Corte europea dei diritti umani

Il terrorismo internazionale può essere un "pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione", ma le risposte dell'ordinamento che sospendono i diritti umani devono essere proporzionate: il caso A. e altri c. Regno Unito (2009)

Foto panoramica della sede del Palazzo dei diritti umani che ospita la Corte europea dei diritti umani, Strasburgo.
© Consiglio d'Europa

All’indomani dell’11 Settembre 2001, il Regno Unito adotta (dopo un brevissimo dibattito prlamentare) l’Anti-terrorism, Crimes and Security Act 2001. La legge prevedeva, tra l’altro, nella Parte 4 (artt. 21-36), la possibilità di fermare e detenere (senza accuse penali a loro carico) cittadini stranieri ritenuti pericolosi per la sicurezza dello stato, in alternativa alla loro espulsione verso il paese d’origine o alla loro formale incriminazione. L’espulsione poteva rivelarsi infatti impedita (ai sensi dell’art. 3 della Convezione europea dei diritti umani e dello Human Rights Act 1998 che la attua nell’ordinamento britannico) dal pericolo che essi corrono in tale paese di essere sottoposti a tortura o trattamenti inumani. L’istruzione a loro carico di un processo penale potrebbe essere a sua volta impedita dalla carenza di indizi di colpevolezza o dalla presenza di prove coperte da segreto (che non possono quindi essere trasmesse alla difesa) o di prove comunque inutilizzabili in un processo (per es. ottenute attraverso la tortura).

La base per tale detenzione (applicabile, si ricorda, solo a stranieri) è una “certificazione” (certification) emessa dal ministero dell’interno, con la quale viene affermata la pericolosità dell’individuo in ragione dei suoi legami con il terrorismo internazionale. Contro tale certificazione è possibile appello ad una speciale commissione (Special Immigration Appeals Commission - SIAC), normalmente competente per i casi di immigrazione, la cui decisione è a s sua volta impugnabile davanti all’autorità giudiziaria.

Tale meccanismo appare alle stesse autorità britanniche incompatibile con l’art. 5 della Convenzione europea dei diritti umani. Il governo pertanto emette l’11 novembre 2001 e notifica al Consiglio d’Europa il 18 dicembre 2001 la propria decisione (fondata sull’art. 15 della Convenzione europea sui diritti umani) di derogare all’art. 5.1 della Convenzione stessa per un periodo iniziale di 15 mesi, rinnovabili di anno in anno con atto del Parlamento. Il regime di emergenza è cessato nel marzo 2005, con l’approvazione del nuovo Prevention of Terrorism Act 2005, che ha anche abrogato le disposizioni del 2001 sui sospetti terroristi stranieri.

Negli anni tra il 2001 e il 2005, 12 stranieri sono stati sottoposti a tale misura e detenuti in un carcere londinese di massima sicurezza per periodi più o meno lunghi. Tra questi, la figura forse di maggior rilievo è Omar Mahmoud Mohammed Othman, più noto come Abu Qatada, un influente predicatore islamista di origine palestinese-giordana.

