Sussidiarietà, orizzonte mondiale. La “diplomazia delle città”
La governabilità sta soffrendo in ogni parte del mondo e con essa soffrono il rispetto dei diritti umani e la pratica della democrazia anche nei paesi che ne hanno più antica esperienza.
Il disagio è tanto più grave quanto più numerose si fanno le minacce alla sicurezza, alla pace sociale e internazionale, insomma al quotidiano vivere delle persone e delle comunità.
A causare ed alimentare questa situazione non sono soltanto l’incapacità e la corruzione di classi governanti, è soprattutto la inadeguatezza della stessa “forma Stato”, della tradizionale forma dello “Stato nazionale-sovrano-armato-confinario”, ormai irreversibilmente espropriato di molte leve di governo dai processi, positivi e negativi, legati alla mondializzazione.
Si parla tanto di democrazia, la si vuole esportare anche con le bombe, la si strumentalizza per dividere i buoni dai cattivi: il riferimento è sempre e soltanto ad un modello che ha come spazio di riferimento lo Stato con i suoi tradizionali attributi. Oggi, le grandi decisioni, in sedi e con metodi sia trasparenti sia non trasparenti, si prendono al di fuori della sfera di controllo delle istituzioni di governo del singolo stato. Lo spazio nazionale rende inutile, alla fine asfittica, la pratica della democrazia se la si intende nella sua genuina funzione di legittimazione e controllo di chi decide.
Urge pertanto recuperare il senso della democrazia, di tutta la democrazia (politica, economica, sociale) quale strumento di pacificazione e non di discriminazione e esclusione, ed estendere il raggio d’azione fino ai grandi santuari della politica internazionale, lungo un percorso che inizia dalla città e arriva fino alle Nazioni Unite e alle altre legittime istituzioni multilaterali. È tempo la schermatura delle istituzioni centrali degli stati, gli effetti dei processi di globalizzazione. Conflitti e disagi legati a flussi migratori e ristrettezze di bilancio, in particolare per quanto attiene alla spesa sociale, ne sono indicatori tanto significativi quanto drammatici. L’ente locale deve far fronte, in prima persona, a problemi che sono di ordine mondiale e siccome è sul piano mondiale che questi vanno primariamente affrontati e risolti, l’ente locale è sostanzialmente legittimato a interloquire direttamente in sede internazionale e mondiale. Sta qui la legittimazione sostanziale a rivendicare visibilità di ruolo nel sistema della politica internazionale.
E c’è anche la legittimazione formale. L’ente locale è polo territoriale primario della dinamica della sussidiarietà, dunque pienamente legittimato a rivendicare ruoli di partecipazione al funzionamento di un sistema di governance che, per esere capace e sostenibile, deve essere distribuito su più livelli, all’interno di una architettura di multi-level e, per talune materie, anche di supra-national governance.
Diplomazia delle città significa dunque, essenzialmente, partecipare alla costruzione di questa architettura e alla dinamica della global governance con l’identità appunto di polo originario di sussidiarietà.
È appena il caso di ricordare che il principio di sussidiarietà comporta che le decisioni vengano prese quanto più possibile vicino ai cittadini, cioè ai loro bisogni vitali reali. Questi bisogni vitali sono chiamati, nel linguaggio costituzionale, diritti fondamentali della persona e dei popoli – civili, politici, economici, sociali, culturali –, riconosciuti come tali, oggi, anche dal Diritto internazionale. L’Ente locale è quindi, per sua stessa natura costitutiva, il primo e più immediato garante dei diritti umani, di tutti i diritti umani per tutti coloro che risiedono nel suo territorio. È, questo, un attributo importante della ‘forma’ dell’Ente locale. In Italia, caso ancora unico nel panorama mondiale ma che è certamente esemplare per tutti, di questo attributo di “human rights defender” c’è formale riconoscimento in migliaia di statuti che Comuni e Province, avvalendosi di un incremento di autonomia concesso loro dalla Legge nazionale, sono venuti adottando a partire dal 1991. In uno dei primi articoli è inclusa quella che ormai comunemente chiamiamo la “norma pace diritti umani”, il cui testo standard così recita: “Il Comune x, la Provincia x, in conformità con i principi della Costituzione che ripudia la guerra quale strumento di risoluzione dei conflitti internazionali e con i principi del Diritto internazionale dei diritti umani, riconosce nella pace un diritto fondamentale della persona e dei popoli. A tal fine si impegna ad assumere iniziative e a collaborare con le associazioni, la scuola e le università”.
