Il diritto di voto delle persone con disabilità: “overinclusiveness is better than underinclusiveness”
1.
Nel 2002 la Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto (Commissione di Venezia) aveva adottato un codice di buone pratiche in materia elettorale in cui si affermava che i principi del suffragio universale, libero, segreto e diretto appartengono al patrimonio comune europeo maturato in questo settore (“Europe’s electoral heritage”). Nell’ottobre 2010, la stessa Commissione ha adottato una dichiarazione interpretativa del codice del 2002 dedicata alla partecipazione alle elezioni delle persone con disabilità (documento CDL-AD(2010)036).
La dichiarazione interpretativa, come del resto lo stesso “codice” del 2002, costituisce uno strumento di soft law, non vincolante per gli Stati, ma che orienta le legislazioni nazionali (il riferimento è ai 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, ma non solo, visto che nella Venice Commission siedono giuristi di altri dieci paesi extraeuropei), identificando degli standard ritenuti di consolidata legittimità sul piano del diritto internazionale. Ogni precisazione è infatti utile quando si tratta di attuare in tutti i suoi aspetti un diritto umano della massima importanza, riconosciuto da tutti gli strumenti universali e regionali in materia, come è il diritto di voto. L’elaborazione di una dichiarazione interpretativa era stata sollecitata in particolare dal Comitato di esperti sulla partecipazione delle persone con disabilità alla vita politica e pubblica (CAHPAH-PPL), un organo creato dal Consiglio d’Europa nell’ambito del Forum per il coordinamento del Piano d’azione sulla disabilità 2006-2015 (Raccomandazione Rec(2006)5 del Comitato dei Ministri.). Lo stesso CAHPAH-PPL aveva anzi proposto nel maggio 2010, un proprio testo, un vero progetto di risoluzione interpretativa, ampiamente recepito dalla Commissione di Venezia. Il 2010, come vedremo in seguito, rappresenta in effetti un anno in cui il tema ha conosciuto importanti sviluppi in Europa.
Il testo del “codice” del 2002 indicava in effetti delle eccezioni all’universalità del diritto di voto: lo Stato può e per certi versi deve limitare tale diritto, dice la Commissione di Venezia, in relazione a taluni fattori, vale a dire: l’età, la nazionalità e la residenza abituale dell’individuo. La persona può inoltre essere privata del diritto di voto attivo e/o passivo, in forza di una previsione di legge e in applicazione di un principio di proporzionalità e previa pronuncia di un organo giudiziario, sulla base di due ulteriori elementi: “incapacità mentale o condanna penale per un reato grave”.
Nell’interpretare questo punto, la Commissione di Venezia, con la dichiarazione dell’ottobre 2010, afferma: II.1.2. No person with a disability can be excluded from the right to vote or to stand for election on the basis of her/his physical and/or mental disability unless the deprivation of the right to vote and to be elected is imposed by an individual decision of a court of law because of proven mental disability (II.1.2. Nessuna persona con disabilità può essere esclusa dal diritto di voto attivo o passivo sulla base della sua disabilità fisica o mentale, salvo che l’esclusione dal diritto di votare o di essere eletto sia imposta da una decisione giudiziaria individuale in ragione di una disabilità mentale accertata).
2.
Il citato progetto di dichiarazione avanzato dal CAHPAH-PPL nel maggio 2010 stabiliva che “no person with disability can be excluded from the right to vote or to stand for election on the basis of her/his disability”. Non prevedeva quindi alcuna eccezione alla regola del suffragio universale: in particolare, nessuna eccezione fondata sulla disabilità mentale [1] dell’individuo.
Nel settembre 2010, tuttavia, il progetto subisce una modifica: fermo restando che il diritto di votare e di essere votato non può essere negato a nessuna persona sulla base della sua disabilità, “physical and/or mental”, il comitato aggiungeva: “unless the deprivation of the right to vote and to be elected is imposed by individual decision of a court of law”.
La versione approvata dalla Commissione di Venezia nell’ottobre successivo si limitava pertanto ad aggiungere che tale decisione, presa su base individuale, doveva basarsi su una “proven mental disability” (“un handicap mental établi”, nella versione francese). La differenza sta dunque sulla rilevanza o meno dalla disabilità mentale o intellettiva come fondamento per tale esclusione dall’elettorato attivo e passivo. La specificazione di tale fondamento, se serve indubbiamente a dare un oggetto più circoscritto alla decisione che il giudice dovrebbe emettere circa la competenza elettorale (“voting competence”) dell’individuo, costituisce indubbiamente una potenziale fonte di discriminazione.
