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Il caso Hirsi Jamaa e altri contro Italia è stato deciso dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti umani il 23 febbraio 2012 con una unanime condanna dello stato italiano per il modo in cui ha operato il respingimento di un considerevole numero di profughi africani provenienti dalla Libia tra il 6 e il 7 maggio 2009. La sentenza è definitiva.
Il fatto si riferisce al salvataggio, avvenuto in acque internazionali a sud di Lampedusa, da parte di vascelli della Guardia di finanza e della Guardia costiera italiani, di alcune imbarcazioni che trasportavano oltre duecento persone di origine eritrea, somala e in generale africana. Le imbarcazioni erano salpate dalla Libia. Invece di trasportare i profughi verso le coste italiane, le navi militari li trasferirono a Tripoli, dopo un viaggio di oltre 10 ore, consegnandole alle autorità libiche, in totale contrasto con quanto era nelle aspettative degli individui. A Tripoli, alcuni operatori umanitari del Consiglio italiano per i rifugiati (CIR) raccolgono le firme di undici cittadini somali e di tredici eritrei in calce ad una procura che attribuisce agi legali dell’Unione forense per i diritti umani di Roma (gli avvocato Lana e Saccucci) l’incarico di presentare in loro nome un ricorso alla Corte europea dei diritti umani per lamentarsi del trattamento subito dalle autorità italiane. Queste ultime, in particolare, avrebbero proceduto al loro respingimento senza in alcun modo dare loro la possibilità di presentare una domanda di asilo politico. Il ricorso è stato depositato nel novembre 2009; nel febbraio 2011 una camera della Corte decide di riferire il caso alla Grande Camera; il 22 giugno dello stesso anno si è tenuta l’udienza per la presentazione orale degli argomenti dei ricorrenti e dello stato. All’udienza, oltre che gli avvocati dei 24 ricorrenti (in realtà 22, considerando che due nel frattempo sono deceduti) e gli agenti del governo italiano, è intervenuta anche una rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Il ricorso ipotizzava la violazione da parte dell’Italia degli articoli 3 e 13 della Convenzione europea dei diritti umani e dell’art. 4 del Protocollo addizionale n. 4 alla Convenzione stessa. L’art. 3 riguarda il divieto di tortura e di trattamenti inumani, e si ritiene violato sia per aver respinto i 24 ricorrenti verso un paese, la Libia, in cui avrebbero corso il rischio di subire trattamenti inumani; sia per averli esposti al rischio di essere rimpatriati dalle autorità libiche verso lo stato d’origine, dove i ricorrenti dichiaravano di essere oggetto di persecuzione. L’art. 13 riconosce il diritto ad un rimedio effettivo davanti alle autorità nazionali: questa norma sarebbe stata violata dall’Italia in quanto non avrebbe permesso ai ricorrenti di presentare domanda di asilo politico. L’art. 4 del Protocollo n. 4 prevede il divieto di espulsioni collettive di stranieri.
La posizione difensiva del governo italiano si articolava principalmente intorno a tre argomenti. In primo luogo, si contestava la correttezza formale dell’atto di procura firmato, a favore del gruppo di avvocati che li rappresentava, dai ricorrenti e il fatto che questi potessero essere identificati effettivamente come vittime della presunta violazione. In un caso analogo, trattato dalla Corte europea dei diritti umani nel 2010 (Hussun and Others v. Italy ((striking out), nos. 10171/05, 10601/05, 11593/05 and 17165/05, 19 January 2010), la mancanza di firme autentiche sull’atto che autorizzava i legali a trattare la causa e di ulteriori contatti tra i legali stessi e i loro presunti clienti era stato il fondamento per la decisione di cancellare dal ruolo il ricorso. Sul punto, tuttavia, la sentenza della Corte ha riconosciuto l’autenticità delle firme e l’esistenza di effettivi contatti – benché soltanto telefonici o tramite e-mail – tra gli avvocati e le persone vittime dell’operato dello stato, il persistere del loro interesse a continuare a causa e la loro identità di vittime della condotta contestata. Si decide tuttavia di stralciare la posizione dei due ricorrenti deceduti.
Il secondo argomento opposto dallo stato italiano afferma che la vicenda oggetto del ricorso non è avvenuta in un luogo posto sotto la giurisdizione dello stato italiano. I militari italiani che hanno tratto in salvo i profughi africani hanno compiuto un’operazione di salvataggio in mare e non un’azione di polizia; l’intervento è avvenuto in acque internazionali e quindi fuori del territorio italiano. Di conseguenza, la giurisdizione della Corte europea dovrebbe essere esclusa. La Corte non accetta tale argomentazione e afferma che lo stesso codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Non è possibile aggirare la regola invocando il fatto che si è trattato di un’operazione di salvataggio e non di polizia. In ogni caso, tra il momento in cui i profughi sono stati accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi sono stati consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane hanno esercitato su di essi un controllo de facto che impegna la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. (è citata a sostegno la sentenza Medvedyev and Others v. France ([GC], no. 3394/03, 29 March 2010).
