La nuova identità politica del movimento per la pace
1. La cultura politica del transnazionalismo organizzato a fini di promozione umana
Dunque, gli stati hanno fatto la guerra, la guerra del Golfo. Come dire, il lupo perde il pelo ma non il vizio. E tuttavia, gli stati nazione “sovrani”, ancora formalmente detentori esclusivi del potere di vita e di morte sull’ordine internazionale vigente, sono oggi contrastati da una pluralità di nuovi soggetti che stanno ponendo la sfida della redistribuzione del potere politico nella gestione della politica internazionale, anche relativamente a materie definite di high politics.
Con questo, non si vuole certamente asserire che il potere statuale non sia più quello predominante, ma piuttosto che esistono, realmente, ruoli che sono svolti in misura crescente da attori diversi dagli stati e che sono significativi per il sistema della politica internazionale.
Di fatto, durante la guerra del Golfo intensa è stata l’attività non soltanto della tradizionale diplomazia interstatuale – che, tra l’altro, non è riuscita o non ha voluto evitare il ricorso all’uso della forza per la soluzione della crisi Irak-Kuwait –, ma anche delle strutture di “diplomazia dei popoli” che hanno svolto una intensa azione politica nel tentativo di trovare una soluzione pacifica al conflitto in atto. La diplomazia dei popoli può essere considerata come la fase matura dell’associazionismo che si struttura e opera per via transnazionale.
Questa nuova fase della cooperazione internazionale nongovernativa costituisce lo sviluppo di un movimento organizzato per via transnazionale che, già riconosciuto nella Carta delle Nazioni Unite del 1945 all’art. 71, ha agito capillarmente negli ultimi quarant’anni dimostrando di volere e sapere rispondere a esigenze di “utilità internazionale” [1] nel perseguimento di obiettivi di interesse sia privato sia pubblico.
L’Annuario delle Organizzazioni Internazionali, curato dall’Unione delle Associazioni Internazionali, UAI, censisce nelle sua ultima edizione (1989/90) 20.063 organizzazioni internazionali nongovernative, OING: con questa sigla si intendono, come noto, le organizzazioni che perseguono fini non lucrativi.
Giova altresì ricordare che il transnazionalismo è il processo attraverso il quale si esplica la dinamica dei ruoli, delle strutture e delle istituzioni alla cui origine stanno attori diversi dai governi e dalle loro agenzie intergovernative, in grado di agire e interagire significativamente nello spazio funzionale internazionale in modo autonomo rispetto ai centri di potere politico di matrice governativa [2].
L’identità degli attori transnazionali consiste, essenzialmente, nella capacità effettiva di operare in più paesi prescindendo dalle dimensioni tipiche delle tradizionali relazioni internazionali, la statualità e la territorialità.
Orbene, questo transnazionalismo è in pieno sviluppo sia dal punto di vista quantitativo (aumento del numero delle strutture organizzate in via transnazionale e della estensione geografica del raggio di operatività delle medesime), sia dal punto di vista qualitativo (rilievo politico degli obiettivi e delle attività concretamente esplicate nel perseguirli).
Tale processo sta investendo il sistema delle relazioni internazionali, influendo direttamente sulla sua evoluzione. È in via di strutturazione un vero e proprio sistema transnazionale, con caratteri di originalità e autonomia, che tra i suoi fini principali persegue esplicitamente quello di innestare caratteri nuovi, per esempio, la partecipazione politica popolare, nel vecchio sistema delle relazioni interstatuali.
Il transnazionalismo introduce la dimensione del pluralismo soggettuale nella politica internazionale, intaccandone quindi il monopolio statualistico e dando sostanza al principio di solidarietà internazionale. Come ho appena accennato, si tratta di un arricchimento innanzitutto quantitativo ma, data la natura dei nuovi soggetti internazionali, che è sostanzialmente diversa da quella degli stati, il nuovo apporto alla politica internazionale è qualitativo, valoriale. In altre parole, i soggetti transnazionali che operano a fini di promozione umana, disponendo al loro interno di una struttura democratica ed essendo portatori di valori e interessi popolari, non solo possono “capire” più dei governi i bisogni-diritti fondamentali della gente, ma possono “fare” di più e, attraverso le loro reti di collegamento internazionali, agire in maniera capillare e in tempi rapidi. Il loro paradigma etico-giuridico di riferimento è il Codice internazionale dei diritti umani, cioè quell’insieme di norme, procedure e politiche finalizzate al pieno e integrale sviluppo delle persone e delle comunità umane[3].
Il diffondersi e il consolidarsi delle organizzazioni nongovernative hanno posto con decisione – quanto meno per iniziativa delle punte più avanzate di questa area soggettuale – direttamente anche sul piano internazionale, il problema della democrazia, intesa non nella sua accezione interstatualistica, che traduce il principio della sovrana eguaglianza degli stati, ma come partecipazione politica popolare ai processi decisionali delle istituzioni internazionali[4].
È agevole ipotizzare che la capacità di mutamento che i soggetti transnazionali riusciranno ad esprimere nei confronti del vecchio sistema internazionale sia direttamente proporzionale al grado di sviluppo della loro cultura politica.
Certo è che la velocità con cui si susseguono eventi di portata storica, capaci di modificare anche consolidati (all’apparenza) equilibri di potenza, nonché lo straordinario aumento e la diversificazione delle interazioni che rendono il sistema internazionale sempre più complesso e interdipendente, richiedono una capacità di apprendimento e di risposta immediata.
Le organizzazioni nongovernative stanno dimostrando di essere consapevoli della necessità di aggiornare, arricchire e adeguare la loro cultura rispetto ai contenuti e all’ordine di grandezza dei nuovi obiettivi strategici che sono, sempre più chiaramente, di intervento diretto sulla struttura del sistema delle relazioni internazionali.
I gruppi dirigenti di molte associazioni si stanno rendendo conto dell’urgenza di avviare seri processi di elaborazione culturale e di socializzazione politica per passare dal momento della fede, dell’adesione ai valori, delle “microrealizzazioni” per lo sviluppo, delle dimostrazioni disarmiste, insomma dal momento della testimonianza, a quello della progettualità e dell’ingegneria politico-istituzionale con riferimento a ben determinati oggetti o parti del sistema politico internazionale.
Questo salto di qualità “progettuale” si sta compiendo gradualmente e coincide con il definitivo superamento delle vecchie ideologie circolari.
Oggi, la cultura delle organizzazioni nongovernative nazionali e locali si dimostra attenta ai problemi della politica, dell’economia e dello stesso funzionamento delle istituzioni internazionali, dall’ONU al Fondo Monetario Internazionale, dalla CEE ai Vertici dei sette paesi più industrializzati, dal sistema dell’Atto finale di Helsinki alle nuove istituzioni della Casa comune europea. A questa attenzione della base popolare delle ONG
verso i problemi della politica internazionale si accompagna l’attenzione della stessa base verso i programmi e le leaderships delle rispettive OING di appartenenza: come dire, i soci di Amnesty International guardano a ciò che fa il Segretariato internazionale di Londra, i soci di Pax Christi a quello che fa il rappresentante di Pax Christi International all’ECOSOC e all’UNESCO.