Con questa norma statutaria, gli enti locali italiani si fanno promotori dell’applicazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite relativi ai diritti umani, alla proscrizione della guerra, al divieto dell’uso della forza, all’obbligo di costruire la pace, in particolare dell’articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani che proclama che “ogni essere umano ha diritto ad un ordine sociale e internazionale in cui tutti i diritti e le libertà fondamentali possono essere pienamente realizzati”. Insomma, Comuni e Province in Italia si fanno garanti del diritto umano alla pace positiva, interna e internazionale, e dell’intero corpo del Diritto internazionale fondato sulla Carta delle Nazioni Unite. L’assunzione esplicita di questa responsabilità, in termini di ius positum, bene esprime la natura costitutiva dell’ente di governo locale che è quella di essere “territorio, ma non confine”.
In prima istanza, per l’Ente locale c’è l’obiettivo della pace sociale nell’ambito del proprio territorio, che significa fornire pari opportunità per l’esercizio degli eguali diritti di cittadinanza di tutte le ‘persone umane’ che vivono nel territorio. Fondandosi sui diritti umani, la cittadinanza è “cittadinanza plurale” nel senso che le tradizionali cittadinanze anagrafiche – nazionali, regionali, locale – devono armonizzarsi con la superiore cittadinanza universale della persona umana. Un capitolo importante della diplomazia delle città consiste dunque nel considerare la cittadinanza nell’ottica dell’inclusione, ad omnes includendos. L’Ente locale deve sviluppare la sua identità di “città inclusiva”, ove inclusione non significa necessariamente integrazione del diverso, ma primariamente opportunità di partecipazione politica offerta a tutti. La città dovrà dunque attrezzarsi di tutto ciò che fa e traduce concretamente la sua identità inclusiva, in particolare dotandosi di apposite strutture organizzate che le consentano di realizzare good practices. In particolare, la “città inclusiva” è quella che si caratterizza per l’esistenza al suo interno della “infrastruttura pace diritti umani”: assessorati, dipartimenti, consulte, difensori civici, garanti dei minori. In questa sua intrapresa, che sfonda il muro della cittadinanza tradizionalmente intesa ad alios excludendos, si favorità il dialogo interculturale, per il quale sono necessari adeguati programmi di educazione e formazione da realizzare in stretta collaborazione con il mondo della scuola e con quello delle formazioni di società civile solidarista.
Fa parte della diplomazia delle città un altro filone operativo, quello della cooperazione decentrata allo sviluppo. Di fronte alla fallimentare esperienza della cooperazione in appannaggio eclusivo dei governi centrali, occorre incrementare la cooperazione diretta fra enti e comunità locali al di là e al di sopra delle frontiere nazionali, nella consapevolezza che la cooperazione decentrata non serve soltanto a sopperire a urgenze esistenziali di popolazioni svantaggiate, ma è un contributo essenziale alla governance globale. Occorre insomma elevare il profilo politico della cooperazione agganciando questa più direttamente, e con accresciuta visibilità, alla strategia degli “Obiettivi di Sviluppo del Millennio”.
Più in generale, la diplomazia delle città si caratterizzerà per il fatto che tra i suoi principi ispiratori è quello relativo alla interdipendenza e indivisibilità di tutti i diritti umani.
