Marcia Perugia-Assisi. Niente astuzie al tavolo del pacifismo
La Marcia della Pace da Perugia ad Assisi del 26 settembre scorso – la marcia di fine secolo – segna una tappa importante nella crescita del movimento di società civile impegnato nella costruzione della pace dalla comunità locale al sistema delle Nazioni Unite. È un movimento che ha maturato una sua specifica e chiara identità di soggetto portatore di una nuova cultura politica nel segno dei grandi valori umani universali. La fase accelerata di questa maturazione inizia durante la guerra del Golfo e si manifesta, con tendenza a strutturarsi in via permanente, allorquando la Marcia Perugia-Assisi del 1995 viene preceduta e orientata dalla prima «Assemblea dell’ONU dei Popoli». In quella occasione, oltre cento «popoli» delle varie parti del mondo furono rappresentati da delegati i quali, insieme con la denuncia e la testimonianza della loro difficile, spesso tragica, condizione, portarono proposte di azione comune soprattutto per dare slancio alle Nazioni Unite nel cinquantesimo anniversario della loro costituzione.
A partire da quell’anno, la bandiera azzurra delle Nazioni Unite diventa inseparabile da quella ‘arcobaleno’ della pace. Il movimento pacifista si appropria definitivamente, oltre che di un simbolo, soprattutto della sostanza della Carta delle Nazioni Unite e del Diritto internazionale dei diritti umani che da esso discende. In questo movimento di pace positiva confluiscono oggi migliaia di associazioni e gruppi di volontariato, grandi e piccoli, e centinaia e centinaia di enti locali, grandi e piccoli.
La volontà di coordinarsi, per condividere una comune strategia, trova espressione nella Tavola della Pace, decisa durante una riunione nel Sacro Convento di Assisi: il luogo ben significa il nuovo corso valoriale dei pacifisti. Le Marce del 1997 e del 1999 sono state anch’esse precedute e orientate dall’Assemblea dell’ONU dei Popoli alla sua seconda e terza edizione, caratterizzate da un crescendo di rappresentatività mondiale e di specificità dell’agenda. Nel maggio di quest’anno è avvenuta anche una Marcia straordinaria, legata agli eventi bellici nei Balcani. Le Marce hanno avuto anch’esse un ‘crescendo’: sempre più affollate di persone e gruppi e di Gonfaloni di Comuni, Province e Regioni. Sono convinto che ormai nessuno, se non dichiaratamente fazioso, abbia argomenti per sostenere che gli operatori della pace positiva sono assenti o irrilevanti. L’importanza di questa realtà discende da un ricco ventaglio di fattori. Innanzitutto la rappresentatività e la capillarità d’azione delle sue componenti: associazioni e enti locali, laici e cattolici (tanti, questi ultimi), credenti e non credenti, giovani (sempre più numerosi) e adulti, maschi e femmine. C’è quindi l’elemento della capacità di stare in rete sul piano internazionale: il movimento pacifista italiano è attivamente collegato con altre analoghe realtà nelle varie parti del mondo e con le grandi Organizzazioni internazionali, dall’ONU all’UNESCO, dallo UNDP all’UNICEF all’Unione Europea. E da queste Istituzioni arrivano i riconoscimenti, come i messaggi di Boutros Boutros-Ghali prima e, per le manifestazioni di quest’anno, di Kofi Annan. L’elemento più rilevante è certamente quello che attiene ai contenuti della «cultura basata sui valori e orientata all’azione», sempre più organica e puntuale: promozione e difesa dei diritti umani universalmente riconosciuti, promozione e difesa della legalità internazionale basata sulla Carta delle Nazioni Unite e sulle Convenzioni internazionali sui diritti umani, multilateralismo nella cooperazione internazionale, sicurezza multidimensionale (economica, sociale, ambientale, oltre che militare), orientamento sociale dell’economia mondiale, stato sociale sostenibile, divieto della guerra, giurisdizione penale internazionale, sviluppo umano (secondo la filosofia dello UNDP), democrazia dalla Città alle Nazioni Unite, nonviolenza.