È importante far notare come l’attuale evoluzione della cultura delle associazioni – attenzione verso l’internazionale – che, come diremo tra poco, ha vissuto una accelerazione significativa durante la guerra del Golfo, non sia, nella maggior parte dei casi, frutto della capacità dei vertici delle OING di guardare verso la base delle rispettive strutture, ma piuttosto risenta direttamente degli ampi processi di trasformazione che sono in atto su scala planetaria ponendosi trasversalmente alle società e ai sistemi politici dei vari paesi [5]. Tale constatazione serve a precisare che il livello su cui va elaborandosi ed evolvendo la cultura delle OING, non è tanto quello del loro vertice quanto quello della loro base.
Non appaia superfluo ricordare che la radice delle OING, appunto perché affonda nel sociale, non è politica. Il loro attuale ruolo che, giova ripetere, è sempre più significativo per la politica, corrisponde ad uno status di acquisizione, non di ascrizione originaria. L’allargamento dell’orizzonte della cultura delle OING ad oggetti anche politici e oggi di alta politica, è il risultato di un processo evolutivo, tuttora in atto.
Quali, oggi, i prevalenti oggetti politici dell’orientamento delle OING? Ne indico alcuni a titolo indicativo: politiche estere, di difesa, ambientali, ecc. dei singoli stati; tutela internazionale dei diritti umani; positivizzazione giuridica dei diritti umani di terza generazione e dei diritti dei popoli; processi di autodeterminazione dei popoli (per es., eritrei, palestinesi, kurdi, salvadoregni, cinesi, tibetani, indiani d’America); salvaguardia dell’Amazzonia; superamento del regime di apartheid in Sud Africa; riconoscimento delle ONG da parte dei governi dei paesi del Terzo Mondo; liberazione dei prigionieri di coscienza all’interno dei singoli paesi. Le OING si interessano delle organizzazioni intergovernative e dei loro programmi (per es., politica per la cooperazione allo sviluppo della Comunità europea) e, più di recente, anche della loro funzionalità e della loro struttura istituzionale (per es., ONU) e della loro stessa ragion d’essere (per es., NATO). Si registra una attenzione crescente verso le politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale[6]. Lo stesso futuro dell’assetto politico paneuropeo è divenuto centrale nella riflessione propositiva del movimento pacifista europeo. I Vertici dei sette paesi più industrializzati sono divenuti anche’essi oggetto di monitoraggio da parte di una apposita struttura internazionale nongovernativa, l’Osservatorio della democrazia internazionale.
Gli oggetti politici di orientamento concreto delle OING pertengono dunque a tutte le “parti” del sistema della politica internazionale, dai principi e dalle norme alle strutture decisionali e agli stessi leaders della politica internazionale (per es., il Segretario generale dell’ONU o il Direttore generale dell’OMS).
Quando le OING contestano la natura belligena del sistema dei rapporti fra stati, il ruolo disumano delle sovranità armate, o fanno riferimento alla necessità di un nuovo ordine internazionale economico e politico, il loro oggetto di orientamento è chiaramente il “regime” del sistema internazionale, cioè la qualità dei principi e degli obiettivi della politica internazionale. Quando “processano”, con l’ausilio del Tribunale Permanente dei Popoli, il Fondo Monetario Internazionale[7], il loro oggetto attiene specificamente alle “strutture d’autorità” del sistema internazionale, cioè al modo con cui si compongono e funzionano gli organismi internazionali[8]. L’obiettivo di una “costituente” per un nuovo ordine internazionale segna il punto più alto della progettualità politica delle OING. Sotto questo profilo, la loro nuova cultura politica ha assunto una dimensione chiaramente sistemica ovvero globalizzante, oltre che fortemente innovativa e ingegneristica.
Il diffondersi di una nuova cultura politica nel mondo dell’associazionismo deriva anche dalla necessità di adeguare le proprie competenze alla luce di importanti riconoscimenti formali da parte delle istituzioni internazionali governative.
Com’è noto, la più antica forma di riconoscimento ufficiale delle OING è quella dello status consultivo, cui possono avere accesso le OING medesime sulla base di espresse previsioni degli ordinamenti giuridici di talune organizzazioni intergovernative, OIG. Sul piano mondiale, la previsione dello status consultivo risale, come già ricordato, al 1945, anno di adozione della Carta delle Nazioni Unite[9]. Si ricorda che presso il Consiglio economico e sociale dell’ONU, hanno oggi status consultivo ben 831 OING, presso l’UNESCO 543, la FAO 175, l’OIL 145, il Consiglio d’Europa oltre 300.
La concessione dello status consultivo, tuttavia, non comporta il riconoscimento della personalità giuridica internazionale delle OING, ma quello della loro utilità in ordine al funzionamento delle OIG. Lo status consultivo conferisce ufficialità al ruolo delle OING prescindendo da implicazioni formali strettamente giuridiche. In altre parole, lo status consultivo attesta del fatto che determinate OING sono ritenute idonee a svolgere ruoli internazionali significativi per l’ambito di operatività di talune OIG.
Soltanto di recente, per iniziativa del Consiglio d’Europa, è stata elaborata la Convenzione europea sul riconoscimento della personalità giuridica delle organizzazioni internazionali nongovernative, firmata da Austria, Belgio, Grecia, Portogallo, Svizzera e Regno Unito il 24 aprile 1986 e finora ratificata da Regno Unito (febbraio 1989), Grecia (giugno 1989) e Belgio (settembre 1990). La Convenzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1991. Nel Preambolo della Convenzione, composta di 11 articoli, gli stati membri del Consiglio d’Europa riconoscono che le organizzazioni internazionali nongovernative “esercitano una attività utile alla comunità internazionale specialmente nei campi scientifico, culturale, caritativo, filantropico, della salute e dell’educazione e contribuiscono alla realizzazione degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite e dello Statuto del Consiglio d’Europa”.
C’è qui una figura nuova per l’ordinamento giuridico internazionale: gli enti non-statuali di “utilità internazionale”. Noi aggiungiamo che la natura e la dimensione degli obiettivi perseguiti dalle OING non possono non qualificare come pubblica tale “utilità”. Alla luce di ciò, è possibile continuare a chiamare le OING enti privati o enti di privati? Dal punto di vista sostanziale, questo riconoscimento formale del ruolo di utilità internazionale delle OING significa riconoscimento di status politico per gli enti che tale ruolo esercitano. Questo rilievo pubblico e politico delle OING è evidenziato dalla lettera dell’articolo 4 laddove si ipotizza, per la eventuale non applicazione della Convenzione, che una OING possa “compromettere le relazioni con un altro stato o il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”. L’articolo 2 dispone che la personalità giuridica di una OING quale acquisita nello stato in cui ha la sede statutaria, sia riconosciuta di pieno diritto negli altri stati parti. I requisiti perché una OING benefici di questo trattamento sono: avere uno scopo non lucrativo appunto “di utilità internazionale”; essere stata creata con un valido atto di diritto interno di uno stato parte; esercitare attività effettive in almeno due stati parti; avere sia la sede statutaria sia la sede reale in paesi parti della Convenzione[10].
