Nazioni Unite / ONU

Misure coercitive: cosa dice la Carta delle Nazioni Unite e cosa ha fatto il Consiglio di sicurezza

in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, anno IV, numero 3, 1990
Logo Centro di Ateneo per i Diritti Umani "Antonio Papisca", Università di Padova

II capitolo VII della Carta 

L’idea di pace contenuta nella Carta dell’ONU è quella di pace positiva: cioè, non soltanto assenza di guerra ma, fondamentalmente, cooperazione di tutti – stati, popoli, soggetti nongovernativi – per costruire un ordine internazionale fondato sui principi di solidarietà e di rispetto dei diritti umani. La guerra, come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, non è legittima: “flagello” la definisce il Preambolo della Carta. Le controversie internazionali vanno risolte con i mezzi pacifici indicativamente elencati all’art. 33 della Carta: “negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni o accordi regionali” e altre procedure analoghe. 

Le situazioni che si configurano come rotture della pace o minacce di rottura della pace, devono essere affrontate alla luce del principio del divieto della guerra e delle norme che disciplinano l’eventuale uso della coercizione militare sotto diretta autorità dell’ONU. Tali norme sono quelle del Capitolo VII della Carta. Esse pongono innanzitutto il principio di sopranazionalità, a garanzia del corretto uso degli strumenti della coercizione, cioè per mantenere questi ultimi nei limiti dei principi e delle finalità proprie dell’ONU. Per l’uso del militare non ci può essere delega agli stati. In via eccezionale e entro i limiti rigorosamente fissati dalla Carta, gli stati sono legittimati ad usare la forza in risposta ad un attacco armato: l’autotutela, individuale e collettiva, deve quindi esplicarsi in via successiva e temporanea “fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale” (art. 51). Questa eccezione conferma la regola: la eventuale, autonoma azione coercitiva degli stati si giustifica per ragioni di urgenza e tempestività. Tutto deve rientrare al più presto sotto l’autorità del Consiglio di sicurezza, il quale mantiene peraltro il proprio autonomo potere “sopranazionale” anche in fase di esercizio del diritto di autotutela da parte degli stati. A conferma di questa interpretazione è anche quanto disposto dall’art. 53: “Il Consiglio di sicurezza utilizza, se del caso, gli accordi o le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione”. 

L’organo sopranazionale legittimato a decidere l’uso della forza è dunque il Consiglio di sicurezza, che può decidere misure non implicanti l’impiego dell’uso della forza – per es., interruzione delle relazioni economiche – (art. 41) e “intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” (art. 42). Le misure che implichino l’uso del militare sono parzialmente esemplificate dall’art. 42 “dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni”. Per “altre operazioni” devono intendersi misure analoghe a quelle espressamente esemplificate. Il Consiglio di sicurezza è dunque l’organo delle Nazioni Unite con potere non soltanto di decidere in senso vincolante per gli stati, ma anche di applicare direttamente, in prima persona, le decisioni adottate. In concreto, cosa può fare il Consiglio di sicurezza in presenza di una situazione che si configuri come “minaccia alla pace, violazione della pace, atto di aggressione” (art. 39)?

1) Innanzitutto, il Consiglio accerta l’esistenza di una tale situazione; 2) invita le parti a ottemperare a misure provvisorie che esso consideri necessarie; 3) può decidere “misure non implicanti l’impiego della forza armata: per es., sanzioni economiche; 4) può decidere l’impiego di forze militari se ritiene che le misure precedentemente adottate si siano dimostrate inefficaci, secondo quanto dispone l’art. 42, che statuisce appunto che “esso può intraprendere...”.

A questo punto bisogna richiamare l’attenzione sull’art. 43 che prevede che “al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i membri delle Nazioni Unite si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di sicurezza” una parte dei loro eserciti sulla base di appositi accordi da stipulare “il più presto possibile” con lo stesso Consiglio. La previsione di questo obbligo, rimasta inapplicata, rafforza anch’essa il principio di sopranazionalità che deve informare l’uso della coercizione militare da parte dell’ONU.

Nella vicenda del Golfo, si è avuta la immediata attivazione del Consiglio di sicurezza all’indomani dell’invasione del Kuwait. All’atto di aggressione di Saddam Hussein non c’è stata risposta militare “a caldo” da parte degli stati ai sensi della eccezione prevista dall’art. 51. È il Consiglio che subito si è attivato mediante l’adozione di risoluzioni ai sensi degli artt. 39 e 41 della Carta. Per mantenersi nella legalità da questa sancita, lo stesso Consiglio avrebbe dovuto gestire sotto sua diretta autorità e comando le successive fasi della vicenda. Nei giorni immediatamente successivi al 2 agosto 1990, nell’area del Golfo si addensano le forze militari degli Stati Uniti e dei loro alleati, per rendere più efficace – si dice – le sanzioni comminate dal Consiglio di sicurezza con la Risoluzione 661. Ma l’impiego di quelle forze non costituisce né “dimostrazione” né “blocco” ai sensi dell’art. 42, perché ciò avrebbe implicato una esplicita “decisione di blocco” da parte del Consiglio di sicurezza e l’assunzione del diretto comando delle operazioni da parte dello stesso Consiglio. Fin dall’inizio, le forze militari hanno costituito una rete “multinazionale” e non una forza “sopranazionale”.