Nel dicembre 2010 il CAHPAH-PPL esprime la propria insoddisfazione per il testo licenziato dalla Commissione di Venezia. Quest’ultima ha quindi replicato proponendo una versione alternativa. In questa nuova versione, sottoposta alla CAHPAH-PPL nell’aprile 2011, dopo aver ribadito in modo solenne il valore del suffragio universale, che non può permettere alcuna discriminazione a carico delle persone con disabilità (“II.1.2. Universal suffrage is a fundamental principle of the European Electoral Heritage. People with disabilities may not be discriminated against in this regard”), la Commissione ripropone la possibilità di privare dei diritti elettorali un individuo: “Nevertheless, a court, in an individual decision, may consider that the lack of proper judgment of a [disabled] person may prevent him or her from exercising his or her right to vote or to stand for elections”.
Da notare che la nuova versione proposta mantiene tra parentesi quadre il riferimento alla condizione di “disabile” della persona di cui si tratta di valutare la capacità di giudizio, indicando così l’esistenza di un’alternativa non ancora sciolta. Se il rinvio esplicito alla condizione di disabile venisse mantenuto, non sembra che la nuova versione modificherebbe sostanzialmente la precedente dell'ottobre 2010. Se fosse omesso, la formulazione finirebbe per introdurre un tipo di esame giudiziale sulla capacità di giudizio dell’elettore o del candidato all’elezione dalla portata fin troppo indeterminata, essendo in teoria estendibile a qualunque individuo.
Il rappresentante del Belgio presso il CAHPAH-PPL ha proposto una formula che evita di menzionare esplicitamente le persone con disabilità quali destinatarie del giudizio sulla capacità elettorale: “a person can only be excluded from exercising his/her right to vote or from standing for election on the basis o an individual decision given by an independent and impartial tribunal, under national legislation, based on objective and reasonable arguments and never solely on the basis of a situation of disability”.
Nonostante questi tentativi di negoziare una posizione di compromesso, secondo un esponente del CAHPAH-PPL [2] la posizione prevalente in tale organismo è che la dichiarazione interpretativa della Commissione di Venezia non dovrebbe contenere alcun riferimento a possibili limitazioni per via legale o giudiziale dei diritti politici delle persone con disabilità fisica o mentale, e che andrebbe pertanto ribadita la formula originaria del maggio 2010. La stesa posizione è ampiamente prevalente tra le organizzazioni di società civile che rappresentano le persone con disabilità o che si occupano di advocacy a loro vantaggio. In particolare, un gruppo di loro ha prodotto, nel maggio 2011 e in vista della sessione di giugno della Commissione di Venezia, un documento critico che chiede esplicitamente la rimozione della frase in questione [3].
3.
La disposizione contestata presente nella dichiarazione interpretativa della Commissione di Venezia, nonostante le incongruenze che sono state in parte evidenziate e che saranno riprese più oltre, rappresenta un passo avanti significativo rispetto a quanto previsto in molte legislazioni nazionali, comprese quelle di numerosi paesi dell’Unione Europea, che escludono per legge da ogni diritto politico le persone con disabilità intellettiva, ovvero i malati di mente, sottoposte ad un regime di interdizione legale. Un rapporto dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (FRA) pubblicato nell’ottobre 2010 [4] accerta che sono tutt’oggi la maggioranza gli Stati dell’Unione che prevedono una forma automatica di negazione del diritto di voto, attivo e passivo, a carico di persone che hanno subito una limitazione della capacità di agire a causa della loro condizione di disabilità intellettiva o per una malattia mentale. L’esclusione automatica dal diritto di voto (attivo e passivo) per le persone soggette a forme di interdizione giudiziale (con nomina quindi di un tutore legale) è prevista, talvolta a livello costituzionale, in Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia: 14 Stati su 27. La situazione in realtà è un po’ più sfumata, come anche il rapporto dell’Agenzia riconosce: in paesi come Estonia, Malta e la Repubblica Ceca, pur vigendo la regola dell’esclusione del diritto di voto per chi ha subito una limitazione della capacità di agire per motivi di disabilità intellettiva o malattia mentale, è possibile, con decisioni prese caso