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Laicità non è tabula rasa. In margine alla sentenza della Corte europea dei diritti umani

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Il Crocifisso è simbolo di una cultura nel cui seno sono stati elaborati la filosofia organica dei diritti umani e il linguaggio giuridico dei medesimi. Il messaggio che quel Simbolo evoca è di esaltazione del valore supremo della dignità umana, con speciale attenzione per la dignità che è incarnata nei più deboli e bisognosi. Il bambino è assunto da Gesù Cristo quale misura più autentica di dignità umana. La Convenzione del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza consacra il principio del ‘superiore interesse del bambino’. Il Discorso della Montagna (le Beatitudini) può essere utilmente letto in sinossi con la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1998 “sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di proteggere e promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti”, la Magna Charta dei difensori dei diritti umani. Ancora: Francesco d’Assisi, la cui figura è patrimonio immateriale dell’umanità, oltre che messaggero di quel Simbolo, ne fu portatore fisico, nella sua carne. Quello dei diritti umani è umanesimo integrale: Jacques Martitain se ne fece interprete tra i padri e le madri della Dichiarazione Universale nel momento di scrivere i diritti umani come ‘verità pratiche’.

Interpretando le varie norme internazionali in materia, mettendole in relazione fra loro utilizzando il cosiddetto combinato disposto, se ne ricava che il Crocifisso è parte identitaria di una grande cultura universalista, la quale si apre al dialogo con le altre culture per la promozione di tutti i diritti umani per tutti. Dunque, il Crocifisso in un contesto di pluralità arricchente, dove c’è posto per altri simboli compatibili con i principi-guida statuiti dalla Convenzione UNESCO sulla diversità culturale di cui dirò più avanti.

La crescente multiculturalità nelle scuole spinge per il pluralismo dei simboli in funzione del dialogo interculturale, a sua volta finalizzato a generare nuove “espressioni culturali condivise”.

Insomma, quanto a simboli identitari il messaggio che discende dal vigente ‘nuovo’ Diritto internazionale è così riassumibile: non si toglie ma si aggiunge, non si monopolizza ma si pluralizza, non si depaupera il “contenuto culturale” degli ambienti educativi scolastici ed extra-scolastici, ma lo si arricchisce.

La giurisprudenza della Corte europea, nell’interpretare la Convenzione “regionale” europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e relativi Protocolli, deve avere l’umiltà di non sentirsi al di sopra del Diritto internazionale “generale” dei diritti umani, le cui Convenzioni sono ampiamente ratificate dagli stati europei.

Chi ha orecchie da intendere, intenda: su una materia così delicata – per i molteplici risvolti giuridici, morali, politici, antropologici che la connotano – non ci si può limitare ai soli succinti articoli della Convenzione europea, si deve invece interpretarli in relazione alla più ampia normativa vigente a raggio mondiale. Pena la dequalificazione della giurisprudenza europea al rango di vetero positivismo giuridico-formale. privo di sostanza culturale e di forza propulsiva ad bonum faciendum, come tale inutile anzi dannoso anche per le strumentalizzazioni cui si presta. Summum ius, summa iniuria, dicevano gli antichi. Pessimo servizio alla causa dei diritti umani, diciamo noi oggi, amaramente.

Laicità non è tabula rasa di valori, gelido pavimento sepolcrale.

Il vigente Diritto internazionale dei diritti umani, che si radica nella Dichiarazione Universale del 1948 e nei due Patti internazionali del 1966, rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali e che ha trovato sviluppo organico in circa 130 Trattati internazionali, di portata sia universale sia regionale, offre una serie di indicatori di laicità riassunti nella formula: tutti i diritti umani per tutti, da intendersi come universali e da applicarsi in base al principio della loro interdipendenza e indivisibilità.

I diritti umani sono il cuore delle buone Costituzioni e, oggi, anche del Diritto internazionale che, appunto per il fatto di essersi fatto carico del loro riconoscimento, è entrato nella fase della pienezza umanocentrica della Civiltà del Diritto.