Dopo il loro fermo, avvenuto tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002, i primi sette degli 11 ricorrenti hanno impugnato il provvedimento di limitazione della libertà personale davanti alla commissione competente (il SIAC), contestando la legittimità della deroga introdotta dal governo britannico, la violazione di varie disposizioni della Convenzione europea, nonché la inconsistenza dei sospetti di terrorismo su cui si fondava la loro certification. Il SIAC emise la sua decisione il 30 giugno 2002, dichiarando che sia le informazioni di pubblico dominio, sia le fonti segretate confermavano l’esistenza di un’emergenza legata al terrorismo, ma rinviando una valutazione sulla fondatezza e sulla base giuridica della certification ad una fase successiva. Il SIAC negò che il trattamento previsto e, in particolare il carattere indeterminato della durata della misura restrittiva, rappresentasse di per sé trattamento inumano (ogni sei mesi essa era infatti soggetta a revisione) e smentì che il procedimento di certificazione fosse in contrasto con l’art. 6 della Convezione europea, dal momento che esso non aveva i carattere del procedimento giudiziario. Per quanto riguarda la portata della deroga all’art. 5.1, il SIAC ne riconobbe il carattere irragionevole e discriminatorio, in quanto il regime da essa introdotto valeva solo per i sospetti terroristi stranieri e non quelli di nazionalità britannica. L’autorità giudiziaria, investita del caso dai ricorrenti che avevano impugnato la decisione del SIAC, sul tema della presunta illegittimità della deroga ribaltò la decisione del SIAC (25 ottobre 2002), ritenendo ragionevole la distinzione fatta dal legislatore tra sospetti stranieri (sottoposti alla misura preventiva quale alternativa all’espulsione) e sospetti cittadini britannici (per i quali invece un’accusa penale rimaneva necessaria ai fini della privazione della libertà). Sul punto della compatibilità tra procedimento di certification e art. 6 della Convenzione europea, la Corte britannica precisò che si trattava di un procedimento giudiziario di natura “civile” (a cui potevano quindi applicarsi gli standard dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti umani), ma che esso appariva fondamentalmente rispettoso – sia pure con alcune peculiarità legate al contesto emergenziale – delle garanzie dell’equo processo.

Il caso (nel frattempo ai sette originari ricorrenti se ne erano aggiunti altri due) passò quindi alla Camera dei Lords (decisione del 16 dicembre 2004 ([2004] UKHL, 56). I lords conclusero che le misure introdotte dall’Anti-terrorism, Crimes and Security Act 2001 erano senz’atro in contrasto con l’art. 5.1 della Convenzione europea, poiché i casi di privazione della libertà da esso considerati vanno intesi come tassativi e l’ipotesi di detenzione dei sospetti prevista dalla Parte 4 del provvedimento non rientrava in alcuno di essi (in particolare, non poteva ricomprendersi nell’ambito dell’art. 5.1, lettera f); la disposizione era inoltre discriminatoria, e quindi contraria all’art. 14 della Convenzione. L’alta corte considera quindi, alla stregua dello Human Rights Act 1998, la legittimità della deroga decisa dal governo e dal parlamento nel 2001. Secondo la maggioranza dei giudici, la situazione che il paese doveva fronteggiare era effettivamente un’emergenza che minacciava la vita della nazione (anche se probabilmente non costituiva un pericolo “imminente”); tuttavia le misure introdotte dalla Parte 4 della legge anti-terrorismo, applicabili solo ai sospetti terroristi stranieri, non potevano essere considerate una risposta proporzionata alla minaccia e apparivano più uno strumento volto a colpire con misure eccezionali i soli sospetti stranieri – misure oltretutto contraddittorie in quanto permettevano l’espulsione dei sospetti verso paesi diversi da quelli in cui si rischiavano trattamenti inumani, senza considerare che le attività che costituivano minaccia alle istituzioni e ai cittadini britannici potevano comunque essere condotte anche dall’estero. I giudici evidenziarono che l’ordinamento britannico prevede una serie di misure diverse dalla detenzione che potevano essere applicate alle persone sospette di avere rapporti con organizzazioni terroristiche e che apparivano maggiormente rispettose del fondamentale diritto alla libertà personale. L’atto che prevede la deroga all’applicabilità dell’art. 5.1 doveva quindi essere annullato; la corte emise inoltre una “dichiarazione di incompatibilità”, ai sensi dell’art. 4 dello Human Rights Act 1998, delle norme della Parte 4 della legge antiterrorismo del 2001 in rapporto alla Convezione europea.

Secondo lo Human Rights Act, tuttavia, da tale dichiarazione di incompatibilità non precludono la validità dell’atto incompatibile, né sono vincolanti per i giudici presso cui una controversia connessa è pendente: l’unica conseguenza è quella di imporre al legislatore l’adozione di misure volte a modificare la disposizione in questione per allinearla alle norme della Convenzione europea. A maggior ragione, la dichiarazione di incompatibilità non comportava liberazione dei detenuti né attribuiva loro titolo ad un indennizzo.