La Convenzione europea costituisce la prima breccia nel muro dell’interstatualismo giuridico: l’utilizzazione di tale breccia come interstizio entro il quale realizzare uno status di più ampio spessore è evidentemente collegata allo sviluppo della cultura politica delle OING.
Giova ulteriormente ricordare che, attorno al sistema della Convenzione di Lomé tra i paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) e i paesi CEE, vi sono oltre 600 ONG per la cooperazione allo sviluppo che cogestiscono, insieme ai competenti organi comunitari, la realizzazione di progetti di sviluppo economico e sociale a vantaggio delle popolazioni più povere del Sud del mondo. Un importante segnale di apertura nei confroni delle OING è venuto anche dalla Conferenza sulla dimensione umana della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, CSCE, riunitasi a Copenaghen nel giugno 1990, con l’autorizzazione a partecipare “consultivamente” ai lavori della stessa CSCE[11]. Le OING sono pertanto anche formalmente sollecitate ad intervenire progettualmente nella costruzione delle nuove istituzioni dell’Europa casa comune.
2. L’azione politica del movimento per la pace contro la guerra del Golfo
Prima di procedere oltre nell’esplorazione della nuova cultura politica dell’associazionismo di promozione umana, ritengo utile richiamare alla memoria taluni “episodi” emblematici del modo di agire dei soggetti nongovernativi. Abbiamo scelto tali episodi all’interno di un campionario fittissimo di iniziative contro la guerra del Golfo che si collocano a cavallo tra il 1990 e il 1991. Inizio con l’Associazione per la pace che, fin dai primi mesi del 1990 era impegnata nella complessa organizzazione della marcia per la pace Perugia-Assisi, che può senz’altro essere considerata l’appuntamento più significativo e più partecipato dei costruttori di pace. Temi centrali della marcia avrebbero dovuto essere quelli del rapporto tra il Nord e il Sud del mondo e dei diritti-bisogni dei giovani terzomondiali immigrati nei paesi europei. L’occupazione del Kuwait da parte dell’esercito irakeno e l’immediata risposta militare degli USA, con l’invio in Arabia Saudita di una impressionante quantità di forze aeree, navali e terrestri hanno trasformato la marcia Perugia-Assisi nella prima grande mobilitazione internazionale contro la guerra del Golfo. Così, il 7 ottobre 1990 oltre diecimila persone provenienti da ogni parte del mondo hanno chiesto una soluzione politica e quindi negoziata del conflitto in atto, attraverso la convocazione, sotto l’autorità dell’ONU, di una Conferenza internazionale di pace sul Medio Oriente. Tra i costruttori di pace di ogni età, colore, sesso, religione in cammino verso Assisi, tanti vigili urbani che, con grande fatica, hanno tenuto alto il Gonfalone del proprio Comune, inerpicandosi fin sulla Rocca di Assisi. Questa presenza è la testimonianza di come oggi le istituzioni territoriali locali si sforzino di interiorizzare genuini valori umani, quali la nonviolenza e la pace positiva, e di essere quindi in sintonia con le strutture più creative della società civile.
La marcia Perugia-Assisi del 1990 segna, nel nostro paese, l’inizio di una nuova capillare mobilitazione popolare contro l’uso della violenza per la soluzione delle controversie internazionali e, contingentemente, contro il pericolo di una guerra di cui non si potevano prevedere dimensioni e capacità distruttive. Tale mobilitazione sarebbe andata crescendo nelle settimane successive. Nel frattempo, un gruppo di circa cento volontari nonviolenti, provenienti soprattutto dai paesi europei e dagli Stati Uniti, avevano già raggiunto Bagdad con l’intenzione di allestire un “campo di pace”. Numerosi erano anche i volontari italiani che, come ci racconta Alberto L’Abate in altra parte di questo fascicolo della Rivista, si fermarono a Bagdad dal 12 ottobre 1990 al 20 gennaio 1991. Il gruppo, denominatosi “Volontari di pace in Medio Oriente”, aveva come obiettivo strategico quello di dare vita ad un corpo internazionale di pace non armato e nonviolento che, sotto l’egida dell’ONU, avrebbe dovuto sostituire le forze di occupazione irakene e favorire il graduale avvio di trattative diplomatiche per una soluzione pacifica del conflitto. Ci fu chi, in Italia, si incaricò di inviare via fax al dott. Giandomenico Picco, uno dei più stretti collaboratori del Segretario generale delle Nazioni Unite, il progetto dei Volontari di pace presenti a Bagdad e ad Amman, perché lo sottoponesse all’attenzione del Segretario generale. Purtroppo, il corso degli eventi stava già andando verso la guerra e l’iniziativa non ha avuto seguito. I Volontari di pace erano riusciti ad instaurare un canale diretto di comunicazione con il Ministro degli esteri aggiunto del governo irakeno e con il Presidente dell’OLP Arafat. Furono in particolare questi due uomini politici gli interlocutori privilegiati durante tutta la permanenza a Bagdad e fu con loro che ebbe inizio la trattativa per la liberazione di tutti gli ostaggi. È in questa fase della “crisi del Golfo” che tre associazioni italiane – l’Associazione per la pace, le Acli e l’Arci – inviano una loro delegazione a Bagdad per trattare direttamente con il governo irakeno la liberazione degli ostaggi italiani. Com’è noto, i risultati di questa missione di pace furono positivi: rientrarono in Italia insieme alla “people delegation” oltre 70 ostaggi.
Questa azione di diplomazia popolare assume un forte rilievo politico per due ragioni fondamentali: primo perché ha segnato un momento di rottura – non importa se soltanto iniziale, ma certamente esemplare – del monopolio statualistico nella gestione della crisi del Golfo Persico, e secondo perché ha significato riconoscimento di fatto della soggettività irenica, in quanto soggettività politica, di soggetti diversi dagli stati.
Le associazioni hanno dimostrato di saper fare diplomazia, cioè di possedere gli strumenti cognitivi e le capacità di mediazione indispensabili per avviare e portare a termine un processo diplomatico. Con ogni probabilità se, sull’onda del successo dell’iniziativa – rimbalzata, tra l’altro, inspiegabilmente su dei mass-media che erano diventati veri e propri strumenti di propaganda di guerra – la delegazione di “società civile” si fosse recata al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite per chiedere al Segretario generale di perseguire con tenacia la strada dell’embargo, di inviare delle forze di interposizione non armate e, allo stesso tempo, di fare applicare l’art. 43 ss. della Carta, l’iniziativa di diplomazia popolare avrebbe potuto influenzare il comportamento del principale soggetto collettivo della crisi del Golfo, l’ONU appunto. Questa azione di pace ebbe tra l’altro un importante riconoscimento ufficiale in una mozione adottata il 14 dicembre 1990 dal Comitato permanente per la pace della Regione Veneto – istituito con l.r. 18/1988 per la promozione di una cultura di pace –, nella quale il Comitato “esprime vivo apprezzamento e gratitudine alle associazioni che hanno già svolto e tuttora svolgono significative missioni di pace”[12].
