giustizia da sé.

Lo stato di natura – quello del bellum omnium contra omnes è rimasto legittimo nei rapporti fra gli Stati. Gli Stati si rapportano fra loro secondo la logica della forza. Prima dell’ONU non esisteva una istanza superiore. L’ONU è ambivalente – da qui il suo carattere ‘mostruoso’ – in quanto vi convivono due forme che appartengono a date diverse. La forma arcaica è quella della potenza che, in quanto potenza, ha capacità decisionale. Come è avvenuto. Il Consiglio di Sicurezza è la sopravvivenza della vecchia logica della volontà di potenza come norma risolutiva dei conflitti. Il congresso di Westfalia stabilì che lo Stato non ha una autorità superiore, è libero da ogni altra legge fuori della propria. Questo è stato il limite riconosciuto come non superabile, fino alle Nazioni Unite. Con le Nazioni Unite questa condizione dello Stato come ultima istanza è stata superata nel riconoscimento di una istanza superiore. Ma il Consiglio di Sicurezza preserva, proprio là dove c’è l’ultima istanza decisionale, la vecchia logica di potenza. Tuttavia è avvenuto un superamento della condizione anarchica degli Stati. Nella coscienza dell’umanità ha cominciato ad emergere un soggetto unitario del diritto internazionale che è l’umanità in quanto tale. Mentre questa parola pronunciata dalla cultura positivistica dell’800 aveva un suono romantico, oggi questo termine si fa ricco di densità concrete perché di fatto questa umanità non è un postulato del cuore, è un soggetto che in qualche modo si fa vivo rompendo, intanto, l’involucro della sovranità statale. Lo Stato non ha tale sovranità da impedire ai popoli esterni a sé di intromettersi nei fatti suoi. Il principio di non ingerenza, che era un principio importante nella vecchia logica dei rapporti interstatali, è stato superato di fatto perché ogni cittadino ha diritto ad intromettersi, nel rispetto dei diritti umani, in qualunque altro Stato del mondo. Questo è un fatto importante perché abolisce anche le paratie che un tempo separavano popolo da popolo, per cui oggi è assurdo parlare di un popolo nemico. Il popolo iracheno non è un popolo nemico perché c’è una interconnessione all’interno di una soggettività unitaria che è l’umanità come tale. Questo, secondo me, è un fatto che va fatto lievitare perché è la via per superare l’impasse in cui si trovano oggi le Nazioni Unite. Occorre dare concretezza, forme espressive e di identificazione a questo soggetto che è l’umanità perché solo allora il discorso sul diritto internazionale perde quel suo contenuto ideologico che lo ha reso perverso nell’attuale congiuntura. Scusatemi, non so frenarmi dal dirlo. Mentre, come diceva Kant ai suoi tempi, la parola ‘diritto’ suscita in tutte le coscienze, anche in quella del principe più farabutto, un atto di ossequio perché anche lui dice di agire perché ha diritto, per l’altro verso questa parola si presta a coprire le sopraffazioni più spaventose.

Qui mi devo fermare. Ma se me lo ricorderò, nella replica vorrò riaffermare questo concetto perché di fronte al diritto internazionale mi trovo in questa ambivalenza che sta al centro del travaglio morale di cui ho parlato prima. Da una parte io sento che noi perderemmo la dignità umana nella sua radice se non difendessimo il diritto internazionale, vero punto d’appoggio della comunità mondiale che auspichiamo; dall’altra parte, nell’ordine dei fatti, il diritto internazionale è diventato copertura di sopraffazione per cui lo detesto. In questa contraddizione si esprime il travaglio di cui vi parlavo.

Zizola

Questa depistazione che prorompe come una tentazione dalla coscienza di padre Balducci è condivisibile? È fondata? Una delle categorie fondamentali che Papisca ama è quella del pacifismo come nuova forma di legittimismo. Ripartiamo da qui per il suo ultimo intervento.

