Genocidio e principio di irretroattività: il caso Vasiliauskas c. Lituania della Corte Europea dei Diritti Umani (2015)
Vasiliauskas è un cittadino lituano, nato nel 1930 e residente a Taurage, in Lituania. In risposta all'invasione della Lituania, avvenuta nel 1940 da parte dell'Unione Sovietica, si formarono nel territorio lituano gruppi politici di resistenza armata impegnate nella lotta per l'indipendenza del Paese dalle armate sovietiche.
La strategia militare utilizzata da Mosca per sedare i rivoltosi consisteva nella eliminazione fisica di tutti coloro i quali facessero parte dei gruppi di resistenza. Fu proprio in ragione di tale politica che Vasiliauskas, in quanto membro del Ministero degli interni russo, assunse un ruolo di prim’ordine nell'operazione che portò all'uccisione di due ribelli lituani, i fratelli A.A. e J.A.
L’11 marzo 1990 la Lituania diventa indipendente e nel 2001 iniziano le indagini sulla morte di alcuni esponenti della resistenza, tra cui i suddetti fratelli. Nel frattempo, nel 2003, entra in vigore un nuovo Codice penale che all’articolo 99 introduce il crimine di genocidio, espandendo l'ambito di applicazione oggettivo della fattispecie criminosa, includendo, alle categorie elencate nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948, anche i gruppi "politici o sociali".
Il ricorrente, nel 2005, venne condannato in via definitiva per la commissione del crimine di genocidio. Il dolo specifico, necessario ad integrare la fattispecie criminosa, veniva individuato nell'intenzionalità dell'eliminazione del gruppo politico del quale i fratelli facevano parte. Sulla base infatti dell'art. 3 della legge 9 aprile 1992, che prevede l'applicazione retroattiva della responsabilità penale per il crimine di genocidio, viene condannato per i fatti avvenuti nel 1952.
A seguito del completo esperimento dei ricorsi interni, Vasiliauskas si rivolge alla Corte europea dei diritti umani (CtEDU), denunciando la subita violazione dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU), il quale prevede che “nessuno possa essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”
La Grande Camera della CtEDU, dopo aver statuito l'avvenuta violazione del principio di irretroattività della legge penale, a livello di diritto interno, specifica inoltre, che, secondo quando previsto e riconosciuto ai sensi dell'art. 11(2) della Dichiarazione universale dei diritti umani, il "fatto che il diritto nazionale non preveda un crimine, non ostacola il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”.
La Corte ha dovuto quindi verificare che al momento della commissione dei fatti esistesse una cornice normativa di rango internazionale che prevedesse la fattispecie criminosa del delitto di genocidio, e che l'uccisione dei fratelli potesse essere considerata dunque come un'azione integrativa del reato.
Per quando concerne la prima questione la CtEDU riconosce che nel 1952, nonostante la ratifica dell'Unione Sovietica sia avvenuta solo nel 1954, era già in vigore la Convenzione contro il genocidio del 1948. La Corte ritene che, nonostante l’Unione Sovietica non fosse formalmente vincolata al rispetto della suddetta Convezione, si potesse riconoscere in modo sufficientemente chiaro l’esistenza del crimine di genocidio all’interno del diritto internazionale consuetudinario.
Per ciò che concerne la seconda questione, la Corte si sofferma particolarmente sull'analisi dell'ambito oggettivo della fattispecie. Innanzitutto la Corte conferma quanto riscontrato dalle corti nazionali circa la sussistenza dell'elemento soggettivo, l'intenzionalità e la premeditazione. Tuttavia, restava da determinare se la caratterizzazione delle vittime come appartenenti a un gruppo politico possa essere ricondotta alle norme di diritto internazionale. Stando alla lettera della relativa Convenzione, il crimine di genocidio viene riferito all’eliminazione sistematica di gruppi nazionali, etnici, razziali o religiosi. Esaminando i lavori preparatori del testo della Convenzione, non si riscontra la volontà di includere anche i gruppi sociali o politici. Le stesse osservazioni sono formulate dalla Corte anche in riferimento ad altri documenti internazionali come la Convenzione sulla non applicabilità delle prescrizioni ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità del 1968, lo statuto del Tribunale penale internazionale per la Ex Jugoslvaia del 1992 e lo Statuto della Corte penale internazionale del 1998, i quali limitano lo scopo del crimine di genocidio ai soli gruppi citati anche nella Convenzione del 1948.
La CtEDU, quindi, pur riconoscendo l’esistenza del crimine di genocidio nel diritto internazionale consuetudinario, ritiene che non vi fossero elementi sufficienti per includere i gruppi politici all’interno dell’ambito di applicazione oggettivo della fattispecie. Pur riscontrando l’evoluzione giurisprudenziale volta all’inclusione dei gruppi politici all’interno della fattispecie di genocidio, la Corte esclude che Vasiliauskas potesse prevedere tale evoluzione.
Per quanto riguarda invece la decisione della Corte Suprema lituana di considerare i due fratelli come rappresentanti di un gruppo etnico-nazionale, la Grande Camera rigetta tale interpretazione, sottolineando come il principale motivo alla base dell’esistenza dei movimenti di resistenza fosse la comune affiliazione politica e ideologica.
In conclusione, la Grande Camera conferma la violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea sui diritti umani ai danni del ricorrente, il quale, basandosi sia sul diritto interno che su quello internazionale, non aveva modo di prevedere che l’uccisione di due membri della resistenza lituana sarebbe potuta essere assimilata al crimine di genocidio, così come successivamente codificato dalla legislazione nazionale lituana.
Opinioni dissenzienti dei giudici
I giudici Villiger, Power-Forde, Pinto de Albuquerque e Kuris si sono dissociati dall’opinione della maggioranza, sostenendo che non ci sia stata una violazione dell’articolo 7 CEDU in quanto l’interpretazione del diritto internazionale poteva ritenersi sufficientemente chiara da far rientrare i gruppi politici nello scopo della Convezione contro il genocidio. Inoltre, ritengono che il ricorrente avrebbe potuto prevedere che il suo atto sarebbe stato assimilato a tale crimine. L’intento della premeditazione e dell’eliminazione fisica di alcuni individui in quanto tali costituiscono, nell’opinione dei giudici, elementi sufficienti per caratterizzare i fatti avvenuti nel 1953 come genocidio.
Il caso Vasiliauskas c. Lituania è stato caratterizzato da un forte disaccordo tra i giudici della Grande Camera, che si è espressa con una maggioranza di 9 a 8. Alla base di tale mancanza di consenso si trovano due diversi approcci al diritto. Il primo, più formale, rimane ancorato all’interpretazione letterale delle fonti internazionali secondo la quale la mancanza dei gruppi politici nella formulazione dell’articolo 2 della Convenzione contro il genocidio costituisce un elemento sufficiente per ritirare l’accusa di genocidio conto Vasiliauskas. Il secondo approccio tenta invece di superare il primo, andando ad identificare quali sono gli elementi fondamentali e lo scopo del testo legislativo, promuovendo un’applicazione della protezione garantita dalla Convenzione più ampia rispetto a quella espressa dalla formulazione del testo, andando così a comprendere anche i gruppi politici.