La Risoluzione 678, con la quale il Consiglio “autorizza... a usare tutti i mezzi necessari...”, stravolge la lettera e lo spirito della Carta dell’ONU per le seguenti ragioni: 1) essa avrebbe dovuto essere preceduta da una espressa constatazione circa la inefficacia delle misure decise dal Consiglio ai sensi dell’art. 41; 2) il Consiglio avrebbe dovuto decidere una delle misure previste dall’art. 42 e avrebbe quindi dovuto assumerne il comando, coadiuvato dal Comitato di Stato Maggiore previsto dalla Carta. Va sottolineato che la Risoluzione 678 non autorizzava comunque neppure implicitamente gli stati a fare la guerra, visto che la Carta la vieta.

La tesi di chi sostiene che la guerra nel Golfo sia esercizio di autotutela collettiva ai sensi dell’art. 51, palesemente non regge, dal momento che per le azioni di autotutela non è richiesta alcuna autorizzazione del Consiglio di sicurezza. Inoltre, la stessa sequela degli atti coercitivi nel Golfo rivela che non si è trattato di risposta a caldo “fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie”, ma di risposta a freddo: il Consiglio si era esso tempestivamente attivato, facendo così venire meno la ratio dell’autotutela successiva quale “tollerata” dall’art. 51.

Il Consiglio di sicurezza ha pertanto legittimato un “intervento” bellico, che ha a che vedere, eventualmente, col vecchio diritto internazionale (quello della legge del più forte, tanto per intenderci), ma che è completamente estraneo al nuovo diritto internazionale codificato mediante la Carta delle Nazioni Unite e le successive convenzioni internazionali sui diritti umani.

L’ONU dei popoli 

Il Consiglio di sicurezza è un organo importante perché legittimato dalla Carta delle Nazioni Unite a esercitare il monopolio della forza entro limiti ben definiti. Ma è anche un organo pericoloso, perché in presenza di congiunture come quella della vicenda bellica del Golfo può avallare comportamenti degli stati che stravolgono la lettera e lo spirito della Carta. Quanto a struttura e a regole procedurali, il Consiglio contraddice un basilare principio della Carta, quello che statuisce la sovrana eguaglianza degli stati. Cinque dei 15 stati che lo compongono sono infatti più sovrani degli altri. I 5 “grandi”, con seggio permanente e potere di veto, costituiscono un vero e proprio direttorio mondiale che poteva forse avere un qualche senso alla fine della seconda guerra mondiale, ma che non ne ha alcuno oggi, a 45 anni dall’entrata in vigore della Carta di S. Francisco. Il numero degli stati membri dell’ONU si è infatti triplicato; ha preso corpo l’associazionismo internazionale operante a fini di promozione umana; si è sviluppato – fino a strutturarsi in (disagiata, perché asimmetrica) condizione esistenziale – il processo di interdipendenza planetaria in campo economico, politico, ecologico, culturale, ecc.; ha preso corpo il nuovo diritto internazionale dei diritti umani, che antepone al principio di sovranità degli stati, quello del rispetto dei diritti innati delle persone e dei popoli: dal diritto alla vita, al diritto al lavoro, al diritto all’autodeterminazione.

Con la Risoluzione 678 il Consiglio ha delegato il suo ruolo di “polizia internazionale” agli Stati Uniti i quali, insieme con i loro alleati, lo hanno tradotto in termini di “guerra”. Mai come in questi giorni si è rivelato attuale e premonitore il preambolo della Carta delle Nazioni Unite, che inizia: “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra..., a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, ... a promuovere il progresso sociale e un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà...”. Nessun accordo giuridico internazionale, stipulato dai rappresentanti degli stati, inizia con una simile asserzione di protagonismo da parte dei popoli. C’è oggi bisogno di mettere sotto controllo democratico tutti gli organi decisionali dell’ONU, a cominciare dal Consiglio di sicurezza. A fronte del più di potere che l’ONU deve avere – e che il Consiglio di sicurezza ha esercitato anche al di là della Carta –, occorre democrazia perché tale potere si orienti e si attui secondo i principi e per gli obiettivi stabiliti dalla Carta. I principali organi delle Nazioni Unite sono infatti composti e gestiti dai rappresentanti degli stati. Il loro funzionamento si caratterizza per un tasso crescente di verticismo. L’attività internazionale è sempre più densa e vertiginosa: i membri dei governi nazionali lavorano più fuori che dentro casa. I parlamenti arrancano; di fatto non orientano e non controllano i rispettivi governi in libera uscita internazionale. Ormai, le grandi decisioni si prendono in sede internazionale e la gente vi si trova coinvolta – per questioni di vita e di morte – da un momento all’altro, chissà come e perché. Per il sistema della Comunità europea, dove si decide dei prezzi degli ortaggi, si è provveduto a mettere in funzione il Parlamento europeo e, di fronte alla condizione di subalternità in cui esso è costretto dai governi e dai partiti nazionali, si denuncia il deficit di democrazia della Comunità. 