Dal canto suo, il Consiglio di sicurezza dell’ONU che, con impensabile tempestività, fin dal 2 agosto, aveva assunto direttamente l’iniziativa per il ristabilimento della pace nell’area del Golfo Persico – togliendo così agli Stati la possibilità di intervenire ai sensi dell’art. 51 della Carta – con l’adozione della Risoluzione 678, quella dell’ultimatum, disattendeva lo spirito e la lettera della Carta e apriva la strada a una soluzione guerreggiata del conflitto.
In Italia cresce la mobilitazione popolare. L’Associazione per la pace promuove a Roma per il 12 gennaio, la manifestazione nazionale “L’Italia ripudia la guerra”, con la quale la società civile fa sapere al Parlamento italiano – che alcuni giorni dopo avrebbe discusso e approvato la partecipazione italiana al conflitto – la sua contrarietà sia al coinvolgimento delle forze armate italiane sia all’uso della forza bellica per costringere Saddam Hussein a ritirare le sue truppe.
Contro la guerra scendono in campo anche gli enti territoriali regionali e locali. La Regione Veneto il 15 gennaio trasmette alle più alte cariche dello Stato un appello, che poi farà pubblicare nei principali quotidiani nazionali, nel quale, tra l’altro, ribadisce il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e chiede di convocare sotto l’autorità dell’ONU la Conferenza di pace sul Medio Oriente. Nello stesso giorno, il Comitato permanente per la pace della stessa Regione adotta all’unanimità un documento nel quale si reputa necessario e urgente che “nelle scuole, nelle università e negli ambienti di lavoro vengano enunciati i contenuti del diritto alla pace; le associazioni, i gruppi e le chiese invitino le persone a condannare l’uso dello strumento della guerra nei rapporti tra gli stati; le associazioni, gli Enti territoriali, le istituzioni culturali di ricerca partecipino attivamente alla costruzione di strutture di governo mondiale genuinamente democratiche, idonee ad assicurare il rispetto dei diritti umani; il ripristino della legalità nel Kuwait avvenga mediante l’intervento delle Nazioni Unite, nel rispetto dei principi, dei metodi e delle procedure previste dalla Carta istitutiva”.
Il 17 gennaio, giorno di inizio delle operazioni belliche nel Golfo, un gruppo di intellettuali e uomini di chiesa lanciano da Padova un appello con il titolo “Le ragioni dell’obiezione di coscienza”, e firmano una Dichiarazione di obiezione di coscienza “totale” all’uso della violenza per la soluzione delle controversie internazionali e alle spese militari e di non collaborazione con quelle istituzioni e persone che ricorrono all’uso della forza per la soluzione dei conflitti tra stati. L’iniziativa, nei giorni immediatamente successivi, assume una dimensione popolare: le reti di iniziative contro la guerra, sorte in tutte le città italiane, ne promuovono un’ampia diffusione. Sono migliaia le dichiarazioni di obiezione di coscienza che, in quei drammatici giorni, vengono consegnate ai Prefetti di varie città. L’Agenzia di stampa cattolica “Adista” pubblica l’appello insieme alla Dichiarazione di obiezione di coscienza e diventa il punto di raccolta nazionale di tutte le adesioni. Tra queste si segnala quella della V. Presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, Augusta De Piero Barbina, e di alcune deputate della stessa regione: la stampa locale parla di “obiezione di coscienza in rosa”.
Alla Legge regionale del Veneto per la promozione di una cultura di pace, prima citata, fanno esplicito riferimento i numerosi ordini del giorno che vengono approvati da Consigli comunali e provinciali un po’ ovunque nella Regione. I più significativi sono quelli adottati dai Consigli comunali di Ponte San Nicolò, Vigonza, Arre. Tre piccoli Comuni della provincia di Padova che, sollecitati dai giovani dell’Azione Cattolica, dagli Scout, da altre associazioni pacifiste e da singoli costruttori di pace, e in coerenza con l’art. 11 della Costituzione italiana e l’art. 1 della l.r. 18/1988, si dichiarano “Comune non-belligerante che ripudia la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali” e si impegnano ad aderire “alle iniziative che facciano prevalere il diritto dei popoli alla pace”. I tre Comuni, insieme con il Centro di studi e di formazione sui diritti dell’uomo e dei popoli, promuovono quindi un’iniziativa di alto valore educativo intitolata “Le strade della pace”, durante la quale un gruppo di podisti di fama nazionale attraversa i tre paesi, accendendo nelle rispettive piazze centrali una torcia e consegnando agli alunni delle scuole, perché a loro volta lo diffondessero, un messaggio di pace. La marcia si conclude nella piazza antistante la Provincia di Padova e qui i podisti consegnano il messaggio di pace al Sindaco di Padova, al Presidente della Provincia, all’Assessore provinciale alla Cultura, all’Arcivescovo di Padova: il discorso di Mons. Antonio Mattiazzo suggella il successo di una manifestazione autenticamente popolare.
Sempre nel Veneto, in coerenza con la l.r. 18/1988 che, tra l’altro, dichiara tale regione “terra di pace”, il movimento “Beati i costruttori di pace” invita la gente a partecipare ad “Arena Golfo”, un incontro straordinario organizzato all’Arena di Verona il 27 gennaio 1991 per chiedere l’immediato cessate-il-fuoco, condannare la violazione della Carta dell’ONU e del diritto internazionale dei diritti umani perpetrata da tutte le parti coinvolte nel conflitto, progettare una adeguata partecipazione politica popolare alle prese di decisione nell’ambito degli organismi delle Nazioni Unite. L’Arena è animata da oltre diecimila persone. Questa volta, i Beati i costruttori di pace, punta avanzata del pacifismo cattolico, non sono soli. Dal mondo cattolico di base, che recepisce le parole del Papa come un invito all’impegno quotidiano per la promozione della cultura della pace e dei diritti umani, sale una forte e unitaria protesta contro la guerra.
La stessa Azione Cattolica Italiana il 20 gennaio 1991 emette un comunicato nel quale esprime “profonda gratitudine” a Giovanni Paolo II e, riprendendo le Sue parole, afferma che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere i conflitti tra stati e costituisce una grave sconfitta del diritto internazionale. Nel comunicato si auspica inoltre “una nuova configurazione e strutturazione dell’ONU che la renda in grado di esercitare un efficace governo della comunità dei popoli e una capacità di prevenire e risolvere i conflitti tra le nazioni attraverso la diplomazia e il dialogo e mai più attraverso la guerra”.
A livello nazionale, un gruppo di associazioni cattoliche (tra le quali Azione Cattolica, Fuci, Acli) avevano in precedenza costituito una sorta di consiglio di emergenza per seguire costantemente l’evoluzione del conflitto e adottare, in tempi rapidi, le opportune prese di posizione comuni.
Molto chiari sono stati anche gli interventi contro la guerra del Golfo dei Vescovi delle quindici diocesi della regione ecclesiale del Nord-Est, pubblicati integralmente in un volumetto curato dal Collegamento degli obiettori Caritas del Nord-Est[13]. Si tratta di un testo fondamentale per capire il ruolo che ha svolto la Chiesa, in uno dei momenti più bui della nostra democrazia, nel condannare in via generale l’uso della violenza e nel diffondere tra i suoi fedeli la consapevolezza e la pratica della cultura di pace.