per caso, contestare l’estensione dell’interdizione all’esercizio del diritto di voto e riconoscere pertanto all’individuo i diritti politici. Anche in Spagna e Francia, se la regola è la piena partecipazione delle persone con disabilità intellettiva o malattia mentale, il giudice tutelare, nel definire sulla misura di interdizione, può nondimeno stabilire restrizioni. in Slovenia, dopo che la Corte costituzionale ha affermato che il diritto di voto si lega alla capacità giuridica della persona e non alla sua capacità di agire, la vigente legge elettorale consente alle corti di escludere dal diritto di voto la persona incapace di intendere il significato delle elezioni. Nel 2011 l’Ungheria ha emendato la propria Costituzione per ammettere il diritto di voto delle persone con disabilità intellettiva, salvo decisione giudiziale in senso contrario da adottare caso per caso. Gli Stati europei che ammettono la piena partecipazione alle elezioni delle persone con disabilità, senza alcuna restrizione di ordine legale o giudiziale, sono l’Austria (in base all’art. 26 della Costituzione), i Paesi Bassi (in base all’art. 54 della Costituzione, emendato su questo punto nel 2008), la Svezia (Capitolo I, art. 1 e capitolo 3, art. 2 della Costituzione – Strumento di governo), la Finlandia (che però mantiene una possibilità di disporre la decadenza da tale diritto per via giudiziale), il Regno Unito (a seguito di una riforma della legge sull’amministrazione delle elezioni intervenuta nel 2006). A Cipro l’incapacità di esercitare i diritti politici è di fatto esclusivamente legata all’internamento in istituti psichiatrici. In Francia e Spagna, la soluzione adottata lascia un certo margine, come abbiamo visto, alla valutazione del giudice.
In Italia, l’art. 48 della Costituzione prevede la possibilità di stabilire per legge la limitazione del diritto di voto per incapacità civile, per effetto di sentenza penale irrevocabile e “nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”. In linea con tale orientamento, il Testo Unico del 1967 delle leggi in materia di elettorato attivo stabiliva l’esclusione del diritto di voto per gli interdetti e per gli inabilitati a causa di infermità di mente [5]. Tale norma è stata tuttavia abrogata nel 1978 con la legge Basaglia [6]. Dal 1978, quindi, ogni restrizione a carico delle persone con ridotta capacità di agire per motivi legati alla loro interdizione o inabilitazione è venuta meno. Su questo versante, quindi, il nostro paese si è posto all’avanguardia rispetto a tutti gli altri stati europei (e non solo) nell’approccio alla malattia mentale e alla disabilità intellettiva, ben in anticipo sugli orientamenti normativi attuali.
4.
La Corte europea dei diritti umani ha emesso nel 2010 un’importante pronuncia su un caso presentato da un cittadino ungherese – una sentenza che ha indotto a emendare la norma costituzionale prima vigente nel senso che sopra è stato anticipato, ovvero assoggettando l’eventuale esclusione del diritto di voto della persona con malattia o disabilità mentale ad un giudizio dinanzi ad un tribunale e non per mero effetto automatico della dichiarazione di interdizione o inabilitazione. Nel caso Alajos Kiss v. Hungary, no. 38832/06 (Sect. 2), deciso il 25 maggio 2010, la Corte europea dei diritti umani, pronunciandosi sul ricorso di un cittadino ungherese escluso dal diritto al voto perché inabilitato a causa di una disabilità psico-sociale, ha stabilito che una completa esclusione dal diritto di voto che colpisca un’intera categoria di persone, tanto più se si tratta di una categoria già per altri versi vulnerabile e storicamente vittima di pregiudizio, non si giustifica nel pur ampio margine di apprezzamento che gli stati sono liberi di seguire quando definiscono i limiti del diritto al voto, e viola pertanto l’art. 3 del I Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti umani ("Le Alti Parti contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elzioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell'opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo").
L’impatto di tale decisione è stato notevole. Non solo ha indotto una riforma costituzionale in Ungheria, ma è anche all’origine della stessa procedura che ha condotto alla dichiarazione interpretativa della Commissione di Venezia di cui qui si parla. La Corte europea ha dato ampio rilievo nella sua argomentazione agli artt. 12 e 29 della Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità.