Papisca

lo sono convinto che il pacifismo ha dalla sua, oggi, anche la forza della legge internazionale scritta – lo jus positum internazionale dei diritti umani – e quindi il pacifismo è un movimento legittimista. Esso è stato così ferocemente attaccato perché propugna il primato della norma giuridica internazionale sul comportamento degli Stati. Mi sia consentito di specificare ulteriormente l’affermazione che ha fatto padre Balducci. Il diritto internazionale vigente è un diritto complesso, anzi ambiguo, dentro il quale si trovano a convivere – si fa per dire – le vecchie norme della legge del più forte – le norme funzionali alla sovranità dello Stato – e le nuove norme che riconoscono i diritti innati delle persone. Il diritto internazionale dei diritti umani è quello che deve crescere all’interno della cultura civica, anzi nella coscienza della gente. Questo nuovo diritto panumano ha innescato un processo di rigenerazione dell’ordinamento giuridico internazionale introducendovi principi genuinamente «umani», primo fra tutti quello secondo cui humana dignitas servanda est, la dignità della persona umana deve essere rispettata. Questo è il principio fondativo del vigente diritto internazionale di cui però gli Stati si sono dimenticati in occasione della guerra del Golfo, come se il vecchio diritto delle sovranità fosse tuttora l’unico a esistere. lo continuerò ancora per mesi e per anni a rinfacciare alle élites politiche che hanno operato in questi mesi, la dimenticanza colpevole del diritto internazionale dei diritti umani. Ricordo ancora che tra i nuovi principi giuridici del sistema internazionale vi sono quelli dell’autodeterminazione dei popoli, del divieto della guerra, di solidarietà. E c’è anche, espressamente sancito nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, il principio di democrazia, da far valere dentro gli Stati e nei rapporti fra Stati. E dentro l’ONU, naturalmente.

Zizola

Mi piacerebbe sapere dal prof. Papisca – credo di interpretare anche un vostro desiderio – un parere circa la governabilità, da parte di una organizzazione delle Nazioni Unite di forma evoluta, del diritto delle migrazioni che sta mettendo a subbuglio gli ordinamenti dati, costituiti dell’ordine, almeno in Europa. In particolare pensiamo alle migrazioni dall’Albania, alle migrazioni in corso nell’Est europeo, alla spinta migratoria dal Sud del mondo verso il Nord del benessere affluente, migrazioni evidentemente con cause strutturali. Desidero sapere dal prof. Papisca se le Nazioni Unite possono, in qualche modo, avere la capacità fin d’ora di governare questo fenomeno in modo che non sia soggetto alle politiche nazionalistiche degli Stati, troppo spesso giustificate da forme di privilegio e della sua difesa.

Papisca

Questo è un problema veramente cruciale che, se avessi tempo affronterei guardando, da un lato, al codice universale dei diritti umani (per cui il ‘migrante’ è persona umana tutelata dal diritto internazionale e quindi ha il diritto innato di spostarsi per cercare cibo e lavoro dove c’è); dall’altro, alla necessità di programmare e gestire con efficacia politiche internazionali sociali ed economiche per la redistribuzione delle ricchezze su scala planetaria. Per fare questo ci vuole, chiaramente, una più avanzata maturazione della cultura della solidarietà all’interno delle società opulente dell’Occidente e del Nord industrializzato e senza perdere tempo, occorre dotare gli organi dell’ONU di adeguati poteri. Ma perché l’ONU possa «governare», democraticamente beninteso, occorre che al suo interno si attivino le forze che vogliono questo “potere in più” in funzione di giustizia sociale. Queste forze, lo ribadisco, non sono gli Stati e i loro governi, ma gli organismi nongovernativi e i movimenti transnazionali di promozione umana, che considero come le epifanie organizzate della famiglia umana universale.

Zizola

Padre Balducci, rilancio la domanda che lei stesso si era posto. Come agire per restituire efficacia alle Nazioni Unite?