Nell’ottobre 2003, il SIAC si pronuncia sulla legittimità del procedimento di certification in relazione ai singoli ricorsi presentati dagli stranieri detenuti in base alla legge antiterrorismo del 2001. Il SIAC ritenne di confermare i sospetti che i ricorrenti erano legati ad organizzazioni terroristiche quali, tra le altre, il gruppo salafita algerino per la predicazione e il combattimento, che appaiono connesse ad Al Qaueda e quindi che i loro affiliati rientravano tra i soggetti pericolosi ai quali si riferisce la Parte 4 della normativa antiterrorismo del 2001. Il fondamento di tali sospetti non doveva necessariamente essere rappresentato da prove in senso giudiziario, ma anche da inferenze basate su considerazioni probabilistiche; queste a loro volta si potevano fondare sia su informazioni di pubblico dominio, sia su dati coperti da segreto, e quindi non suscettibili di essere comunicati ai legali dei ricorrenti. Potevano essere trattate a questo fine, secondo il SIAC, anche informazioni acquisite con la tortura, anche se naturalmente queste ultime informazioni vanno trattate con estrema prudenza da parte del SIAC e dei giudici. Nell’agosto 2004 la Corte d’appello, davanti a cui è presentato ricorso contro la decisione del SIAC in relazione all’ammissibilità nel giudizio di certification delle informazioni ottenute con la tortura, conferma il giudizio del SIAC. L’8 dicembre 2005, tuttavia, la Camera dei Lords ribalta le decisioni del SIAC e della corte d’appello, riconoscendo che “The objections to the admission of evidence obtained by the use of torture are twofold, based, first, on its inherent unreliability and, secondly, on the morality of giving any countenance to the practice” (Carswell, [2005] UKHL 71).

Nel frattempo, nel corso del 2003 e del 2004, il SIAC ribadiva la perdurante pericolosità di tutti i sospetti terroristi trattenuti in regime di privazione della libertà personale. Uno di loro, tuttavia, riconosciuto cittadino francese, viene autorizzato a rientrare in Francia: la sua “certificazione” viene pertanto revocata.

Dal marzo 2005, come già osservato, il regime di detenzione dei sospetti terroristi è stato abolito ed è stata ritirata anche la deroga all’art. 5.1 della Convenzione. La maggior parte dei ricorrenti si trova oggi sottoposta a misure di sicurezza rigorose, diverse tuttavia dalla privazione della libertà presso centri di detenzione di massima sicurezza; alcuni sono sottoposti a trattamento sanitario, lamentando sindromi psicotiche sulle quali ha probabilmente influito negativamente anche il periodo di detenzione. Alcuni sono stati trasferiti in centri di detenzione per essere espulsi nel paese d’origine. Due algerini e Abu Qatada hanno contestato la decisione presa dal SIAC di deportarli nei rispettivi paesi (Algeria e Giordania). Il loro ricorso si basa su vari argomenti: in primo luogo, la possibilità che tra gli elementi che il SIAC ha esaminato per determinare la loro pericolosità, vi possano essere state anche informazioni provenienti da dichiarazioni rese sotto tortura; in secondo luogo si evidenzia il reale pericolo di subire tortura o trattamenti inumani una volta ricondotti nel paese d’origine; infine, nel caso di Abu Qatada, si osserva che informazioni ottenute tramite tortura potrebbero essere utilizzate nell’ambito del processo penale che dovrà subire davanti al tribunale militare giordano. Il giorno precedente la pubblicazione della sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso in esame, anche la camera del Lords ha emesso la propria decisione sui ricorsi presentati dai tre in attesa di espulsione ([2009] UKHL 10). La sentenza conferma la legittimità del provvedimento di espulsione, accettando le assicurazioni provenienti da Algeria e Giordania circa il rispetto, nei riguardi degli espulsi, degli standard di trattamento previsti dalle norme internazionali e riscontrando che non esistono nei due paesi motivi sostanziali per ritenere (substantial grounds for believing) che saranno sottoposti a trattamenti inumani. La decisione appare difficilmente compatibile con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (v. per es. Saadi c. Italia, 2008; Na c. Regno Unito, 2008; v.  anche, più di recente e con riferimento ad una persona condannata in Francia per fatti di terrorismo e minacciata di espulsione in Algeria, Daoudi c. Francia, 2009. La decisione dell’autorità britannica sarà quindi con ogni probabilità impugnata a Strasburgo.

