Corte europea dei diritti umani

La Grand Chamber ribalta la sentenza di primo grado nel caso S.H. e al. c Austria: i limiti posti dalla legge austriaca sulle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo non violano l’art. 8 CEDU

Foto panoramica della sede del Palazzo dei diritti umani che ospita la Corte europea dei diritti umani, Strasburgo.
© Consiglio d'Europa

Il caso S.H. e al. c Austria (ric. n. 57813/00) riguarda due coppie di coniugi austriaci che contestano il divieto previsto dalla normativa austriaca in materia di procreazione assistita (Austrian Artificial Procreation Act del 1992) di potersi avvalere di alcune tecniche di fecondazione di tipo eterologo.

In particolare, sebbene accomunate della medesima problematica, le due coppie soffrono di disturbi diversi: la prima ricorrente, donna, è affetta da una disfunzione alle tube di Falloppio ma è in grado di produrre cellule uovo fecondabili; suo marito, il secondo ricorrente, è sterile. Solamente una fecondazione in vitro con sperma da donatore renderebbe possibile alla coppia concepire un figlio (con padre genetico esterno alla coppia). La terza ricorrente, soffre di agonadismo, ovvero non può produrre cellule uovo fecondabili ma sarebbe in grado di portare a termine una gravidanza; suo marito, il quarto ricorrente, è fertile. In questo caso, solamente la fecondazione in vitro con l'impiego di ovuli provenienti da una donatrice permetterebbe alla coppia di avere un figlio (di cui la madre genetica sarebbe esterna alla coppia).

La legge austriaca sulla procreazione assistita esclude però entrambe le possibilità. Tanto la donazione di cellule uovo quanto l'utilizzo di sperma da donatore in pratiche di fecondazione in vitro sono vietati. La legge, però, ammette tecniche di fecondazione in vitro con ovuli e sperma provenienti dal coniuge o partner convivente (fecondazione omologa) e, permette la donazione di sperma da donatore esterno, ma solamente per pratiche di fecondazione in vivo.

Dopo aver adito senza successo la Corte Costituzionale austriaca nel 1998, i ricorrenti si rivolgono alla Corte europea dei diritti umani lamentando, da un lato, una violazione del proprio diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), nell’accezione già ampiamente riconosciuta dalla Corte europea di formare una famiglia attraverso la filiazione e di poter a tal fine usufruire di tecniche di procreazione assistita (vedi Evans v. the United Kingdom, no. 6339/05; Dickson v. United Kingdom, no. 44362/04), dall'altro, evidenziando un profilo discriminatorio delle limitazioni contestate (art. 14) nelle misura in cui queste ultime produrrebbero una situazione di disparità tra coppie di fronte all'accesso alla procrezione assistita.

Con sentenza del 1° aprile 2010, la Camera della prima sezione della Corte europea accoglieva sostanzialmente tutte le argomentazioni presentate dei ricorrenti e condannava l'Austria per la violazione dell'art. 14 in combinato disposto con l'art. 8 della CEDU. Tutte le argomentazioni presentate dal governo austriaco a difesa della normativa vigente, tra cui la non accettabilità sociale nei confronti di pratiche di fecondazione assistita ("madri in affitto"), la necessità di proteggere le donne dal rischio di sfruttamento per fini riproduttivi e il voler preservare il principio di certezza della madre, vengono di fatto rigettate in quanto non ritenute idonee a giustificare quello che la Corte ha ritenuto essere una illegittima discriminazione tra diverse categorie di coppie sterili.

Il 3 novembre 2011 la Grand Chamber, investita della questione dal governo austriaco, rovescia la pronuncia di primo grado non rilevando, anche alla luce del margine di discrezionalità di cui godono gli Stati in un ambito particolarmente delicato e controverso come quello in esame, alcuna violazione degli artt. 8 e 14 CEDU.

Il ragionamento della Grand Chamber, che affronta la questione non dal punto di vista di un eventuale obbligo positivo da parte dello Stato di garantire l'accesso ad alcune forme di procreazione assistita ma dalla prospettiva di una possibile ingerenza dello Stato nel rispetto alla vita privata e familiare dei ricorrenti, inizia proprio con la disamina del margine di apprezzamento nazionale nel regolare questioni attinenti la procreazione medicalmente assistita.

La Corte, pur riconoscendo che tale margine si assottiglia quando un aspetto essenziale della vita dell'individuo è coinvolto (e quello di formare una famiglia attraverso il concepimento di un figlio rientra certamente tra questi), ribadisce che qualora la questione interessi aspetti etico-sociali particolarmente sensibili, il margine di discrezionalità goduto dagli Stati nel bilanciare interessi pubblici e privati concorrenti non può che allargarsi. Allargamento che nel caso di specie sembra giustificarsi anche perché la Corte rileva la mancanza, sul piano europeo, di un consenso in materia di fecondazione assistita eterologa o di utilizzo di "madri in affitto". Si tratta insomma di un settore particolarmente dinamico del diritto e di conseguenza non basato su solidi e consolidati principi.

Nel valutare infine la ragionevolezza e la proporzionalità delle limitazioni messe in atto dal legislatore austriaco, pur riconoscendo i progressi e l'evoluzione avvenuti negli ultimi dieci anni tanto nel campo medico-scientifico quanto in quello etico-sociale relativamente alla fecondazione assistita e pur invitando esplicitamente lo stesso legislatore a rivedere la normativa proprio alla luce di tali cambiamenti, la Corte ha ritenuto dover avere come principale riferimento il contesto esistente all'epoca della sentenza della Corte Costituzionale austriaca del 1999.

I giudici di Strasburgo (con maggioranza di 13 a 4) hanno quindi concluso che, considerato il disagio che le opportunità offerte dalla moderna medicina riproduttiva suscitava allora in larghi settori della società austriaca, la legge austriaca e la sua applicazione abbiano operato il bilanciamento degli interessi in gioco in modo ragionevole, aprendo con moderazione a forme di fecondazione in vitro e eterologa.

Alcuni punti criticabili della sentenza, evidenziati in maniera particolarmente efficacie dall'opinione dissenziente redatta congiuntamente dai 4 giudici di minoranza, riguardano sia l'aver combinato in un unico argomento la mancanza di un consolidato consenso europeo sul punto e il margine di apprezzamento nazionale, sia l'aver ricondotto la valutazione della posizione austriaca alla problematca così come si presentava nel 1999.

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