Tra i diritti della persona internazionalmente riconosciuti c’è quello all’educazione, proclamato dall’articolo 26 della Dichiarazione Universale e dagli analoghi articoli 13 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e 29 della Convenzione del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Si riporta di seguito il testo del primo e del secondo comma quest’ultimo: “1. Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità di: a) favorire lo sviluppo della personalià del fanciullo nonchè lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutte le loro potenzialità; b) inculcare al faciullo il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite; c) inculcare al fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonchè il rispetto dei valori nazionali del paese nel quale vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua (corsivo aggiunto); d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di eguaglianza fra i sessi e di amicizia fra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi, e con le perone di origine autoctona; e) inculcare al fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale”.

Dunque, il disegno educativo si declina attorno ad un paradigma marcatamente assiologico, con relativi simboli identitari, nel segno dell’etica universale: l’istruzione deve essere impartita all’interno di questo disegno. I genitori sono interpellati a partecipare responsabilmente a questa impresa nel ‘’superiore interesse’ dei figli.

Il quarto comma dell’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici proclama il diritto alla libertà di opinione, di coscienza e di religione, la triade sacrale dell’intero codice universale dei diritti umani: “Gli Stati parti del presente Patto si impegnano a rispettare la libertà dei genitori e, ove del caso, dei tutori legali di curare l’educazione religiosa e morale dei figli in conformità alle proprie convinzioni”. Disposizione analoga è nel terzo comma dell’articolo 13 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali: “Gli Stati parti si impegnano a rispettare la libertà dei genitori e, ove del caso, dei tutori legali, di scegliere per i figli scuole diverse da quelle istituite dalle autorità pubbliche, purchè conformi ai requisiti fondamentali che possono essere prescritti o approvati dallo Stato in materia di istruzione, e di curare l’educazione religiosa e morale dei figli in conformità con le proprie convinzioni”.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali prima citata proclama soltanto diritti civili e politici, non anche quelli economici, sociali e culturali. Non c’è quindi traccia del diritto all’educazione. A sopperire, parzialmente, a questa lacuna, provvede il primo Protocollo del 1952, il cui articolo 2, intitolato appunto “Diritto all’istruzione”, recita: “Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”.

E I diritti dei bambini e degli adolescenti?

Citiamo alcuni articoli della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989. Articolo 12: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo interessa…”; articolo 14: “1. Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero e di religione. 2. Gli Stati parti rispettano il diritto e il dovere dei genitori oppure, se del caso, dei rappresentanti legali del fanciullo, di guidare quest’ultimo nell’esercizio del summenzionato diritto in maniera che corrisponda allo sviluppo delle sue capacità” (corsivo aggiunto); articolo 16: “Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione”.

Da questi riferimenti a norme giuridiche, non ad opinioni soggettive, apprendiamo che i diritti e le libertà dei genitori devono tener conto dei diritti fondamentali dei figli. E’ quindi il caso di sottolineare che in questo contesto relazionale i genitori non sono i monopolisti delle scelte dei figli, ma ne sono la guida come bene recitano le carte giuridiche internazionali.