Davanti alla Corte europea dei diritti umani, con il ricorso del 2005 gli 11 ricorrenti lamentano la violazione da parte del governo britannico degli articoli 3 (anche congiuntamente con l’art. 13), 5.1 (anche in congiunzione con l’art. 14 e con l’art. 13); 5.4, 5.5 e 6. Gli argomenti sono fondamentalmente quelli che erano già stati presentati davanti alla giurisdizione inglese e che avevano avuto apprezzamenti di tipo alterno, come abbiamo visto.

Rispetto alla presunta violazione dell’art. 3 (il carattere particolarmente duro delle condizioni di detenzione; la aleatorietà delle misure alternative alla detenzione previste dalla normative; l’instabile stato mentale di alcuni dei ricorrenti dalle condizioni detentive), la Corte esclude che vi sia stata violazione; oltretutto non risultava che i ricorrenti avessero utilizzato i rimedi previsti dalla legge inglese per i detenuti nelle loro condizioni.

La presunta violazione dell’art. 5.1 solleva davanti alla Corte europea il tema della legittimità della deroga fatta nel 2001 dal governo britannico in relazione appunto a tale norma della Convenzione europea. Nonostante in un primo tempo il governo inglese avesse tenuto di non sollevare la questione, rimettendosi alla decisione della camera dei lords del 2004 ([2004] UKHL, 56), quando il caso fu rinviato alla Grand Chamber il governo decise di ripresentare il propri argomenti a favore della legittimità dell’atto di deroga, pur essendo stati già respinti dai lords. La Grand Chamber decide che non ci sono ragioni per cui non debba trattare della legittimità dell’azione del governo britannico alla stregua degli artt. 5 letto alla luce della deroga decisa da Londra e della legittimità della deroga stessa.

L’art. 5.1, secondo la giurisprudenza costante della Corte europea, stabilisce in modo tassativo ed esaustivo le ragioni che possono legittimamente giustificare la limitazione della libertà personale. Nel caso specifico, la orme invocabile sembra essere la lett. dell’art. 5.1: “arresto o detenzione regolare di una persona … contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione”. In realtà, il Regno Unito non stava affatto procedendo alla loro espulsione o estradizione, anzi: li tratteneva proprio perché tali misure erano impraticabili, con l’eccezione di due degli 11 ricorrenti: uni di loro infatti ritornò volontariamente in Marocco tre giorni dopo l’arresto, mentre un secondo rientrò dopo tre mesi di detenzione in Francia, paese di cui aveva la cittadinanza. Negli altri casi, invece, la lunga detenzione risultava dettata soltanto dal sospetto (non sufficientemente confortato da prove sufficienti per un’incriminazione) che si trattasse di terroristi internazionali: un’ipotesi non contemplata dall’art. 5.1 della Convenzione. Si è trattato quindi di violazione dell’art. 5.1. A questo punto entra in considerazione la deroga disposta dal Regno Unito nel dicembre 2001 appunto all’art. 5.1. La Corte osserva che la questione è già stata decisa dal supremo giudice britannico, e la sua decisione potrebbe essere ribaltata dalla Corte di Strasburgo solo se risultasse manifestamente irragionevole. Il punto più critico della decisione dai lords del 2004 riguardava il carattere “imminente” del pericolo terrorismo che minacciava la nazione. La Corte osserva che sia il Regno Unito, sia la Turchia, nei casi in cui hanno comunicato al Consiglio d’Europa il loro intento di avvalersi della clausola dell’art. 15, lo hanno fatto in presenza di situazioni di emergenza già esplose e non semplicemente previste (i troubles in Irlanda del Nord e l’emergenza in Kurdistan). In questo caso invece il pericolo era solo previsto. La Corte tuttavia non ritiene di dover applicare un criterio tropo rigido e stretto, per cui lo stato sia tenuto ad attendere che l’evento traumatico lo compisca prima di poter decretare lo stato d’emergenza. Altra caratteristica discutibile della situazione di eccezionalità esistente in Gran Bretagna  nel 2001 era la sua durata indefinita. Il Comitato sui diritti umani delle Nazioni Unite, nel General Comment n. 29 del 2001, ha stabilito che l’emergenza che giustifica la sospensione dei diritti stabiliti dal Patto sui diritti civili e politici deve essere di natura eccezionale e temporanea. La Corte europea invece non ha adottato standard particolari, per cui anche uno stato di emergenza di durata indefinita può risultare legittimo. Infine, si contesta la gravità, per al vita della nazione, del pericolo islamista. Il Regno Unito in effetti è stato l’unico stato europeo ha derogare alle disposizioni della Convenzione. La Corte di Strasburgo decide tuttavia che tale questione attiene alla responsabilità del singolo governo e non può essere oggetto di revisione da parte sua. Appurato che una situazione di emergenza esisteva, la Corte si chiede se la risposta britannica, consistente nella limitazione delle disposizioni dell’art. 5.1, fosse strettamente proporzionale. La risposta, in linea con quando già deciso dai lords nel 2004, è negativa, almeno con riferimento ai nove ricorrenti su 11 che non sono stati prontamente liberati e hanno lasciato l’Inghilterra dopo il loro arresto.