In questo momento in cui alle flagranti violazioni del Diritto internazionale, perpetrate anche facendo le guerre preventive, fa riscontro il crescente dilagare del terrorismo di varie forme e matrici, in cui il neoliberismo ha mostrato tutti i suoi limiti e le sue ricadute disumanizzanti, in cui il riarmo ha subito un’impennata vertiginosa, occorre rinnovare l’impegno per il disarmo e per la effettiva messa in funzione di un sistema di sicurezza collettiva sotto l’autorità sopranazionale delle Nazioni Unite. Gli Enti locali, abbiamo prima detto, sono essenzialmente “territorio”, è sul loro territorio che avviene la ricerca scientifica per il militare di guerra, è sul loro territorio che ci sono e si alimentano le basi militari, insomma è nel loro territorio che abitano le armi ed è il loro territorio che viene distrutto dall’impiego delle armi. Ebbene, gli Enti locali devono alzare la voce perché l’uso dei loro territori sia coerente con l’identità pacifica e pacificatrice della città inclusiva.
Perché la sussidiarietà funzioni, al fine di perseguire questo e altri obiettivi, occorre che il polo teritoriale basilare possa interloquire con i poli, più artificiali ma non meno necessari, dei livelli superiori. Intendo dire che, nell’era dell’interdipendenza, della globalizzazione e del Diritto internazionale dei diritti umani, occorre che le legittime istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite, siano messe in grado, dagli stati che ne fanno parte, di funzionare efficacemente. Le città, per la loro stessa salute istituzionale e funzionale, e quindi per il sano gioco della sussidiarietà nello spazio mondiale che le è proprio, hanno interesse diretto a rafforzare e democratizzare le istituzioni del multilateralismo. Per questo, oltre che intensificare la pressione sui governi centrali, occorre dilatare gli spazi di una loro più diretta rappresentanza in tutte le sedi multilaterali, dall’Unione Europea all’Organizzazione delle Nazioni Unite. In particolare in quest’ultima sede, la “consultazione” dei poteri locali deve potere tradursi anche nell’atto formale del “parere” indirizzato agli organi che decidono.
Il potere delle città non è certamente quello pesante della coercizione fisica ma quello della persuasione, del dialogo e della pressione per vie pacifiche, è il “soft power” teorizzato particolarmente dal Prof.J.S.Nye, il quale asserisce che “vincere la pace è più difficile che vincere una guerra e il soft power è essenziale per vincere la pace”[1]. Ebbene, la grande risorsa del soft power è quella dell’essere dalla parte della legalità, la cui difesa è tanto più necessaria in questo momento quanto più si protrae l’assalto proprio contro la legalità e contro il multilateralismo che hanno il loro cardine nella Carta delle Nazioni Unite e nel Diritto internazionale dei diritti umani.
Consentitemi di chiudere, prafrasando dialetticamente un’affermazione del benemerito professor Nye: “Gli Stati Uniti possono anche essere più potenti di qualsiasi altro sistema politica dopo l’Impero Romano, ma come Roma, l’America non è nè invincibile nè invulnerabile. Roma non è caduta per il sorgere di un altro impero, ma per l’invasione delle orde barbariche. I moderni terroristi high.tech sono i nuovi barbari”[2].
Mi risuona nelle orecchie quanto ammonisce il vecchio detto: quod barbari non fecerunt, fecerunt Barberini. Come noto, nella Roma del Rinascimento le famiglie più potenti hanno demolito insegni monumenti antichi, in parte anche il Colosseo, per ricavarne materiale di costruzione dei loro fastosi palazzi. Ebbene, tra i numerosi barbari di oggi ci sono anche quelli che, per così dire in guanti bianchi, intendono demolire dalle fondamenta la grande costruzione dell’ordine mondiale avviato nel 1945, con la istituzione delle Nazioni Unite.
L’auspicio è che le città, in stretta collaborazione con le formazioni di società civile, sviluppino un’alleanza a raggio mondiale per repingere questo ed altri assalti e portino avanti il percorso della civiltà del diritto nel segno dei diritti umani, della pace e dell’economia di giustizia.
[1] J.S. Nye Jr, Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004, p. XII.
[2] Ibidem, p. X.