È tuttavia evidente che la sentenza della Corte, mentre è esplicita nell’escludere la legittimità di una completa e indifferenziata cancellazione del diritto di voto per tutti coloro che subiscono qualche forma di limitazione della capacità d’agire per disabilità mentale (intellettiva, psico-sociale), non esclude la possibilità di non riconoscere il diritto di voto sulla base di una “valutazione giudiziaria individualizzata”.
5.
Secondo l’orientamento sostenuto dalla Corte europea dei diritti umani, dunque, il diritto di voto non è protetto in maniera assoluta e la sua universalità può essere soggetta a limiti ad opera della legislazione statale, purché tali limitazioni trovino una giustificazione ragionevole e non risultino sproporzionate rispetto all’obiettivo perseguito. In questo modo si giustifica, tra l’altro, la limitazione del diritto di voto ai soli maggiorenni: l’obiettivo della restrizione è quello di dare accesso al voto solo a persone che si presumono in grado di comprendere le implicazioni generali della loro scelta. L’esclusione dai diritti elettorali delle persone con disabilità mentale, motivata da analoga finalità, sarebbe invece da valutare caso per caso, non essendo ammissibile una norma che la preveda in via automatica, in quanto irragionevolmente discriminatoria.
Questa visione è certamente più avanzata rispetto a quella implicitamente espressa nel 1996 dal Comitato sui diritti umani (civili e politici) nel suo General Comment sull’art. 25 del patto sui diritti civili e politici. In tale documento, l’organismo di controllo sull’attuazione del Patto dichiarava infatti: “10. Il diritto di voto alle elezioni e ai referendum deve essere previsto per legge e può essere soggetto solo a limitazioni ragionevoli, quali un limite minimo d’età per il suo esercizio. Non è ragionevole limitare il diritto di voto sulla base di una disabilità fisica o imporre requisiti di alfabetizzazione, istruzione o di censo” (corsivo aggiunto). Il solo riferimento alla disabilità fisica è indicativo di una concezione della disabilità intellettiva o psicosociale, nonché della malattia mentale, decisamente datata.
6.
Il punto di svolta può essere collocato proprio con l’adozione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, con la Risoluzione 61/106 del 13 dicembre 2006 [7]. L’art. 29, in particolare, relativo ai diritti politici delle persone con disabilità, non fa alcun accenno a possibili limitazioni nell’accesso al voto. D’altro canto, l’art. 1 della stessa Convenzione, nell’affermare le finalità del trattato (“Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità”) non traccia ovviamente alcuna distinzione quanto al godimento dei diritti fondamentali tra le diverse forme di disabilità.
Significativo a proposito è il testo delle prime General Conclusions adottate nell’aprile 2011 dal Comitato dei diritti delle persone con disabilità, l’organo di monitoraggio della Convenzione del 2006 creato dallo stesso trattato e giunto nel 2011 alla sua quinta sessione. A conclusione dell’esame del rapporto sulla Tunisia, il Comitato di esperti indipendenti, a proposito delle carenze delle legislazione di quel paese riguardo al diritto di voto delle persone con disabilità e al loro diritto di accesso alle operazioni elettorali, ha raccomandato allo Stato “l’adozione urgente di misure legislative per assicurare che le persone con disabilità, comprese quelle che si trovano sottoposte a forme di tutela o curatela, possano esercitare il diritto di voto e di partecipazione alla vita pubblica su una base di parità con le altre” [8]. Anche in questo caso, nessun accenno è fatto all’esistenza di diverse “categorie” di persone con disabilità [9].
Se dunque può essere condivisa l’idea che il diritto di voto (suffragio universale) non sia protetto in via assoluta, dal momento che ad esso sono inerenti talune limitazioni (nazionalità, residenza, età…), anch’esse peraltro soggette a continua verifica di ragionevolezza e proporzionalità, una norma che escludesse direttamente e in via sistematica gli appartenenti ad un certo gruppo svantaggiato dalla partecipazione politica attraverso il voto sarebbe da considerarsi gravemente discriminatoria. Inoltre, lo sviluppo che in questi decenni ha conosciuto sia la nozione di discriminazione, sia quella di disabilità, induce a pensare che rientri tra le pratiche discriminatorie anche la previsione di limiti al diritto di voto che, benché fondati su valutazioni caso per caso, finiscano per applicarsi esclusivamente agli appartenenti allo stesso gruppo vulnerabile.