L’Italia è tra i numerosi stati che hanno ratificato, oltre alla Convenzione europea del 1950, gli strumenti giuridici internazionali sopra richiamati. Ha anche ratificato la Convenzione “sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali”, approvata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO nel 2005 ed entrata in vigore nel 2008. Contiene norme giuridiche tanto interessanti e pertinenti quanto scarsamente conosciute. Assumendo che “la diversità culturale è una caratteristica identitaria dell’umanità…che aumenta la gamma delle scelte e nutre le capacità e i valori umani”, la Convenzione obbliga gli Stati tra l’altro a “creare le condizioni perchè le culture fioriscano e liberamente interagiscano in modo reciprocamente benefico” e a “facilitare l’intercuturalità allo scopo di sviluppare l’interazione culturale nello spirito del costruire ponti fra i popoli”. Nell’adempiere a questi obblighi, gli stati devono osservare otto principi-guida, il primo dei quali è così formulato dall’articolo 2 della Convenzione: “La diversità culturale può essere protetta e promossa soltanto se sono garantiti i diritti umani e le libertà fondamentali, in particolare la libertà di espressione, di informazione e di comunicazione, nonchè la capacità degli individui di scegliere le espressioni culturali” (corsivo aggiunto). L’articolo 4 fornisce una serie di utili definizioni, ne riporto alcune: “diversità culturale si riferisce ai molteplici modi in cui le culture dei gruppi e delle società trovano espressione…essa è resa manifesta non soltanto attraverso i variegati modi in cui il patrimonio culturale dell’umanità è espresso, accresciuto e trasmesso mediante la varietà delle espressioni culturali, ma anche attraverso i diversi modi della creatività artistica…”; “Contenuto culturale si riferisce al significato simbolico, alla dimensione artistica e ai valori culturali che sono originati dalle identità culturali o le esprimono” (corsivo aggiunto). “Interculturalità si riferisce all’esistenza e all’equilibrata interazione delle diverse culture e alla possibilità di generare espressioni culturali condivise (generating shared cultural expressions) attraverso il dialogo e il reciproco rispetto”.

Ai sensi del vigente Diritto internazionale, l’educazione da impartire in adempimento dell’obbligo di rispettare il diritto fondamentale all’educazione deve pertanto sostanziarsi di “contenuto culturale” nel senso e con le finalità che la Convenzione UNESCO assegna a questa espressione. Se è vero com’è che, per gli aspetti identitari lumeggiati dall’UNESCO, la cultura è fatta di valori, non si può ignorare il dato storico che i valori religiosi sono alla radice delle grandi culture e ne marcano e ne alimentano l’identità.

La lezione che discende dal Sapere dei diritti umani e, all’interno di questo, dal Diritto internazionale dei diritti umani, è fortemente valoriale, nello spirito del ‘costruire ponti’ e dello ‘includere’ le varie diversità culturali, a condizione che queste si rendano compatibili col paradigma dei diritti fondamentali e si purifichino dunque attingendo alla comune sorgente dell’universale, appunto “generando nuove espressioni culturali condivise” come recita la Convenzione UNESCO.

Il campo dell’educazione, a cominciare da quella scolastica, è laboratorio privilegiato per questa “coltura” che ovviamente non parte – non deve, non può partire – dalla tabula rasa dei valori e dei simboli. Deve invece partire dalle molteplici identità ed espressioni culturali esistenti perchè si confrontino e, attraverso il comune lavoro di purificazione nell’universale, dialoghino fertilmente fra loro.

L’Italia farà bene a ricorrere contro la sentenza alla Grande Camera della Corte, avvalendosi di riferimenti puntuali a tutte le pertinenti norme del Diritto internazionale dei diritti umani, compresa – insisterò opportune et inopportune - la recente Convenzione UNESCO. Si faccia dunque uso di argomentazioni giuridiche, non di retorica patriottarda che può sconfinare in fondamentalismi dalle conseguenze imprevedibili.

E si eviti di prendere spunto da una sentenza ingiusta, e culturalmente povera, per mettere in causa la bontà e l’utilità del Diritto universale dei diritti della persona e del relativo sistema di garanzie. Non a caso l’enciclica “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII già nel 1963 annoverava la Dichiarazione Universale del 1948 tra i “segni dei tempi”, cioè tra i talenti che la Provvidenza nella storia chiede alle persone di buona volontà di far fruttare. Se si indebolisce il Diritto internazionale dei diritti umani c’è il rischio che si riproponga - voracemente - il vecchio Diritto internazionale delle sovranità-nazionali-armate-confinarie-localistiche: sicut leo rugens qaerens quem devoret (il maligno alla ricerca di prede da divorare, dalla Lettera di S.Pietro).

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