Come sopra detto, la dichiarazione di incompatibilità emessa dai lords tra la normativa britannica e la Convenzione europea, non ha prodotto risultati concreti per i ricorrenti: ciò implica una violazione dell’art. 5.4, il quale prevede che “Ogni persona privata della libertà … ha il diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima”. La norma sarebbe stata violata dallo stato in due forme: in primo luogo perché, anche dopo la decisione dei lords, non è stato possibile per i ricorrenti sottoporre ad un giudice la loro domanda di habeas corpus; in secondo luogo perché sul ricorso da loro presentato contro la prima decisione del SIAC, la procedura d’appello davanti all’autorità giudiziaria prevedeva una procedura speciale, motivata dalla circostanza che alcune delle informazioni portate dallo stato a sostegno della privazione di libertà dei ricorrenti erano coperte da segreto, e di esse sono stati informati non i difensori dei ricorrenti stessi, ma, in ciò consiste il carattere ad hoc della procedura, degli avvocati speciali, a loro volta tenuti al segreto, anche nei confronti dei ricorrenti loro clienti.  In pratica, quindi, mentre i membri della ISAC potevano conoscere sia il materiale noto, sia quello segregato su cui si basava la certification delle persone arrestate, i ricorrenti e i loro avvocati potevano conoscere solo le informazioni rese pubbliche; quelle riservate erano comunicate ad altri special advocates, i quali però no potevano comunicare con i ricorrenti. La Corte rpecisa che questo tipo di procedure speciali, motivate dal carattere confidenziale delle informazioni oggetto della controversia, non è ignoto ai sistemi giudiziari. Si tratta perciò di verificare se nel caso concreto la decisione sui singoli ricorrenti è stata adottata avendo come fondamento in modo preponderante informazioni segregare (e quindi non contestabili dai ricorrenti), oppure informazioni note, che l’individuo ha potuto pienamente contestare. Nel caso di quattro ricorrenti, la Corte europea ha concluso che informazioni decisive in relazione alla loro certification come terroristi non sono state loro comunicate, e quindi che nei loro riguardi l’habeas corpus non è stato rispettato nella misura minima.

Ultimo punto contestato, il diritto ad un risarcimento, previsto dall’art. 5.5. La Corte dispone che questo diritto, che vale per i nove ricorrenti che hanno subito violazione dell’art. 5.1 e per i quattro che hanno subito la violazione anche dell’art. 5.4, non è stato rispettato. Anche di questoquindi il Regno Unito è ritenuto responsabile. La pretesa violazione dell’art. 6 è ricompresa nella questione della violazione dell’art. 5.1 e 5.4. La Corte infine condanna lo stato a pagare dei modesti indennizzi ai ricorrenti (una media di circa 2000 euro a testa).

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