Questo è l’esito nel caso di normative che prevedano un accertamento di “maturità elettorale” solo a carico di chi è già stato oggetto di una diminuzione ella capacità di agire collegata alla nomina di un tutore o di un amministratore di sostegno. Solo nei confronti di tali soggetti infatti sembrerebbe previsto il controllo sulla “voting competence” secondo la formulazione della dichiarazione interpretativa adottata dalla Commissione di Venezia. Nella misura in cui sono soltanto le persone con disabilità (mentale) ad essere sottoposte a tale verifica, la disposizione contiene un’evidente discriminazione [10]. D’altro canto, togliere di mezzo ogni riferimento alla previa condizione di disabilità psico-sociale come condizione per la procedura di accertamento porterebbe a sottoporre ad una verifica condotta su basi di difficile individuazione un numero imprecisato di persone – tutti coloro che non sembrano conformarsi ad una pretesa “razionalità” nelle scelte elettorali. A parte l’estensione che un tale scrutinio potrebbe avere, ci si chiede su quali criteri “oggettivi” o “ragionevoli” sia possibile sindacare la scelta di un elettore: dovremmo escludere dal voto chi dichiara di seguire ideologie “irrazionali”? o chi esprime un voto di protesta su liste dichiaratamente anti-sistema? È evidente come affrontare questa strada sia, prima ancora che antidemocratico, radicalmente assurdo.
7.
Una legislazione che imponga distinzioni sulla base (più o meno mascherata) di una disabilità – a maggior ragione se sulla base di una distinzione tra portatori di diversi tipi di disabilità (fisiche o mentali)-, corre dunque il rischio di risultare direttamente o indirettamente discriminatoria e quindi contraria all’oggetto e allo scopo precipui della Convenzione del 2006. C’è tuttavia un altro punto che occorre sottolineare. In effetti, una simile lettura sconfessa alla radice un altro assunto giuridico e culturale fondamentale fatto proprio dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, ovvero il cambiamento di prospettiva che la convenzione adotta nel trattare della disabilità. Si è passati infatti da una visione incentrata sulla necessità di fornire tutela agli individui titolari di personalità giuridica ma “incapaci” di utilizzare tale loro astratta titolarità di poteri e facoltà a causa di una “menomazione” (fisica o mentale) dai cui effetti negative devono essere messi, per quanto possibile, al riparo, ad una visione che afferma senza reticenze la piena titolarità di tutti i diritti umani fondamentali in capo alle persone con disabilità, le quali non devono pertanto essere “protette” dalle implicazioni invalidanti del loro status, ma messe in condizione, attraverso opportuni strumenti tecnologici, linguistico-comunicativi, giuridici, e sociali (compresi gli accomodamenti ragionevoli), di esercitare appieno i diritti che loro competono.
Si tratta della problematica che emerge, in particolare, intorno all’art. 12 della Convenzione del 2006 (dedicato all’eguale riconoscimento di fronte alla legge) e che si manifesta tipicamente nella scelta, presente nelle leggi nazionali più avanzate in materia, di sostituire la tradizionale figura del tutore legale (guardian), che tendenzialmente sostituisce in toto la propria volontà a quella del soggetto con ridotta capacità di agire, con la figura dell’amministratore di sostegno (Il riferimento è alla figura introdotta in Italia con la riforma del codice civile fatta con la legge 9 gennaio 2004, n. 6), che non si sostituisce al suo assistito, ma lo affianca e accompagna nell’esercizio dei diritti. Ora, risulta evidente che affermare, per via di presunzione assoluta di legge o anche con una decisione giudiziale caso per caso, che la persona con disabilità, poiché non appare in grado di esercitare in totale autonomia il diritto di voto, deve esserne del tutto esclusa, senza verificare che siano praticabili forme di sostegno all’esercizio di tale fondamentale diritto di cittadinanza, risulta in radicale contrasto con l’approccio centrato sulla titolarità dei diritti della persona che l’art. 12 propugna.
