Dichiarazione universale

Articolo 5 - Senza deroghe

Poster con disegno e testo dell'art. 5 della dichiarazione universale dei diritti umani
© UN Photo

Articolo 5

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumani o degradanti.

"Non sono ammesse deroghe al divieto, neppure nel contesto di 'stati di necessità'. La tortura figura nell'elenco dei crimini contro l'umanità, come tale perseguibile anche ai sensi del Diritto internazionale penale e del Diritto internazionale umanitario.

Non c'è bisogno di sottolineare che quanto vietato dall'articolo 5 è tra le cose più ripugnanti che l'essere umano possa mettere in atto a danno dell'integrità psichica e fisica di persone in condizioni di particolare vulnerabilità. Al perentorio divieto sancito dal diritto si accompagnano sdegno, ribrezzo, incondizionata condanna morale.

La Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degranti, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, stabilisce all'articolo 1 la seguente definizione di tortura:

"Qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un reato che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o col suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate".

Si evince che per questa fattispecie di crimini occorre che il soggetto che li perpetra abbia uno status, più o meno elevato, di pubblica autorità. Se questo manca, la fattispecie criminologica assume altro nome. Il danno prodotto dai comportamenti interdetti può essere di natura sia fisica sia psicologica. Il comma 3 dell'articolo 2 della citata Convenzione dispone che "l'ordine di un superiore o di un'autorità pubblica non può essere invocato a giustificazione della tortura". In altre parole, il subordinato può rifiutarsi di eseguire l'ordine del suo superiore e questo non può punirlo. Nei primi mesi della guerra nella ex Jugoslavia, all'inizio degli anni novanta, ci furono molti disertori. L'Asssemblea dei Cittadini di Helsinki, la rete di società civile sognata in carcere da Vaclav Havel e da altri difensori dei diritti umani di "Charta 77",, diffuse allora un documento in cui, con puntuale richiamo del comma 3 citato, si sosteneva la legittimità (diritto-dovere) della diserzione dalla guerra civile (fratricida) assimilando questa alla tortura.

In materia è anche in vigore una Convenzione europea del 1989. In virtù sia di questa sia della Convenzione ONU del 1984 sono in funzione due appositi Comitati formati da esperti indipendenti, col compito di monitorare l'applicazione delle rispettive Convenzioni e, per il Comitato europeo, anche di effettuare visite direttamente nei luoghi di detenzione temporanea (posti di polizia) o permanente (carceri).

Nonostante la pressione esercitata dai pertinenti organi delle Nazioni Unite, il Codice penale italiano non contiene ancora una norma che preveda, espressamente, il reato di 'tortura'. Nei primi anni 2000, ci furono dibattiti e proposte in Parlamento. Ci fu chi avanzò una proposta con una definizione di tortura per così dire lassista avuto riguardo all'entità delle sofferenze psichiche, nel senso che, perché si configurasse il reato, occorreva che la minaccia di inflizione di danno venisse iterata. Insomma, non sarebbe bastato che il pubblico ufficiale dicesse una sola volta "se non parli, ci saranno gravi conseguenze per tuo padre o tua sorella". Avrebbe dovuto ripetere la minaccia due, tre, quattro volte. Vergogna. Il tentativo era di snaturare il concetto fissato dalla Convenzione Onu. Occorre vigiliare perché in Italia il concetto di tortura sia mutuato alla lettera dall'articolo 1 di detta Convenzione.

Nei regimi autoritari la pratica della tortura e di atti equivalenti è all'ordine del giorno. Circolano tuttora manuali di addestramento, anche di sofisticato taglio 'medico', su come infliggere tortura che non comporti però la morte dei torturati. Nella storia recente, si ricordano, tra gli altri, i casi del Cile e dell'Argentina. Più vicino a noi, ci sono i casi di Abu Ghraib e di Guantanamo, abbondantemente corredati di testimonianze, fotografie (e qualche blanda condanna).

Nella situazione di insicurezza che stiamo vivendo, occorre vigilare perché si spengano sul nascere le tentazioni di autoritarismo (v. i Patriot Acts), cioè di disinvolta violazione dei diritti umani, compreso quello all'integrità fisica e psichica, e di elementari principi dello stato di diritto. Senza dimenticare che la pratica del razzismo e della xenofobia si traduce in atti inumani, crudeli e degradanti, assolutamente vietati al pari della tortura.

L'articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ratificato dall'Italia nel 1977) dispone: "1. Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve essere vietata dalla legge. 2. Qualsiasi appello all'odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all"ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge". In sostanza, il razzismo viene equiparato alla guerra. Terreno comune: tortura e comportamenti affini.
Nei nostri paesi democratici, antidoti efficaci sono l'educazione degli operatori della giustizia e delle forze di polizia (e di custodia) al rispetto dei diritti umani e il monitoraggio capillare condotto dalle organizzazioni di società civile e di volontariato."

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