Il richiamo puntuale alle norme della Carta dell’ONU e alla Risoluzione 678 del Consiglio di sicurezza è contenuto nella “Dichiarazione sulla guerra del Golfo” adottata dal Consiglio direttivo della Fondazione internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli. In essa viene messa in discussione la legittimità della Risoluzione 678 con la quale il Consiglio di sicurezza ha delegato agli stati membri dell’Organizzazione il compito di ristabilire “con qualsiasi mezzo” l’ordine internazionale violato. La tesi sostenuta dalla Fondazione è che, in base all’art. 42 della Carta, il Consiglio di sicurezza non può delegare ma deve gestire direttamente le misure coercitive – con l’uso del militare – previste del capitolo VII per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La Fondazione si rivolge quindi ai governi, alle organizzazioni intergovernative e alle organizzazioni nongovernative perché sollecitino: a) un parere consultivo della Corte internazionale di giustizia sulla conformità della guerra, intrapresa contro l’Irak, alle norme del diritto internazionale; b) una riunione immediata del Consiglio di sicurezza che dia una interpretazione della Risoluzione 678 in coerenza con la lettera e lo spirito della Carta, e che affronti gli altri problemi della Regione (Palestina, Libano, Kurdi, ecc.).
La vicenda relativa alla guerra del Golfo è entrata anche nel mondo della scuola. Il Provveditore agli Studi di Padova, all’indomani dello scoppio della guerra, ha inviato alle scuole di ogni ordine e grado un messaggio di pace nel quale, tra l’altro, “esprime la solidarietà della scuola padovana con tutti coloro che nel paese sperano e lottano perché la pace sia ripristinata e conservata” e invita gli insegnanti a promuovere “l’educazione alla pace e al ripudio di ogni forma di sopraffazione e violenza”. Numerosi insegnanti e alunni, raccogliendo l’invito del Provveditore, hanno attivato gruppi di lavoro, organizzato assemblee, elaborato appelli e documenti. In questo numero della Rivista ne pubblichiamo alcuni che, quanto a contenuto, ci sembrano particolarmente indicativi del livello culturale raggiunto nel Veneto dal mondo della scuola in materia di pace e di diritti umani.
In sede nazionale, un altro indicatore significativo dell’ampia e capillare mobilitazione di dissenso nei confronti delle decisioni assunte dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, dal Governo e dal Parlamento italiano, è costituito dalla presa di posizione di un folto gruppo di giuristi, costituitisi nel “Comitato di iniziativa giuridica contro la guerra”. Il Comitato pubblica un primo appello intitolato “Contro la guerra le ragioni del diritto” ne “Il Manifesto” del 26 gennaio 1991. In esso si sostiene sia l’illegittimità della Risoluzione 678 del Consiglio di sicurezza, in quanto viola lo spirito e la lettera del Preambolo della Carta dell’ONU, degli artt. 1 e 2, nonché dell’intero capitolo VII, sia l’illegittimità della Risoluzione del Parlamento italiano del 16 gennaio 1991, in quanto contraria al dettato dell’art. 11 della Costituzione. Nell’appello si chiede, tra l’altro, la convocazione urgente del Consiglio di sicurezza per ordinare la immediata cessazione del fuoco, il ripristino della legalità costituzionale ritirando l’Italia dalla guerra e la convocazione di una Conferenza di pace sul Medio Oriente.
Il secondo appello del Comitato, intitolato “Ricordi la guerra?” viene pubblicato ne “Il Manifesto” all’indomani della cessazione delle ostilità. L’appello contiene una forte denuncia delle distruzioni provocate dall’uso massiccio e smisurato di armi convenzionali e di armi il cui uso è vietato dalle Convenzioni di Ginevra, nonché l’invito a tutti coloro che credono nei valori della pace e dei diritti umani a promuovere l’allestimento di un nuovo ordine internazionale “fondato su un rinnovato ripudio della guerra e sulle garanzie dei diritti degli uomini anche contro i loro stati”.
Comitati di giuristi contro la guerra e per la difesa dei diritti umani sorgono, in collegamento con il Comitato nazionale, in diverse città italiane. Tra i più attivi si segnalano quelli di Padova, Milano e Napoli. Il Comitato di Padova elabora, tra l’altro, un vademecum, contenente le norme sull’obiezione di coscienza e quelle del Codice penale militare di pace e del Codice penale militare di guerra, al fine di dare a tutti i giovani in chiamata una precisa informazione circa le norme che potevano venire applicate qualora avessero scelto di praticare l’obiezione di coscienza.
Si segnalano infine, sul piano internazionale, alcune prese di posizione di organizzazioni internazionali nongovernative e di leaders carismatici. I rappresentanti di circa 20 OING con status consultivo presso il Consiglio economico e sociale (Ecosoc) delle Nazioni Unite presentano il 5 febbraio 1991 un “Appello per l’immediato aiuto alle vittime civili della guerra del Medio Oriente”. Nell’appello si chiede, tra l’altro, il rispetto delle norme del diritto umanitario, il pieno appoggio al Comitato Internazionale della Croce Rossa e alle Agenzie specializzate delle Nazioni Unite, il cessate il fuoco immediato senza precondizioni, il rispetto dei principi di pace e giustizia. L’appello viene inviato al Segretario generale delle Nazioni Unite, al Presidente del Consiglio di sicurezza, al Presidente dell’Assemblea generale e a tutti gli stati membri dell’ONU.
Un’altra iniziativa di rilievo internazionale si svolge a Ginevra il 26 gennaio 1991, allorquando oltre 4.000 persone sfilano dal “Palais des Nations” all’Università dove si riuniscono per dare vita ad una nuova struttura permanente di società civile denominata “Forum internazionale ONU dei popoli”. Nella sua prima risoluzione, il Forum chiede le dimissioni del Segretario generale dell’ONU e la convocazione urgente dell’Assemblea generale perché fermi la guerra del Golfo e dichiari illegale la Risoluzione 678 del Consiglio di sicurezza.
Altrettanto significativa la presa di posizione di un gruppo di donne della Comunità europea, firmatarie di una lettera-appello promossa da Andrée Michel, direttrice onoraria del Cnrs francese, nella quale si chiede “la convocazione immediata di una conferenza degli Stati d’Europa e del Medio Oriente in cui gli uomini e le donne siano ugualmente rappresentati, e l’indizione simultanea di un Forum di cittadini e di cittadine di tutti i paesi europei e del Medio Oriente”. La lettera-appello viene presentata in Italia dalla stessa promotrice durante un seminario tenuto presso la Facoltà di Scienze politiche della Università di Padova.
Da ultimo voglio ricordare l’accorato appello che l’Abbé Pierre, il carismatico fondatore delle Comunità Emmaus, invia a Bush e a Saddam Hussein e nel quale, parlando a nome di tutti poveri del mondo, li scongiura di trovare un accordo, chiede loro di dire la verità “circa il costo umano e materiale non solo della guerra del Golfo, ma di tutte le guerre già combattute in passato” e ancora domanda loro: “Ma dove viene preso tutto questo denaro che occorre per la guerra, quando tutti i politici in ogni parte del mondo ripetono che per l’unica vera indispensabile guerra alla miseria i soldi non ci sono?”.