Lo stesso ordine di considerazioni si può applicare al trattamento che viene riservato a chi si trova in condizioni di disabilità psico-sociale (o di malattia mentale): se una compressione della sua capacità d’agire, per i periodi di manifestazione acuta della malattia, può essere disposta (e qui si tratterà di definire in termini circoscritti il ricorrere della situazione di acuzie, che non può coprire periodi prolungati oltre misura), la sua totale esclusione dall'esercizio dei suoi diritti civili e politici a seguito del riconoscimento della disabilità non può essere ammessa, se non sconfessando l’impianto della Convenzione internazionale.
8.
La posizione che ancora fa salva la possibilità di escludere dal diritto di voto l’individuo con una disabilità mentale attraverso l’intervento del giudice e su base individuale, è criticabile anche per un altro ordine di motivi. Le modalità con cui questo tipo di esame della capacità mentale della persona con disabilità di prendere parte alle elezioni sarebbe condotto, oltre che potenzialmente discriminatorie e contrarie allo spirito della Convenzione del 2006, risulterebbero infatti tali da rappresentare per la persona a cui si applicano un ulteriore trauma nonché, cosa ancora più grave, la conferma dello stigma sociale che colpisce chi ha disturbi mentali o difficoltà psico-sociali o cognitive. In questo modo, una misura apparentemente volta (secondo un’interpretazione benevola) alla tutela della persona (impedire la sua manipolazione in chiave elettorale) si traduce in un approfondimento dello stigma, a sua volta causa del perpetuarsi della discriminazione. Una tale misura, inoltre, denota una concezione anacronistica della malattia mentale, incapace di cogliere le molteplicità di manifestazioni e di effetti che il cosiddetto disagio mentale può produrre, ciascuno meritevole di una trattazione propria. Con riferimento alle diverse situazioni della vita, sono infatti diverse le forme di disabilità che possono avere a fondamento una problematica di rilevanza psichiatrica. In relazione a talune situazioni – per esempio la partecipazione a pubbliche elezioni – tali problematiche possono anche non produrre alcun effetto di disabilità. La capacità dell’individuo di decidere autonomamente va valutata caso per caso in relazione all’oggetto della decisione. Così, non basta una diagnosi di ritardo mentale per concludere che una persona non è e non sarà capace di compiere decisioni autonome e giustificate in ordine ad una consultazione elettorale o ad un quesito referendario. Il disagio mentale, in altri termini, non compromette l’intera gamma delle capacità individuali e per sempre: pensare diversamente significherebbe essere attardati su posizioni scientifiche superate che molto hanno a che fare con lo stereotipo del “folle” o del “minorato”, proprio quello stereotipo che la moderna psichiatria - e la stessa Convenzione sui diritti delle persone con disabilità - hanno contribuito a farci abbandonare [11]. Una valutazione sulla capacità di giudizio dell’individuo in relazione ad un test elettorale dovrebbe potersi svolgere secondo parametri validi sia per le persone con disabilità intellettiva, sia per quelle con disabilità fisica, sia per gli individui che non rientrano in alcuna categoria di persone con disabilità, ma che non per questo si esimono da scelte razionalmente discutibili in occasione degli appuntamenti elettorali. Come abbiamo visto, valutazioni generalizzate di questo genere sarebbero impraticabili e antidemocratiche.
9.
In conclusione, dal momento che il diritto di voto attivo e passivo in uno stato democratico si deve intendere non come un privilegio, ma come un diritto; non come una strumento per far trionfare la razionalità in politica, ma per identificare la volontà del popolo, che si esprime attraverso il suffragio quanto più possibile universale, il “rischio” derivante da un “eccesso di inclusione” (permettere l’accesso al voto anche di persone che si può supporre non comprendano in tutti i suoi aspetti il significato dell’atto politico che si compie) è senza dubbio meno grave del vulnus certo che sarebbe portato ai diritti della persona e al principio di non discriminazione dal fatto di sottoporre a limitazioni il diritti di voto sulla base della disabilità psico-sociale di una categoria di persone [12].
Possiamo concludere pertanto che risulta opportuna l’azione condotta da alcune reti di ONG europee per i diritti delle persone con disabilità volta a far rivedere il contenuto della dichiarazione interpretativa adottata dalla Commissione di Venezia relativa al codice delle buone pratiche in materia elettorale. Da tale testo dovrebbe scomparire ogni riferimento a possibili limitazioni, siano automatiche o decise ad hoc da organi giudiziari, del diritto di voto delle persone con disabilità mentale. La Commissione di Venezia dovrebbe cogliere questa opportunità per dare pieno riconoscimento al cambiamento di paradigma che la Convenzione del 2006 sui diritti delle persone con disabilità ha introdotto in questo campo, evitando in particolare di porsi in contrapposizione con un l’orientamento che esplicitamente emerge dall’opera interpretativa e applicativa di tale Convenzione che ha cominciato a svolgere il Comitato sui diritti delle persone con disabilità presso le Nazioni Unite [13].