Gli agenti dello stato italiano hanno inoltre contestato l’accusa di aver violato l’art. 3 della Convenzione affermando da un lato che la Libia non era, all’epoca, uno stato che presentasse evidenti rischi di maltrattamento ai danni dei profughi rimpatriati, avendo tra l’altro ratificato una serie di convenzioni sui diritti umani (ma non quella del 1951 sullo status dei rifugiati); dall’altro che nessuno dei profughi soccorsi aveva espresso una chiara volontà di chiedere asilo politico in Italia. Entrambi gli argomenti sono stati ampiamente rigettati dalla Corte. In particolare, la Corte ha escluso che gli impegni sottoscritti da Italia e Libia per il contrasto dell’immigrazione clandestina e del traffico di persone potessero escludere o limitare l’applicabilità delle norme internazionali di tutela dei diritti umani (si citano l’Accordo italo-libico di amicizia, partnership e cooperazione del 30 agosto 2008 e l’Accordo sempre bilaterale tra Italia e Libia di cooperazione del 29 dicembre 2007, emendato da un Protocollo del 4 febbraio 2009: è in particolare quest’ultimo protocollo che fa esplicito riferimento all’impegno congiunto di rimpatriare gli immigrati intercettati in mare). La Corte ha osservato inoltre che non solo a bordo delle navi non vi erano interpreti o consulenti legali che potessero agevolare la presentazione di domande di asilo, ma che secondo le testimonianze si era lasciato credere ai profughi che la destinazione del trasferimento offerto dalle navi italiane era l’Italia. La conclusione è che nel respingere verso la Libia i 24 ricorrenti, tutti potenzialmente dei richiedenti asilo, l’Italia ha violato l’art. 3 poiché, secondo i rapporti di stati, ONG e agenzie internazionali, il trattamento riservato dalla Libia agli immigrati clandestini, compresi i richiedenti asilo, era ampiamente al di sotto dello standard accettabile, concretizzandosi in una detenzione arbitraria in condizioni estremamente dure, in particolare per le donne (la sentenza fa rinvio per questi argomenti al precedente fissato da M.S.S. v. Belgium and Greece [GC], no. 30696/09, § 223, 21 January 2011). In più, vi era l’alta probabilità che i potenziali richiedenti asilo fossero rimpatriati nel paese d’origine in cui temevano persecuzioni.
La Corte ha condannato l’Italia anche per violazione dell’art. 13 della Convenzione europea, in quanto la possibilità per i ricorrenti, una volta riportati in Libia, di presentare un reclamo in sede civile o penale contro le autorità italiane per violazione dei loro diritti, appariva puramente teorica e comunque non idonea a tutelare gli individui rispetto ad una violazione particolarmente grave come quella che comporta il subire tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
La Corte ha riscontrato infine (ed è appena la seconda volta che ciò avviene nella storia della Corte) la violazione della norma che proibisce le espulsioni collettive. L’Italia aveva contestato che la norma fosse applicabile, in quanto la fattispecie dell’espulsione è diversa da quella del respingimento, perché presuppone l’ingresso dello straniero nel territorio dello stato, negando quindi che l’art. 4 del Protocollo n. 4 del 1963 potesse essere richiamato per censurare un’azione espulsiva condotta in acque internazionali. La Corte ha osservato che il divieto di espulsioni collettive si applica anche alle violazioni del principio di non refoulement, in quanto il termine “espulsione” usato nell’art. 4 del Protocollo 4, lo si deve interpretare in modo da non lasciare scoperta un’ipotesi di tale rilevanza.
La sentenza cita a sostegno delle proprie conclusioni un vasto numero di norme, a conferma di quanto il principio del non refoulement sia radicato nel diritto internazionale vigente (tra cui, oltre alla Convenzione di Ginevra del 191, art. 33, anche l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea) e non possa in alcun modo essere aggirato, tanto meno qualificando i respingimenti come azioni di soccorso in mare o come operazioni tese a stroncare il traffico di persone e i reati ad esso collegati. Queste pretese giustificazioni sono quelle che il nostro ministero degli interni e il governo avevano all’epoca avanzato per sostenere la liceità e anzi la doverosità dell’operazione del 6 maggio 2009 e delle altre otto operazioni simili condotte nel 2009 sulla base dell’accordo di amicizia e cooperazione tra Italia e Libia.
La Corte impone allo Stato di verificare la situazione attuale dei ricorrenti (molti hanno avuto riconosciuto il loro status di rifugiati, ma non è noto se abbiano subito maltrattamenti o rimpatri da parte della Libia) e corrispondere a ciascuno di loro, a titolo di equo indennizzo, la cifra di 15.000 euro.
26/2/2012