3. Caratteri della nuova identità politica del movimento per la pace: specificità, progettualità, senso di legittimità giuridica
Alla luce di questa pur rapida rassegna di iniziative pacifiste, che, ripeto, costituiscono evidenza empirica dell’esistenza e della crescita dell’associazionismo locale, nazionale e internazionale che opera a fini di promozione umana, mi ripropongo ora di svolgere ulteriori considerazioni sui modi con cui tale associazionismo asserisce ed esercita, implicitamente ed esplicitamente, la sua soggettualità politica.
Questo associazionismo presenta evidenti caratteri di specificità quanto a contenuti della sua domanda politica, di progettualità quanto a capacità di collocare questa domanda all’interno di più ampie strategie d’azione, di senso della legittimità giuridica nel rapportarsi con le istituzioni, oltre che con gli stessi appartenenti al mondo dell’associazionismo.
3.1. Specificità
La domanda politica dell’associazionismo non si limita a una generica denuncia e neppure a una generica richiesta di disarmo e di nonviolenza. La nonviolenza è sempre più chiaramente percepita come valore fondamentale, la cui declinazione in termini operativi viene fatta dalle stesse associazioni e non più lasciata a presunta buona volontà delle istituzioni.
La specificità attiene sia ai contenuti sia ai destinatari della medesima.
i) Contenuti. I contenuti che più frequentemente ricorrono nei documenti delle associazioni, sempre con riferimento alla guerra del Golfo, possono essere così sintetizzati: indizione di una conferenza internazionale di pace per il Medio Oriente sotto la diretta autorità dell’ONU; creazione di una forza di interposizione permanente delle Nazioni Unite (caschi blu); sostegno allo strumento dell’embargo; sostegno alle iniziative diplomatiche; creazione di una autorità sopranazionale (non multinazionale) per il mantenimento dell’ordine pubblico internazionale e per l’elaborazione di politiche sociali internazionali; progettazione di strutture di governo mondiale democratico; promozione del rispetto dei diritti delle persone e dei popoli; diffusione della pratica delle obiezioni di coscienza al servizio militare, alle spese militari, alla ricerca sul militare; non professionalizzazione dell’esercito; elaborazione di un codice di condotta per tutti gli operatori dei mass-media al fine di garantire una informazione obiettiva e moralmente accettabile; riconoscimento di uno status di co-decisionalità alle organizzazioni internazionali nongovernative che attualmente hanno lo status consultivo presso talune organizzazioni intergovernative; abolizione del potere di veto, quanto meno, in attesa di una più ampia e organica revisione della Carta dell’ONU, per le materie che riguardano i diritti umani; creazione di una forza nonarmata e nonviolenta delle Nazioni Unite, costituita da volontari di pace e obiettori di coscienza, secondo un progetto presentato da Ramsahai Purhoit al Segretario generale delle Nazioni Unite; dimissioni del Segretario generale delle Nazioni Unite, Perez De Cuellar, il quale non ha saputo svolgere quella funzione di garante della Carta dell’ONU di cui era il massimo responsabile, consentendo ad alcuni stati membri di strumentalizzare a fini bellici l’Organizzazione e screditandola così di fronte all’opinione pubblica mondiale; convocazione di una sessione speciale dell’Assemblea generale dell’ONU per aprire il negoziato globale Nord-Sud che dovrebbe porre le basi di un nuovo ordine economico internazionale; adozione di una convenzione internazionale per il controllo e la limitazione del commercio di armi; adozione di una legislazione sia nazionale che internazionale per avviare un processo definitivo di riconversione dell’industria bellica; adozione di una normativa specifica per la promozione e la diffusione della cultura della pace e dei diritti umani, così come sta avvenendo in talune regioni italiane (emblematica la l.r. del Veneto per la promozione di una cultura di pace); partecipazione delle organizzazioni nongovernative con status consultivo all’ECOSOC alla elezione del nuovo Segretario generale delle Nazioni Unite, il cui identikit dovrebbe corrispondere alla esemplare figura di Dag Hammarskjold, non dimenticato Segretario generale degli anni cinquanta.
ii) Soggetti destinatari della domanda politica. Va diffondendosi nell’associazionismo la consapevolezza della necessità di individuare i giusti destinatari delle domande, distinguendo – con una precisione prima d’ora sconosciuta – tra istituzioni locali, nazionali e internazionali. Mentre nel passato, essendo prevalente una domanda politica di disarmo, le istituzioni internazionali di riferimento erano soprattutto le alleanze militari, oggi il ventaglio si è ampliato e ricomprende innanzitutto l’ONU, la CSCE, la CEE, il Consiglio d’Europa, naturalmente ancora la Nato. Il riferimento all’ONU ricorre praticamente in tutti i documenti, anche in quelli elaborati da associazioni con un raggio d’azione locale.
Per una tipologia dei destinatari internazionali della nuova domanda politica del pacifismo si segnala il documento elaborato da un gruppo di organizzazioni internazionali nongovernative con status consultivo all’ECOSOC e che si indirizza espressamente al Segretario generale delle Nazioni Unite, al Presidente del Consiglio di sicurezza, al Presidente dell’Assemblea generale, a tutti gli stati membri dell’ONU.
L’ONU è al centro delle attenzioni non soltanto a titolo di riprovazione nei confronti del Consiglio di sicurezza per il fatto di avere disatteso la Carta, ma anche a titolo di progettazione di un nuovo ordine internazionale democratico. In questo senso la cultura del pacifismo sta diventando una cultura realistica, in quanto vede nell’ONU, malgrado la strumentalizzazione che ne fanno gli stati, l’embrione naturale di governo mondiale democratico.
A livello locale, un documento che si segnala per la sua specificità è quello elaborato dall’Istituto Commerciale e per Geometri di Monselice , che si indirizza nominativamente a: Presidente della Camera dei Deputati, Presidente del Senato della Repubblica, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro degli Esteri, Ministro della Pubblica Istruzione, Presidente della Regione Veneto, Presidenti delle Province del Veneto, Sindaci, Presidente del Consiglio di Amministrazione della RAI, Presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi.
3.2. Progettualità
La propensione alla progettualità sta maggiormente segnando l’identità politica ovvero la nuova identità, del movimento pacifista e dell’associazionismo di promozione umana più in generale.
L’intento progettuale dell’associazionismo si manifesta sia nei confronti del mondo delle istituzioni, per adattarle o trasformarle, sia in termini di autogestionalità, cioè di allestimento di strutture autonome di società civile. Sotto il secondo profilo, l’iniziativa più forte è quella dell’Assemblea dei Cittadini di Helsinki, ovvero della struttura voluta da centinaia di associazioni di tutta Europa quale espressione indipendente di european civil society[14].
Questa progettualità delle associazioni tende ad avere caratteri di strategicità, nel senso che le associazioni collocano le varie iniziative all’interno di un unico grande disegno di trasformazione del sistema delle relazioni internazionali da statocentrico a democratico. L’istanza democratica è la nota dominante dell’identità progettuale delle associazioni. Queste vogliono democrazia all’interno degli stati, nei rapporti fra stati, nel funzionamento dell’ONU, della CSCE, della CEE, ecc.