[1] La formula “disabilità mentale” è utilizzata in questo testo insieme ad altre locuzioni quali “disabilità intellettiva” o “disabilità psico-sociale” senza pretese definitorie. Le varie formulazioni sono dunque da considerare equivalenti, anche se personalmente preferisco l’ultima come la più inclusiva e la meno legata alla individuazioni di una precisa base organica del disturbo soggettivo associato alla disabilità.
[2] Si tratta dell’irlandese Pat Clarke, membro del Forum europeo della disabilità (European disability forum – EDF) e dal 2009 presidente di Down Syndrome International. L’opinione è stata espressa nel corso della public discussion on the right to vote for persons with disabilities svoltasi a Venezia, Hotel Carlton, il 15 giugno 2011, organizzata dallo EDF e dal Mental Disability Advocacy Centre (MDAC).
[3] Il documento sottoscritto da Disabled People’s International, Down Syndrome International, European Disability Forum, European Network of (Ex-) Users and Survivors of Psychiatry, European Platform of Self-Advocates, Inclusion Europe, International Disability Alliance, Human Rights Watch, Mental Disability Advocacy Center, and Mental Health Europe.
[4] FRA, The right to political participation of persons with mental health problems and persons with intellectual disabilities, novembre 2010, disponibile online:https://fra.europa.eu/en/publication/2010/right-political-participation-persons-mental-health-problems-and-persons (ultimo accesso: giugno 2011).
[5] D.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, Approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali, art. 2, n. 1.
[6] L. 13 maggio 1978, n. 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, art. 11.
[7] Entrata in vigore internazionale: 3 maggio 2008. Stati Parti al giugno 2011: 101. L’Italia l’ha ratifica, unitamente al Protocollo addizionale che istituisce un sistema di comunicazioni individuali, con l. 3 marzo 2009, n. 18, Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità.
[8] Committee on the Rights of Persons with Disabilities, Fifth session, 11-15 April 2011: Consideration of reports submitted by States parties under article 35 of the Convention, Concluding observations of the Committee on the Rights of Persons with Disabilities. Tunisia. CRPD/C/TUN/CO/1, § 35.
[9] Il punto è stato eloquentemente sottolineato da Gábor Gombos, membro del Comitato dei diritti delle persone con disabliltà, in occasione della public discussion del 15 giugno 2011 a Venezia, v. sopra, nota 10.
[10] Si veda anche quanto scrive sul suo blog il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg: “The very purpose of the Convention is to promote, protect and ensure the full and equal enjoyment of all human rights by all persons with disabilities. This leaves no room for procedures in which judges or medical practitioners would assess the voting competence of a person and then give a green light - or not. As we do not test that capability for someone without disabilities, this would amount to blatant discrimination.”
[11] Anche questo tema è stato affrontato nella public discussion di Venezia (v. nota 2), attraverso l’intervento di Rowena Daw, Head of Policy Unit, Royal College of Psychiatrists, London.
[12] Come dichiarato da Gábor Gombos nell’occasione sopra richiamata (v. nota 2), “overinclusiveness is better than underinclusiveness”.
[13] Il 16 giugno 2011, la Commissione di Venezia ha consentito ad un rappresentante del Mental Disability Advocacy Centre (MDAC) di Budapest di svolgere un breve intervento nel corso di una sua seduta pubblica. L’intervento di Oliver Lewis, direttore dell’MDAC, (on-line: https://www.facebook.com/notes/oliver-lewis/the-promise-of-democracy-why-the-venice-commission-should-adopt-universal-suffra/10150654808880263?ref=mf, ultimo accesso: giugno 2011) sottolinea anche un altro punto debole della posizione della Commissione di Venezia: il fatto di non avere coinvolto direttamente rappresentanti delle persone con disabilità nell’elaborazione della dichiarazione interpretativa che li riguarda.