Balducci

La restituzione dell’efficacia alle Nazioni Unite si identifica nella costruzione di un sistema che renda le Nazioni Unite veramente rappresentative della volontà generale dell’umanità perché dobbiamo applicare allo schermo vasto dell’umanità gli stessi concetti con cui è nato lo stato di diritto. Noi sappiamo che l’autorità dello Stato nasce da una investitura da parte della volontà generale, per usare il termine di Rousseau. Ebbene, c’è una volontà generale del genere umano che deve essere il più possibile rappresentata dalle Nazioni Unite. È qui che ci incontriamo con quel nodo che sembra insolubile. Da una parte, come nel parlamento dello stato di diritto, la vera sorgente del potere dovrebbe essere l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di cui il Consiglio di Sicurezza dovrebbe essere l’organo esecutivo. Ma, appena dico questo, è difficile trattenere il riso, perché pensare che i cinque grandi possano davvero assecondare la decisione presa da una assemblea in cui la maggioranza degli Stati è del Terzo Mondo, significa pensare l’inimmaginabile. Ecco perché il cammino è lungo. Ma è bene dirci questo perché si avverta il vizio che presiede al dibattito sul diritto internazionale in genere e specificamente alla riforma dell’ONU. Avete letto anche voi, sicuramente, che c’è in giro la proposta di inserire nel Consiglio dei cinque grandi anche la Germania e il Giappone che, guarda caso, erano gli Stati sconfitti durante la guerra da cui nacquero le Nazioni Unite. Però hanno un titolo per entrare. Qual è il titolo? La ricchezza, cioè il capitale. Già in questa proposta si svela quale maschera sia il diritto internazionale. Ancora non abbiamo mai nominato il potere occulto che è il capitale, la logica del mercato. Le Nazioni Unite non dovrebbero essere – per usare una sferzante frase di Marx – il comitato esecutivo del capitalismo internazionale ma il sospetto che lo siano è troppo diffuso. Capisco che nel dir questo già traccio la distanza enorme che corre fra la situazione in cui siamo e una costituzione delle Nazioni Unite rispondente alle necessità.

Il cammino è lungo, però potremmo dire che esso delinea l’orizzonte delle rivoluzioni del domani che, abbandonata l’idea – anche perché diventata un’idea ineseguibile – delle rivoluzioni armate, non potranno essere che rivoluzioni nella democrazia, per la democrazia e attraverso la democrazia. Allora è bene mettere in luce la presenza nel nostro dibattito, anche quando le intenzioni sono le migliori, le più oneste, di un paradigma di lettura della realtà e dei conflitti.

Il paradigma, nel senso della filosofia della scienza, è la formulazione di un criterio di lettura suggerito da un pregiudizio, da una situazione anteriore al momento dell’analisi che risulta perciò governata da interessi che non hanno niente a che fare col quadro conoscitivo.

In sintesi, a me pare di poter dire che esiste un paradigma di percezione di origine egemonica. Gli Stati Uniti, la Germania, la Francia parlano di diritto internazionale riferendosi ad una norma oggettiva, ma utilizzano un paradigma di percezione che è quello dell’egemonia sul mondo. È una percezione latente. I paesi del Terzo Mondo usano il paradigma della liberazione. Parlano del diritto ma assegnando al diritto il valore di un punto d’appoggio per la propria liberazione. Come vedete, sotto lo stesso nome, sotto gli stessi riferimenti oggettivi si muovono due universi diversamente orientati, che sono fra loro conflittuali. Come sarà possibile, all’interno degli organismi delle Nazioni Unite, superare questo divario? Questo è il problema capitale in questo momento. Papisca ha ricordato un documento che dovrebbe essere risolutivo riguardo a ciò che ho accennato prima: il nuovo ordine economico internazionale stabilito nel 1974. Che ne è successo? Niente! È la riprova del nove che quando le risoluzioni dell’ONU vengono a mettere in questione i rapporti economici strutturali che legano e subordinano i popoli gli uni agli altri allora l’inefficienza delle Nazioni Unite è totale. Credete voi che nella guerra del Golfo questo meccanismo economico non sia stato risolutivo?

Parole chiave

Nazioni Unite / ONU global governance diritti umani relazioni internazionali

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