L’assunto da cui parte questa progettualità è che il sistema delle relazioni internazionali non può essere monopolizzato dagli stati, perché esistono realmente interessi, valori e strutture organizzate che sono genuinamente popolari. Le associazioni vogliono che le istituzioni internazionali tengano conto di questa realtà cosi come avviene o deve avvenire all’interno dei singoli stati. Il punto centrale su cui si articola la progettualità internazionale è la democratizzazione dell’ONU, che concretamente significa: abolizione del potere di veto, creazione di una Seconda Assemblea generale in rappresentanza dei popoli (per la quale si è già costituito un cartello di oltre cento OING, denominato “International Network for a United Nations Second Assembly”, INFUSA), designazione popolare del Segretario generale, trasformazione degli organi interstatuali (Assemblea generale, Consiglio economico e sociale, Commissione dei diritti dell’uomo e altri ancora) in organi sopranazionali per lo meno quanto a struttura (piena indipendenza e autonomia dei membri dai rispettivi paesi di appartenenza). Altri importanti obiettivi sono l’avvio di un negoziato globale Nord-Sud per l’allestimento di un nuovo ordine economico internazionale e il riconoscimento dello status internazionale dell’obiettore di coscienza attraverso l’adozione di una convenzione internazionale, nella quale si riconosca l’obiezione di coscienza come diritto umano fondamentale. Per quanto riguarda gli obiettivi della progettualità con riferimento al sistema politico italiano, si segnalano: la proposta di legge di iniziativa popolare “Norme di attuazione dell’art. 11 della Costituzione”, che il Comitato di iniziativa giuridica contro la guerra sta predisponendo; le proposte del “Comitato Nord-Sud un solo futuro” per la democratizzazione della politica estera e della politica di difesa. Questo Comitato ha già pubblicato un primo rapporto “Percorsi di guerra, scelte di pace: i parlamentari italiani davanti al dramma del Golfo”, contenente dettagliate schede sui comportamenti di voto dei deputati e dei senatori in relazione alla partecipazione dell’Italia alla guerra del Golfo. Più di recente, si segnalano le molteplici iniziative popolari che si vanno diffondendo in tutte le Regioni italiane affinché i Consigli regionali adottino una legge per la promozione di una cultura di pace, sull’esempio della Regione Friuli-Venezia Giulia, della Provincia Autonoma di Trento e soprattutto della Regione del Veneto, la cui legge del 1988 è universalmente riconosciuta come la più organica e avanzata in materia. È in atto anche la mobilitazione di associazioni e movimenti intesa a far inserire nei nuovi statuti, che comuni e province stanno in questi mesi adottando in base alla legge 142 sulle autonomie locali, un articolo il cui testo che sta circolando con maggiore insistenza è così formulato: “Il Comune / la Provincia di ... in conformità ai principi costituzionali e alle norme internazionali che riconoscono i diritti innati delle persone umane, sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e promuovono la cooperazione fra i popoli – Carta delle Nazioni Unite, Dichiarazione universale dei diritti umani, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali, Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia – riconosce nella pace un diritto fondamentale delle persone e dei popoli. A tal fine il Comune / la Provincia promuove la cultura della pace e dei diritti umani mediante iniziative culturali e di ricerca, di educazione, di cooperazione e di informazione che tendono a fare del Comune / della Provincia una terra di pace. Il Comune / la Provincia assumerà iniziative dirette e favorirà quelle di istituzioni culturali e scolastiche, associazioni, gruppi di volontariato e di cooperazione internazionale”. L’obiettivo strategico della progettualità delle associazioni, come prima accennato, può riassumersi nella formula: “democrazia dal quartiere all’ONU”. Questo obiettivo è diventato comune, anche se con diverso grado di specificità, alla maggior parte delle associazioni. Sotto questo profilo, si segnalano esemplarmente l’Associazione per la Pace e la Lega obiettori di coscienza, Loc.
L’Associazione per la Pace si presenta con un disegno di interventi che, pur avendo chiaramente i caratteri di una elaborazione in progress, appare come il più ambizioso nel suo tentativo di essere complessivo ed organico, potremmo anche dire sistemico: esso si riferisce infatti, contestualmente, all’ambito nazionale e a quello internazionale della politica. Un momento importante di questa maturazione progettuale è costituito dal Congresso di Perugia (5 e 6 ottobre 1990), dal quale sono scaturiti i documenti più robusti finora prodotti dall’Associazione[15]. L’Associazione afferma in modo esplicito la propria identità di soggetto politico, la quale si qualifica per l’intento di trasformare strutturalmente i processi decisionali di politica estera e il sistema delle istituzioni internazionali. Per gli obiettivi principali, rinvio a quanto richiamato in precedenza. È importante far notare come alla adozione dell’approccio sistemico per l’esercizio della sua progettualità, l’Associazione unisca una intensa attività di relazioni internazionali: l’obiettivo è quello di dare continuità ai suoi rapporti con analoghe strutture di altri paesi e soprattutto di contribuire allo sviluppo di strutture di società civile internazionale come la Helsinki Citizens Assembly (HCA) e la European Nuclear Disarmament Convention, END. Su questo terreno, si segnalano le recenti iniziative miranti a costituire l’Assemblea dei cittadini del Mediterraneo e il Forum dei cittadini di Alpe Adria: il modello è evidentemente quello della HCA. Queste attività sono da considerarsi il naturale sviluppo di iniziative organizzate in precedenza, quali la stipula dell’Accordo internazionale nongovernativo per il disarmo tra i popoli di Italia, Ungheria e Spagna[16] e l’imponente mobilitazione transnazionale di pacifisti realizzata “sul posto” a Gerusalemme alla fine del 1989 all’insegna di “1990: Time for Peace”.
Dal canto suo, la Lega obiettori di coscienza, a conclusione di un lungo percorso di mobilitazione collegato alle vicende parlamentari per la riforma della Legge 772/72, nel Congresso nazionale di Bologna del 31 maggio-2 giugno 1991, ha adottato un documento di intenti che costituisce un lucido e circostanziato manifesto politico per un nuovo ordine internazionale democratico. In esso, c’è il riferimento puntuale ai problemi della sicurezza internazionale e al ruolo che deve svolgere, in prima persona, una ONU democratizzata. La proposta di una forza nonarmata e nonviolenta per la soluzione dei conflitti è, con sicura intelligenza politica, collegata a quella della internazionalizzazione dello status degli obiettori di coscienza, assunti quali costruttori di pace “dal quartiere all’ONU”.
3.3. Senso della legittimità giuridica
Per senso della legittimità giuridica intendo la interiorizzazione di quelle norme giuridiche che traducono in diritti e obblighi il principio di pace positiva, quale esplicitato dall’art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il movimento pacifista ha scoperto il diritto internazionale dei diritti umani e ne sta facendo la base della legittimazione sia dei propri comportamenti sia di quelli delle istituzioni nazionali e internazionali. Anche questo è un dato nuovo, che obbliga a rivedere gran parte dei giudizi di denuncismo disfattista, aprioristicamente espressi nei confronti del movimento. Alla luce di questa nuova “sorprendente” realtà possiamo oggi definire il pacifismo come movimento legittimista, che esige l’applicazione di quelle precise norme giuridiche che gli stessi stati hanno posto in essere ma che resistono ad applicare. E un movimento che chiede l’avveramento di forme politiche riconducibili a quelle dello “stato di diritto” sia all’interno degli stati sia nei rapporti internazionali.