Per l’ONU, che ha il potere di decidere azioni coercitive anche con l’uso del militare, che stimola la codificazione giuridica dei diritti umani e ne gestisce gli strumenti di garanzia, il problema del deficit democratico va posto in termini di drammatica urgenza. 

Ma è possibile democratizzare l’ONU, il massimo santuario della diplomazia planetaria? E innanzitutto, cosa è democrazia internazionale? Democrazia internazionale è la pratica della partecipazione politica popolare ai processi decisionali degli organismi intergovernativi: ONU, UNESCO, FAO, ecc. Insomma, democratizzare tali organismi significa fare partecipare al loro funzionamento quelle organizzazioni nongovernative che dimostrano la capacità di farsi portavoci di valori e interessi popolari internazionali: pace, diritti umani, disarmo, sviluppo, difesa dell’ambiente, ecc. Ebbene, questa partecipazione è possibile dentro l’ONU. Primo, perché la stessa Carta e le convenzioni internazionali sui diritti umani espressamente la prevedono e la legittimano: per es., art. 71 della Carta, art. 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani; secondo, perché esistono e sono attivi i soggetti collettivi che rappresentano interessi panumani: basti pensare alle oltre 20.000 organizzazioni internazionali nongovernative (dalla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli alla Commissione internazionale dei giuristi); terzo, perché nel sistema delle Nazioni Unite vige la prassi dello “status consultivo”, cioè la possibilità per un migliaio di OING di avere un qualche accesso – pur se in veste di parenti poveri degli stati – alle riunioni di taluni organi (per es., Consiglio economico e sociale e Commissione dei diritti umani); quarto, perché molte risoluzioni dell’Assemblea generale e  di altri importanti organi delle Nazioni Unite – non, del Consiglio di sicurezza – interpellano sempre più insistentemente le OING perché amplifichino le istanze della solidarietà e della cooperazione nel mondo.

Democratizzare l’ONU significa, subito, promuovere il ruolo delle OING dallo status consultivo allo status di co-decisionalità. Da chi dipende questa promozione? Formalmente (e politicamente), dagli stati. Concretamente (e, anche in questo caso, politicamente), spetta alle OING e ai movimenti popolari costringere gli stati a questo passo, mediante la formulazione di precise proposte, l’esercizio di maggiore competenza negli affari internazionali, la volontà di coordinarsi in quanto entità rappresentative di “società civile internazionale” all’interno di una comune strategia di pace positiva. Talune proposte esistono già. Si segnala innanzitutto quella intesa a creare, ai sensi dell’art. 22 della Carta una Seconda Assemblea generale, la quale affiancherebbe l’attuale composta dai rappresentanti di tutti gli stati membri dell’ONU. Della nuova Assemblea generale dovrebbero far parte i rappresentanti delle 831 OING con status consultivo all’ONU. Si propone anche che le delegazioni degli stati all’attuale Prima Assemblea generale siano a composizione tripartita: diplomatici, parlamentari, esponenti di associazioni nongovernative.

Un’altra proposta è quella intesa ad abolire il potere di veto in seno al Consiglio di sicurezza: una garanzia transitoria per le cinque potenze potrebbe essere il seggio permanente, anche questo peraltro da abolire successivamente. Una proposta interessante riguarda la costituzione di una forza nonarmata e nonviolenta delle Nazioni Unite. Collegata a questa è l’ulteriore proposta per la internazionalizzazione, sotto autorità ONU, dello status degli obiettori di coscienza al servizio militare: il riferimento è alle risoluzioni della Commissione dei diritti umani che legano l’obiezione di coscienza al diritto umano alla libertà di pensiero, religione e coscienza riconosciuto dall’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici.

Numerose OING premono perché venga costituita la Corte universale dei diritti dell’uomo e dei popoli. Un’altra interessante proposta è quella intesa a creare un’Alta autorità per il disarmo, in grado di efficacemente avviare il disarmo reale. Nel mondo dell’associazionismo si va inoltre diffondendo la convinzione che occorre appoggiare gli organi più indipendenti delle Nazioni Unite, in particolare quelli che sono preposti alle attività di garanzie dei diritti umani: l’idea è quella di fare “adottare” tali organi da parte della società civile internazionale.

La democratizzazione dell’ONU è necessaria per conseguire obiettivi ormai ineludibili quali: l’avvio del negoziato globale Nord-Sud per un nuovo ordine economico internazionale; il disarmo; il rispetto dei diritti della persona e dei popoli; la programmazione e la gestione di politiche internazionali in campo sociale (disciplina dei flussi migratori), economico, ambientale. Insomma, la trasformazione democratica dell’ONU è condizione indispensabile perché il nuovo diritto internazionale dei diritti umani possa effettivamente prevalere sul vecchio diritto delle sovranità statuali armate.

Pubblicazioni

Parole chiave

Nazioni Unite / ONU diritti umani Consiglio di Sicurezza uso della forza

Percorsi

Centro diritti umani