Quella del pacifismo, così come si va esemplarmente sviluppando in Italia, è la voce più puntuale e convinta di una cultura politica capace di metabolizzare l’avvenuta compenetrazione tra nazionale e internazionale nell’era dell’interdipendenza e delle varie globalizzazioni. È una voce che interloquisce con competenza e determinazione nel difficile discorso della governabilità, proponendo una sensata e sostenibile strategia di nuovo ordine mondiale democratico, giusto e pacifico, saldamente ancorato alla legge dei diritti umani, di tutti i diritti umani per tutti: civili, politici, economici, sociali, culturali. Non vorrei farmi prendere troppo dall’entusiasmo e dalla simpatia che derivano da una convinta frequentazione di questo pacifismo progettuale, ma non posso fare a meno di sottolineare la nobiltà e la grandezza di un disegno che, in parole ed opere, persegue l’obiettivo di far crescere in Italia e nel mondo quei semi di universale che sono stati posti nel pianeta durante la stagione creativa della seconda metà degli anni quaranta: in particolare le Nazioni Unite e il Diritto internazionale dei diritti umani. Il pacifismo progettuale non vuole che siano spente le fiaccole accese dai leaders illuminati di quel tempo: i Roosevelt, marito e moglie, i Churchill, i Maritain.
Partendo da una diagnosi ormai chiarissima circa gli effetti distruttivi e destabilizzanti di una mondializzazione dell’economia portata avanti all’insegna della «deregulation» in tutti i campi – da quello dell’economia a quello del diritto e delle istituzioni –, la parola d’ordine per la governabilità globale è quella di riformare, democratizzare e potenziare le Nazioni Unite e di raccordare ad esse le varie istituzioni ‘regionali’. Si fa strada l’idea di una «geometria variabile» anche per le Nazioni Unite, così riassumibile. Un gruppo rappresentativo di stati, di ogni parte del mondo, che veramente vogliono la legalità dei diritti umani e le Nazioni Unite quale istituzione primaria di garanzia, prenda l’iniziativa di fare quello che è più urgente fare in questo momento, ponendosi al traino degli altri. Certamente l’Italia, forte della sua società civile, dovrebbe essere in questo gruppo. Le proposte sono molto precise al riguardo. Costituzione di una forza di polizia internazionale permanente sotto autorità e comando delle Nazioni Unite: un gruppo di paesi decida di stabilire un coordinamento permanente delle sue ‘stand-by units’ (unità di rapido impiego), sotto direzione politica del Segretario Generale delle Nazioni Unite. L’Italia dovrebbe fare appello a paesi quali la Spagna, la Repubblica Ceca, il Cile, il Senegal, la Nuova Zerlanda, l’Australia, e (non pochi) altri ancora. Consiglio di Sicurezza: sospensione del potere di veto per le materie riguardanti i diritti umani e l’aiuto umanitario. Corte Penale Internazionale: siccome occorrono 60 ratifiche prima della sua entrata in funzione, un gruppo di paesi prenda l’iniziativa di farla funzionare sulla base di 25 ratifiche, con operatività magari circoscritta ad aree ‘regionali’. Sanzioni: poichè i loro effetti sono perversi, se ne ribalti la logica. Si delegittimino con formali atti di governi e di parlamenti i governanti che delinquono e si aiutino ancor più di prima le rispettive popolazioni oppresse e discriminate: è questo il vero aiuto umanitario.
Per quanto riguarda in particolare il diritto-dovere di intervento umanitario, il nostro movimento pacifista, in consonanza con altre realtà associative e culturali del mondo, ha già puntualmente chiarito che: primo, esso deve avvenire sotto autorità delle Nazioni Unite; secondo, non può consistere in atti di guerra; terzo, deve essere realizzato con contingenti «sopranazionali» di forze di polizia militare e con robusta (qualificata e coordinata) partecipazione di personale civile, comprendente i monitori dei diritti umani; quarto, deve esserci adeguato spazio per l’azione delle organizzazioni non governative. Il principio fondamentale deve naturalmente essere quello della politica di prevenzione. C’è ancora una proposta che comincia a farsi strada: la proclamazione, nell’anno 2000, di Gerusalemme quale Capitale morale del mondo. L’idea è di mobilitare a migliaia le associazioni e gli enti locali di ogni parte del pianeta perchè si pronuncino in questo senso, attraverso un referendum o un plebiscito mondiale. E magari si operi perchè la sede dell’ONU tutta intera, o di qualche sua significativa articolazione, si trasferisca nella Capitale del mondo. Certamente, per il movimento pacifista si apre una nuova fase, quella del rapporto con le forze partitiche. Il metodo dovrebbe essere chiaro: dialogo, trasparenza, costruttività. Ma non mi preoccuperei più di tanto. Un movimento saldamente ancorato ai valori universali e ai principi della verà legalità è di per sè aperto al dialogo con tutti e, giunto a questo punto di originalità e organicità nel progettare, è difficilmente strumentalizzabile. Vorrei dire che chi ci si provasse, ci lascerebbe più di qualche penna. Credo giovi a tutti, a prescindere dalle appartenenze partitiche, confrontarsi e ristorarsi, sanamente, alla tavola imbandita del pacifismo. Le istituzioni, dal canto loro, aprano la loro tavola a quella, già aperta, dei costruttori di pace.