Alle istituzioni italiane in particolare, l’associazionismo pacifista chiede di rispettare la Costituzione e di farsi parte attiva per l’applicazione delle norme internazionali contenute nella Carta delle Nazioni Unite e nelle convenzioni sui diritti umani. Nelle prese di posizione delle associazioni, i riferimenti normativi sono puntuali: per esempio, artt. 11, 2 e 3 della Costituzione; artt. 1, 2, 33, 39, 40, 41, 42 della Carta delle Nazioni Unite; art. 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (è quello che vieta qualsiasi propaganda a favore della guerra); ecc. Una parte del movimento giunge perfino a chiedere l’applicazione dell’art. 43 dello statuto dell’ONU, relativo all’obbligo giuridico che hanno gli stati di mettere a disposizione del Consiglio di sicurezza, una volta per tutte, una parte dei rispettivi eserciti: l’obiettivo è evidentemente quello di dar forza ad una autorità sopranazionale, in grado di gestire – con l’uso del militare, a fini non di guerra – un sistema di sicurezza mondiale.
La principale spiegazione della interiorizzazione della norma giuridica internazionale sui diritti umani da parte dell’associazionismo deve ricercarsi nella avvenuta scelta della deontologia della nonviolenza e della democrazia che percorre l’intero movimento.
Il senso della legittimazione giuridica rafforza evidentemente la dimensione della progettualità e qualifica senz’altro il movimento come soggetto costituente di nuovo ordine internazionale democratico.
4. Conclusioni
A conclusione di un’analisi che richiederebbe ben più ampia estensione e che mi ripropongo di sviluppare in altra sede, dovrebbe apparire con sufficiente chiarezza che l’identità del movimento pacifista ha connotazioni diverse da quelle teorizzate negli anni passati dai pochi studiosi attenti alla materia[17]. Questi sostenevano la natura a-politica del movimento e la sua carenza di progettualità finalizzata ai mutamenti strutturali. In particolare ne enfatizzavano la monotematicità (disarmo, no ai missili, ecc.). Oggi, l’evidenza empirica dimostra che il movimento ha la struttura del soggetto politico che pensa, agisce, si sforza di educare, raccoglie le sfide del mutamento, è consapevole della sua trasversalità rispetto alla società civile ma anche alle istituzioni, tende a coincidere con l’intero campo dell’associazionismo operante a fini di promozione umana, si fa assertore del nuovo diritto internazionale dei diritti umani e di tutte le altre norme giuridiche che ne esplicitano e ne declinano i contenuti in sede locale, regionale, nazionale e internazionale. Naturalmente, la rapidità degli sviluppi di questa nuova identità – specifica, progettuale, legittimista – dipenderà anche dalla capacità del movimento di esprimere un proprio ceto politico definitivamente sganciato da vecchi stereotipi ideologici e “denuncisti”. E dato ipotizzare che la creazione di nuova leadership sarà incentivata dalle nuove forme di “solidarietà trasversale” che si sono create tra le varie sub-aree dell’associazionismo e dalla diffusa consapevolezza che fare “network” giova all’efficacia dell’azione pacifista complessiva, in quanto risorsa di potere. Network power insieme con idea power, value power, project power sono le risorse dell’associazionismo nonviolento come soggetto politico.
[1] Di “utilità internazionale” parla la Convenzione europea sul riconoscimento della personalità giuridica delle organizzazioni internazionali nongovernative; per il testo, v. “Transnational Associations”, n. 3, 1986.
[2] In argomento mi permetto di rinviare al mio libro L’associazionismo internazionale di promozione umana. Contributo all’analisi dei nuovi attori della politica internazionale, Padova, Cedam, 1991.
[3] In argomento v. E. Vitta e V. Grementieri, Codice degli Atti internazionali sui diritti dell’uomo, Milano, Giuffré, 1981; A. Papisca, Pace e ordine internazionale, in F. Casavola e G. Salvatori (eds.), La politica “educata”. Per la formazione della coscienza civile in Italia, Roma, A.V.E., 1989, pp. 231-264; Idem, L’impegno per la promozione e la tutela dei diritti umani: fonti normative, contenuti e strumenti, in AA.VV., Valori e diritti umani, Padova, Gregoriana, 1990, pp. 15-66; AA.W., I diritti umani a 40 anni dalla Dichiarazione Universale, Padova, Cedam, 1989.
[4] Cfr. A. Papisca, Democrazia internazionale, via di pace. Per un nuovo ordine internazionale democratico, Milano, Angeli, 1991 (4a ed.).
[5] Sui processi di mutamento in atto nel sistema delle relazioni internazionali, v. A. Papisca e M. Mascia, Le relazioni internazionali nell’era dell’interdipendenza e dei diritti umani, Padova, Cedam, 1991, in particolare il cap. VII.
[6] Cfr. “Transnatìonal Associations”, n. 2, 1990, p. 74 ss., integralmente dedicato alle prese di posizione delle ONG in rapporto alla Banca Mondiale.
[7] V., al riguardo, Tribunale permanente dei Popoli: sentenza sulle politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, III, 1, 1989, pp. 135-156.
[8] Per una utilizzazione dei concetti eastoniani di “regime” e “strutture d’autorità” nell’analisi del sistema della politica internazionale, v. A. Papisca e M. Mascia, op. cit., in particolare il cap: III.
[9] Sul regime di status consultivo presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, v. Chiang Pei-heng, Nongovernmental Organizations at the United Nations, New York, Praeger, 1981.
[10] Per un primo commento alla Convenzione, v. M. Merle, L’enjeu du débat et laportée d’une Con-vention regionale, in “Transnational Associations”, n. 3, 1986, p. 137.
[11] II documento finale della riunione di Copenaghen, insieme con la Dichiarazione del Presidente “Sull’accesso delle organizzazioni nongovernative e dei mezzi di informazione alle riunioni della Conferenza sulla dimensione umana”, sono pubblicati in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, IV, 1, 1990, pp. 159-171.
[12] Per questo documento e per gli altri che verranno successivamente richiamati, v. i relativi testi nel presente fascicolo della Rivista.
[13] V. I Vescovi del Nord-Est. Interventi sulla guerra delGolfo, a cura del Collegamento obiettori Caritas del Nord-Est, Trento, 1991.
[14] V. M. Mascia, L’associazionismo internazionale a fini di promozione umana. Contributo all’analisi dei nuovi attori della politica internazionale, cit.
[15] I documenti sono pubblicati in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, IV, 1, 1990.
[16] Per il testo dell’Accordo, v. in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, III, 2, 1989, pp. 111-115.
[17] V., per esempio, P. Isernia, Contenuti delle mobilitazioni per la pace degli anni ottanta, in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, I, 3, 1987, pp. 61-71.